Negli ultimi mesi il coronavirus ha consentito a politici e media italiani di distrarre l’attenzione da ciò che avviene a poche decine di Km a sud dell’Italia. Dopo mesi dedicati a dibattere del “pericolo invasione”, della “minaccia” rappresentata dagli immigrati, oggi ben pochi sollevano il problema che la Libia sia diventata una polveriera o che il Mediterraneo sia affollato non di navi da crociera, ma di navi militari. Ignorata dai media e dall’italiano medio è iniziata la missione IRINI, “a guida italiana”, come pomposamente ha sottolineato il Ministro degli Esteri Luigi di Maio. In teoria per far rispettare l’embargo proclamato dall’Onu sulle armi dirette in Libia. In realtà è un tentativo dei paesi UE di attenuare le divisioni interne per tentare di determinare l’esito del conflitto libico, a fronte dell’accresciuto interventismo di Turchia, Russia, Emirati. L’Italia, con l’ENI che è la prima compagnia petrolifera in Libia, è l’imperialismo con più interessi in gioco, mentre la Francia si trova sul fronte opposto. L’ipocrita coro diplomatico di tutti i paesi chiede a gran voce il cessate il fuoco e l’inizio di colloqui di pace, mentre tutti armano uno o entrambi i contendenti. Sono aumentati i pretendenti alla spartizione della Libia, mentre è sempre più drammatica la condizione dei civili e degli immigrati ammassati nei lager libici, entrambi minacciati dall’espansione del coronavirus.
Civili e immigrati nella morsa della guerra e del virus
Nel corso della guerra civile che dura da 9 anni, il fronte in Libia si è cristallizzato in uno scontro fra il governo di Tripoli guidato da Serraj (il GNA – Government of National Accord) e l’esercito di Tobruk guidato da Haftar (l’LNA – Libyan National Army). Diciassette mesi fa Haftar ha sferrato un attacco a Tripoli, senza peraltro arrivare a risultati decisivi. Nell’ultimo mese anzi, grazie all’aperto sostegno armato fornito dalla Turchia a Serraj, Haftar è in difficoltà.
Le conseguenze sui civili sono drammatiche: 200 mila sfollati interni, crollo della produzione petrolifera, carenza di rifornimenti alimentari e aumento vertiginoso dei prezzi di cibo e carburante. Circa 900 mila persone soffrono la fame o sono fortemente denutrite. Tripoli e i villaggi vicini sono stati più volti bombardati. Ospedali, scuole, case sono stati pesantemente danneggiati. Postazioni strategiche a sud e a est di Tripoli sono state prese e perse più volte dai due contendenti, a prezzo di centinaia di morti (non esistono statistiche, ma solo dati frammentari). Il flusso degli immigrati centroafricani è rallentato, ma nei lager libici sono imprigionati in condizioni drammatiche ancora 650 mila migranti (dati Onu su Al Jazeera 5 aprile 2020). Migranti, sfollati e civili in genere sono sempre più minacciati dal diffondersi del coronavirus. Non esistono statistiche attendibili sul numero di contagiati e di decessi. Ma quel che è noto è che in Libia esistono solo 500 posti letto, concentrati nelle poche città importanti (100 a Tripoli, 65 a Zintane, 35 a Kufra, 30 a Sabratah e Gat. Il tutto il paese ci sono 200 ventilatori. Non è possibile fare tamponi, non ci sono mascherine, camici protettivi ecc. Parlare di distanziamento nei ricoveri di fortuna e nei lager libici è grottesco.
L’internazionalizzazione del conflitto libico aumenta. Prove di spartizione della Libia.
La dipendenza di entrambi i contendenti libici dal supporto delle potenze regionali e dagli imperialismi è totale. Dagli inizi del 2020 l’internazionalizzazione del conflitto è aumentata e di conseguenza anche l’escalation militare, grazie soprattutto all’intervento diretto di russi, emiratini e turchi. Come si diceva, la Turchia ha aiutato Serraj a liberare Tripoli dalla morsa di Haftar. Poi è stata decisiva per riconquistare la base aerea di al-Watiya e interrompere i rifornimenti ad Haftar dalla Cirenaica. Fino a una settimana fa la Turchia poteva contare solo sulle sue fregate Barbaros di fabbricazione tedesca, ancorate nel Golfo di Sirte. Ora può trasformare al-Watiya in una grande base per la propria aeronautica. Nel frattempo gli Emirati coi loro Mirage bombardavano le postazioni turche e da poco a sostenere il traballante Haftar sono arrivati in Cirenaica 8 aerei russi (6 caccia Mig-29 e 2 cacciabombardieri Sukhoi-24), mettendo in grande allarme gli Usa (da Difesaonline 22 maggio 2020).
Russia e Turchia quindi su fronti opposti. Ma più che una guerra per procura pare si tratti di una prova pratica di spartizione; si vocifera di un accordo sottobanco fra i due paesi per garantire alla Turchia al-Watiya e la base navale di Abu Sitta come capisaldi in una Tripolitania a influenza turco-qatarina, mentre la Russia si garantirebbe una base navale e una aerea a Sirte, per rafforzare la propria presenza militare nel Mediterraneo meridionale.
Armi e mercenari
A morire per questo tentativo di spartizione oltre ai libici, civili e militari, sono i mercenari reduci dalle guerre mediorientali e africane. Si racconta che a Idlib, in Siria, la merce più a buon mercato sia un mercenario. In molti teatri militari siriani altri mercenari sono disoccupati perché l’Iran, in preda a una seria crisi finanziaria e sanitaria, sta parzialmente smobilitando.
I turchi da marzo ne hanno portato in Libia 9.600 e ne sono già morti 305. E li hanno affiancati ai contractors turchi della compagnia privata Sadat, ex militari presenti a Tripoli già da molti anni (almeno 1500 secondo i servizi segreti egiziani e ne starebbero arrivando altri 2.500). Fra questi mercenari almeno 200 sono ragazzini sedicenni. La piaga dei bambini-soldato si ripropone in Libia.
Altri siriani combattono invece al soldo dei russi. Che li affiancano ad alcune migliaia di contractors della ormai famigerata compagnia privata russa Wagner Group. Accusata dalla stampa americana Mosca ribatte che “non ci sono soldati russi in Libia” e tecnicamente è vero.
Qatar ed Emirati Arabi invece reclutano mercenari in Ciad, fra i disoccupati delle guerre dell’Isis o in Sudan, dove la crisi economica morde duro e dove l’Arabia Saudita recupera i mercenari da mandare a morire in Yemen. D’altronde dove altro troverebbe oggi un siriano o un ciadiano o un sudanese un lavoro pagato 1000 $ al mese, al netto delle spese di vitto, vestiario e alloggio? (dati Ondus da Analisi Difesa 22 maggio 2020)
La lotta per il controllo del Mediterraneo
Il Mediterraneo pattugliato dopo la seconda guerra mondiale dalla sesta flotta americana, è sempre più affollato. L’obiettivo franco-statunitense dell’attacco a Gheddafi del 2011 non era solo indebolire la presenza italiana nell’estrazione petrolifera, ma anche cacciare tecnici e società russe e cinesi. Oggi la Russia riscuote il dividendo del conflitto siriano, che le ha consentito di insediarsi nel Mediterraneo Orientale.La Turchia neo-ottomana di Erdogan tenta un ritorno in grande stile e cerca un insediamento stabile in Libia, che aggiunge alle basi militari in Somalia, Qatar, Siria e Sudan.
Il quadro non sarebbe completo se non ricordassimo la lenta ma tenace marcia della Cina e della sua “Via della Seta” sul Mediterraneo settentrionale: si è già presa parte del porto del Pireo e ora “punta” quelli di Genova e Trieste. L’Italia indebitata post coronavirus potrebbe seguire l’esempio della Grecia e cedere parte dei suoi porti alla Cina in cambio di cospicui finanziamenti.
Le monarchie del Golfo proseguono il loro intervento politico, finanziario e militare sia in Egitto che in Libia, in Somalia come in Yemen. Usano i miliardi dei petrodollari che hanno spremuto dal lavoro di centinaia di migliaia di lavoratori stranieri, dai palestinesi ai bangladeshi, dagli indiani ai filippini, per comprare armi sofisticate come i Mirage e contemporaneamente trasformare in mercenari gli africani che prima lavoravano in Libia.
Gli imperialismi europei d’altronde non mollano l’osso.
L’ Italia, cioè l’Eni, pesa ancora notevolmente nello sfruttamento delle risorse libiche. Alla chetichella il governo Conte II ha rinnovato il famigerato memorandum con la Libia, cioè finanzia e arma quella Guardia Costiera, che di fatto gestisce o protegge il sistema dei lager, i traffici degli scafisti. Dopo la sceneggiata del meeting di Palermo (dicembre 2018) il pallino comunque è passato ad altri.
Il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian, prima con Hollande e adesso con Macron, è un fervido sostenitore di Haftar, da lui presentato su Le Figaro come il campione della lotta al terrorismo, l’unico in grado di mettere ordine nel caos libico (sic). Mondafrique del 27 maggio lo accusa di aver chiesto al premier egiziano al Sissi di inviare soldati a sostegno del suo beniamino libico, forte del fatto che la Francia fornisce armi e istruttori antisommossa, oltre che fregate al presidente forcaiolo dell’Egitto.
Ma l’Europa si presenta in ordine sparso, ogni paese prosegue con obiettivi propri e l’unitarietà della missione Irini è solo di facciata. Tutti sottolineano la debolezza di marine militari nazionali non coordinate a livello europeo. E lo dimostra la “potenza Europa, la battaglia in corso per la concentrazione della cantieristica con la nascita del “campione tedesco” Lürssen – Gnyk, il relativo stallo delle trattative Fincantieri – ThyssenKrupp da un lato e Fincantieri – STX dall’altro.
Per noi una marina militare europea significherebbe solo il rafforzarsi di uno dei contendenti nello scontro interimperialistico, oggi nel Mediterraneo, domani su altri scenari di guerra. Noi siamo per l’unione dei lavoratori d’Europa contro i rispettivi padroni e i governi che li rappresentano, e contro gli armamenti delle potenze imperialiste, a partire dall’Italia e dalle nazioni europee, che servono alla loro lotta per spartirsi le zone di influenza nel mondo. Un eventuale concentrazione nell’industria bellica europea, finora impedita dalle rivalità tra le potenze europee, rafforzerebbe questa politica di spartizione e guerra.