Accelerazione dello sviluppo economico; enormi di risorse minerarie, energetiche e agricole; rilevante domanda di importanti infrastrutture; grandi disponibilità di forza lavoro a basso costo; ampie superfici coltivabili non ancora sfruttate (è stato calcolato che con i mezzi disponibili l’Africa potrebbe nutrire 7 miliardi di persone – l’attuale popolazione mondiale).
Sono i principali fattori che attraggono potenze occidentali e paesi emergenti nel continente africano in una “nuova contesa per l’Africa”. Gli imperialismi europei, mentre cercano di difendere le posizioni conquistate come potenze coloniali contro la pressione americana, l’irrompere della Cina e la penetrazione dell’India, si contendono le relative aree di influenza.
L’imperialismo è ancora una realtà nell’Africa “libera”. L’Italia, che si macchiò di atrocità e nefandezze in Libia e Corno d’Africa, è ancora là, coi propri capitali e i soldati altrui. Le classi dirigenti locali, spesso corrotte sono spesso strumenti della nuova penetrazione. Ma lo sviluppo capitalistico fa crescere il giovane proletariato africano, che dalle sponde del Mediterraneo ha lanciato i primi segnali del futuro.
Nello sviluppo africano i grandi gruppi multinazionali vedono nuove opportunità di profitto non solo nello sfruttamento di materie prime minerarie e agricole, ma in misura crescente anche nella conquista di nuovi mercati, e nella costruzione delle infrastrutture necessarie per sfruttarli e collegarli. La sottosegretaria americana W.R. Sherman parla di sviluppo della “prossima grande frontiera economica” e, riprendendo l’analisi della società di consulenza economica McKinsey, sottolinea che l’Africa vanta il più alto tasso di rendimento per gli Investimenti Esteri Diretti (IED) di tutte le regioni in sviluppo; dal 1990 per gli investitori Usa il rendimento è attorno al 29%. Secondo un’indagine su oltre 950 imprese africane del Centre for the Study of African Economies di Oxford, il rendimento sul capitale investito è mediamente superiore dell’11% a quello in America Latina e Asia.
Ecco perché gli IED in Africa sono in crescita, dai $20MD del 2001 ai $72MD nel 2008; i dieci maggiori paesi destinatari sono i paesi produttori e/o esportatori di petrolio e altri minerali, nel 2000-2009, Angola, Nigeria, Sudan, Libia e Congo, Rep. Dem. del Congo.
Tradotto politicamente, si tratta di miliardi di plusvalore che i gruppi capitalistici europei, di Usa, Cina, India etc. si contendono. Le metropoli imperialiste europee sanno bene che i loro legami storici non garantiscono di per sé il mantenimento dei vantaggi acquisiti con la violenza coloniale.
Dal Mali all’Africa Centrale
Le potenze europee e gli Usa che finora hanno mantenuto la preminenza storicamente acquisita, si vedono erodere quote di commercio e di investimenti dall’ingresso dei paesi emergenti, Cina in primis.
Si va intensificando perciò l’impegno economico, militare e diplomatico europeo in Africa Centrale ed Orientale, dalla Tanzania all’Etiopia, dove appare concentrarsi l’instabilità geopolitica dell’Africa nel conflitto tra Nord e Sud Sudan, nel Corno d’Africa, che alla sua rilevanza geopolitica aggiunge le nuove scoperte di petrolio, nella regione dei grandi laghi, in Kenya e Uganda, e recentemente anche in Africa Occidentale, nel Mali, 3° maggior produttore africano di oro. Il conflitto tra il movimento dei ribelli tuareg,1 nella regione dell’Azawad (area per lo più desertica nel Nord del Mali) e le forze armate del Mali, si è inasprito da metà gennaio e sta assumendo contorni di guerra civile; causa scatenante della ripresa del conflitto, pacificato sommariamente nel 2009, il rientro di migliaia di mercenari dalla Libia, con le armi prese dagli arsenali libici, che nella loro regione hanno trovato condizioni di vita molto precarie.
A Bamako si sospettano manovre da parte della Francia che, per indebolire il regime di Gheddafi, avrebbe favorito il ritorno in Mali dei guerriglieri promettendo loro, in cambio dell’abbandono del rais, di sostenere le aspirazioni autonomiste dell’Azawad.
Sullo sfondo delle tensioni in Mali ci sono le forti divergenze tra i paesi occidentali per la loro influenza geostrategica nella regione del Sahel, soprattutto tra Germania e Francia. Da un decennio il Mali è in alleanza militare con USA e Francia, l’ex colonizzatore, contro Aqmi,2 che ha la sua base in una foresta del Mali. La Francia ha mantenuto una posizione di forza nella sua ex colonia e cerca di mantenerla con una linea unilaterale di intervento politico e militare. Anche nella questione tuareg ha iniziato a intervenire nel Nord del Mali con proprie truppe e con quelle della Mauritania, bypassando il governo di Amadou Toumani Touré, che sembrava voler integrare i tuareg nelle istituzioni statali. Minacce di un intervento militare in Mali anche da parte di Ecowas, per contrastare la creazione di un nuovo Stato che potrebbe finire in mano a Aqmi. La Germania cerca di rafforzare la propria posizione a scapito di Parigi proponendosi come alternativa di cooperazione con i vari paesi, Algeria in particolare, e con le associazioni sovrarregionali alla politica neocoloniale francese. Al Safari gli Stati europei vanno spesso ognuno per proprio conto.
Anche in Africa Centrale gli imperialismi europei e gli USA addestrano, finanziano e utilizzano soldati messi a disposizione dai paesi africani, ciascuno cercando di accrescere la propria influenza, con il pretesto di combattere i ribelli LRA – Lord’s Resistance Army). Gli USA hanno inviato forze speciali in Uganda, Sudsudan, Rep. Centrafricana e Rep. Democratica del Congo. Anche la Ue da dicembre 2011 ha aderito all’intervento militare Onu+Unione Africana (UA) contro LRA. Il 26 marzo 2012, si è aggiunta un’altra spedizione militare a guida UA, la RTF (Regional Task Force), composta da 5000 soldati di Uganda, Rep. Dem. Congo e Sudsudan; e poi ancora una missione congiunta Onu+UA in Congo (DRC) e Rep. Centrafricana (CAR).
Assieme alla contesa tra le potenze, è aumentato negli ultimi 5 anni in Africa l’acquisto dei grandi sistemi d’arma di oltre il 53% rispetto al quinquennio precedente – con un’impennata nei paesi del Nordafrica (+72%); nel complesso dell’Africa subsahariana (+29%), Sudafrica, Nigeria e Uganda sono i maggiori acquirenti.
Nuove alleanze in Africa Orientale
Nei primi mesi del 2012 sono apparsi nuovi segnali della contesa tra le potenze e i grandi gruppi in Africa Orientale, area interessante perché ricca di gas e petrolio.
Riferendosi alla Conferenza di Londra (23.02.’12) dei rappresentanti di 40 paesi e organizzazioni multilaterali per concordare un nuovo approccio alla questione somala, The Guardian (25.02.’12) titola: “La Gran Bretagna guida la corsa alla prospezione per il petrolio nella Somalia dilaniata dalla guerra”; “La Somalia promette petrolio all’Occidente mentre i diplomatici si impegnano a sconfiggere al-shaab”.
Ma nel Corno d’Africa, che si protende verso l’Oceano Indiano e perciò tra due continenti, si gioca una partita più ampia. Le attività militari nell’Oceano Indiano, e nel Corno d’Africa, servono a decidere chi in futuro avrà la preminenza in un mare definito «regione chiave di tutti i mari, e decisiva per la futura struttura di potenza dell’Asia».
La UE ha deciso di ampliare di due anni, fino al dicembre 2014, la durata della missione ATALANTA nell’Oceano Indiano (la prima operazione navale della UE) contro i pirati somali, iniziata nel 2008. È stato modificato anche il mandato della missione, ora le navi da guerra europee possono attaccare obiettivi di terra e di mare. Il provvedimento è rilevante per la Germania perché la Bundeswehr ha un ruolo importante nella missione, alla quale fornisce la sua maggiore nave da guerra, la Berlin, con 230 uomini di equipaggio. Il think tank tedesco SWP sostiene che occorre attestarsi con la maggior potenza possibile della marina, dispiegare sommergibili tedeschi di fronte al Corno d’Africa. La UE ha addestrato forze della missione AMISOM della Unione Africana (UA), che sotto mandato ONU sta conducendo operazioni militari in Somalia. Grazie ai finanziamenti UE e Onu, Amisom aumenterà di 5 000 soldati il suo contingente.
La Francia, preoccupata di difendere gli interessi di Total, presente in Kenya dal 1955 e interessata ai diritti di esplorazione kenioti e al loro ampliamento a seguito della recente scoperta di cospicui giacimenti petroliferi offshore in Mozambico e in Tanzania, appoggia l’offensiva militare in Somalia del Kenya, ex colonia britannica, mentre 14 milioni di somali soffrono la fame. L’operazione “Linda Nchi” (protezione della nazione), lanciata dal Kenya nell’ottobre 2011 contro le milizie al-Shabaab, ha come obiettivo il controllo delle regioni somale del Basso e Medio Juba, della città portuale somala di Chisimaio. Raggiunti questi obiettivi si aggiungerebbe l’ampliamento delle acque territoriali del Kenya a discapito di Mogadiscio, con una possibile ricaduta per Total, che nel settembre 2011 ha acquisito il 40% di cinque blocchi di esplorazione petrolifera offshore nel bacino di Lamu.
A gennaio l’Italia – che alla Somalia ha imposto le nefandezze e gli orrori di un dominio coloniale seguiti poi da un’amministrazione fiduciaria – ha fatto circolare una proposta non ufficiale per la “risoluzione” del conflitto somalo: sostituire le istituzioni federali con un’amministrazione internazionale di Onu e Unione africana, secondo un modello simile a quello dell’Autorità guidata da Paul Bremer, imposta sull’Iraq subito dopo la caduta di Saddam Hussein.
Diversamente dalla Francia, Italia e Gran Bretagna hanno infatti mostrato scarso entusiasmo per le manovre militari del Kenya.
Su quest’area si concentrano una serie di interessi economici e politici locali e internazionali. Ne è una sintesi il progetto LAPSSET (Lamu Port South Sudan Ethiopia Transport Corridor – Corridoio di Trasporto porto di Lamu – Sudsudan – Etiopia), il maggior progetto infrastrutturale ad oggi in Africa.3 Lanciato dal Kenya, assieme a Somalia e Sudsudan, (costo $23MD) il progetto interessa a Qatar, India, EAU e USA; l’India e la African Development Bank sono stati invitati dal Kenya a finanziarlo. Il maggiore protagonista è però finora la Cina, il maggior partner del Kenya nel settore delle infrastrutture (con una quota del 60%).4 La Cina si è già accaparrata in Kenya la commessa per l’ampliamento dell’autostrada Thika-Nairobi, che farà da collegamento con la Trans-African Highway/Great North Highway, tra l’Egitto e il Sudafrica. Inoltre, la Cina ha vinto, contro il Qatar, la gara per la costruzione del grande porto di Lamu. La società di consulenza Botho prevede che, continuando la tendenza, presto gli IED di Cina-India-Iran in Kenya supereranno quelli della Gran Bretagna, finora dominante.
La Cina, già fortemente presente nel settore petrolifero sudanese di cui importa 220mila dei 330mila b/g prodotti (il 5% di tutto il petrolio importato), dopo essere stata per anni il patrono del regime di Khartoum, ora con la partecipazione al progetto LAPPSET stringe buoni rapporti anche neonato Stato Sudsudan, dove è situata la maggior parte dei giacimenti, nonostante la guerra apertasi con il Sudan per il controllo di vaste aree petrolifere. E questo nonostante che la costituzione di questo nuovo Stato, che per la prima volta infrange i confini coloniali, fosse stata favorita dagli Stati Uniti e dagli europei anche in funzione anti-cinese. L’oleodotto Lamu-Juba dovrebbe rendere indipendente il Sudsudan da quello verso il terminal di Port Sudan, controllato da Khartoum.
Il fabbisogno di investimenti per infrastrutture dell’Africa, sarebbe pari a $93MD l’anno; ne sta ricevendo solo $45MD, ne mancherebbero $48MD.6 Queste infrastrutture sono necessarie per collegare tra loro gli Stati africani, ora integrati più con le ex potenze coloniali e i paesi emergenti che tra di loro. Secondo la African Development Bank, l’esportazione tra i paesi africani rappresenta solo il 9,6% del totale dell’export africano, contro il 20% in America Latina e il 48% tra i PVS asiatici.
La Cina si sta ritagliando una posizione di primo piano anche nel settore infrastrutture, storicamente uno dei primi settori in cui ha investito in Africa; è oggi impegnata a finanziare infrastrutture in oltre 35 i paesi africani, Nigeria, Angola, Sudan e Etiopia, Kenya i maggiori. Pechino appoggia la presenza dei gruppi cinesi in Africa con una serie di banche statali: Exim Bank, China Development Bank (CDB), che ha lanciato il China-Africa Development Fund per sostenere gli investimenti esteri diretti in Africa, e SINOSURE che assicura i rischi per l’export e gli investimenti.
Assieme agli investimenti in infrastrutture, la Cina sta invadendo i mercati africani di beni di consumo a basso prezzo. Se ciò da un lato permette a molti africani di accrescere i propri consumi, dall’altro ostacola la crescita di un’industria manifatturiera locale, come avviene anche in America Latina, dove ha provocato reazioni protezioniste. Sottolinea l’African Development Bank Group che «alcuni settori africani soffrono una riduzione di produzione e occupazione a causa della competizione con la Cina, sia all’interno che in mercati esteri».
La Cina, che 110 anni fa veniva invasa e spartita tra Germania, Austria-Ungheria, Belgio, Spagna, Stati Uniti, Francia, Inghilterra, Italia, Giappone, Olanda e Russia che imposero il pagamento di un enorme indennizzo per 39 anni e il controllo sul sistema fiscale, si prende la rivincita penetrando con la sua forza economica tra le ex colonie africane dell’Europa. Ma giungerà anche il secondo momento dell’Africa. Il primo fu quello delle lotte di liberazione nazionale, che trovarono scarso appoggio nel movimento operaio europeo. Il prossimo sarà quello del giovane proletariato africano, speriamo questa volta con a fianco quello d’Occidente e d’Oriente.
1. Mnla (Mouvement national de libération de l’Azawad)
2. Al-Qaeda del maghreb
3. Il progetto LAPPSET prevede la costruzione di un grande porto 5 volte più grande di quello di Mombasa, di una rete ferroviaria, autostradale, di aeroporti, cablaggio in fibre ottiche, oleodotto (1500 km) e rete idrica, una raffineria, centrali elettriche.
4. Stime Botho Advisory Group, società di consulenza, Kenya
5. Abdoul Mijiyawa, dell’African Centre for Economic Transformation, Ghana
[da ‘PagineMarxiste’ n°30 maggio ’12]