
Perché occuparsi dei contratti di lavoro, argomento pressoché ignorato dai mass media? Semplicemente perché essi sono l’indicatore di due circostanze correlate: lo stato della coscienza di classe e la linea delle organizzazioni sindacali e dei governi che si sono succeduti in quest’ultima fase dello sviluppo capitalistico.
L’ondata inflazionista del 2021-23 ha tagliato di quasi un quinto il potere d’acquisto dei salari, favorendo invece la crescita dei profitti delle imprese. Questo drastico peggioramento che ha accomunato tutti i lavoratori dipendenti, insieme all’addensarsi di contratti di lavoro scaduti e non rinnovati durante la pandemia da Covid 19, poteva costituire un’occasione “storica” per una iniziativa generale, o almeno convergente, dei sindacati di tutti i settori per un consistente recupero salariale, dopo trent’anni di crescente passività del movimento sindacale italiano.
La stagione dei rinnovi contrattuali di sessant’anni fa vide un’iniziativa proletaria che si spinse addirittura sul piano della costituzione di elementi di organizzazione autonoma ed alternativa alla burocratizzazione del sindacato. Quel livello della battaglia costituì un tale salto politico e di autonomia di classe da rendere necessario chiamare in causa direttamente il livello politico dell’apparato statale che fino ad allora aveva cercato di presentarsi come arbitro neutrale tra le parti. L’attacco diretto dei partiti politici – in testa, il PSI di Craxi – inaugurò una nuova stagione di intervento politico ed ideologico teso a smantellare non solo la condizione ma anche il livello della coscienza di classe. Il seguito del berlusconismo, del governo Berlusconi e del suo ministro Tremonti – quello che voleva frenare l’inflazione sostituendo alla moneta da un euro quella cartacea – fu l’operazione del democristiano Renzi. Costui si presentò in scena come la nuova sinistra, moderna e disinvolta che invitava a seppellire ogni residuo patrimonio di lotte e di coscienza di classe, liquidate come vecchia tradizione inutile rispetto ai “tempi nuovi”. Insieme alla tutela degli interessi della borghesia, era necessario anche demoralizzare la classe.
Si dimostra qui – se mai ce ne fosse bisogno – che la lotta economica è subordinata a quella politica. Lo è non in virtù di un dogma, ma perché l’antagonismo di classe tra borghesia e proletariato riguarda la totalità dei rapporti sociali e non il semplice salario, il potere politico e l’intero processo della riproduzione dei rapporti di classe, e non la sola produzione immediata. Quindi CGIL, CISL e UIL, subordinate come sono alla conservazione dei rapporti sociali capitalistici e al primato degli interessi nazionali, si sono ben guardate dal chiamare i lavoratori a una lotta unitaria, e hanno proceduto alla firma dei vari contratti – così come di tutte le vertenze – uno per uno. Lo hanno fatto, spesso, con parecchi anni di ritardo, e con aumenti che non recuperano l’inflazione accettando di fatto la riduzione dei salari. In gran parte dei casi ciò è avvenuto senza lotte, e in ogni caso senza una vera lotta, con il risultato di aumentare la frammentazione e le ineguaglianze tra categorie e tra livelli professionali. I vertici dei maggiori sindacati portano la responsabilità della rinuncia alla lotta e della svendita del salario, del peggioramento delle condizioni di vita di milioni di lavoratori. In questo quadro l’unico sciopero generale proclamato da CGIL e UIL il 29 novembre 2024 è servito come sfogatoio anziché segnare l’avvio di una stagione di lotte.
Ma le vicende contrattuali dell’ultimo periodo rivelano, purtroppo, anche un altro aspetto della condizione della classe lavoratrice di questi anni: la sua passività, l’accettazione rassegnata di ciò che “passa il convento” dei confederali, con l’eccezione delle lotte nel trasporto pubblico, ferrovieri in testa, nonostante i vincoli di legge e i diktat governativi, e nella logistica, non a caso i due settori in cui i confederali hanno perso il controllo. Ma queste fiammate non hanno finora incendiato la prateria della classe, dove invece prevale il s’arrangi chi può, con lo straordinario, spesso pagato in nero, al posto dell’aumento salariale. Il contrario della riduzione dell’orario di lavoro che è l’unica risposta di classe adeguata a fronteggiare i mutamenti tecnologici in corso, dall’auto elettrica all’intelligenza artificiale.
Decenni di passività e concertazione praticate dai vertici sindacali, insieme alla frammentazione e precarizzazione del lavoro attuata dai vari governi di tutti i colori, hanno cancellato nelle nuove generazioni di lavoratori la consapevolezza della possibilità e del potenziale dell’azione collettiva per migliorare la propria condizione. Con questo articolo che traccia un bilancio provvisorio della stagione contrattuale, con numerosi contratti ancora aperti, vogliamo fornire strumenti per ragionare con i lavoratori più combattivi sul come contribuire alla ripresa di iniziativa della classe. Abbiamo appena accennato ad un processo di smobilitazione e demoralizzazione del proletariato, e non possiamo slegarlo dalla sua condizione di vita segnata, appunto, anche dalle vicende contrattuali. Condurre insieme l’analisi della situazione della coscienza di classe e quella della lotta economica serve a ritrovare i termini della ripresa del conflitto sociale.
I prezzi sono aumentati più dei salari – quindi il potere d’acquisto dei salari è diminuito, e non di poco!
L’ISTAT pubblica i dati sui salari contrattuali, cioè i salari sulla base dei rinnovi dei contratti per le diverse categorie. Ovviamente i salari nominali, cioè quanti euro all’ora o al mese, sono in aumento. Ma si guarda bene dal confrontarli con l’aumento dei prezzi, che è quello che conta: se i salari sono stati al passo coi prezzi, il loro potere d’acquisto (o salario reale) si è mantenuto uguale; se sono cresciuti più dei prezzi, il potere d’acquisto è cresciuto e si potranno acquistare più cose; se sono cresciuti meno dei prezzi, il potere d’acquisto è diminuito, e non riusciremo più a comperare le stesse cose di prima. Ma l’Istituto statistico governativo non fa questo semplice confronto perché vuole nascondere l’andamento del salario reale, che da più di 30 anni è in calo. Quello che l’ISTAT non fa, lo facciamo noi.
Fig. 1 Andamento di prezzi al consumo e salari contrattuali genn. 2021- sett. 2024 (genn. 2021 = 100)

Fonte: Nostra elaborazione su dati ISTAT, Serie Storiche, Retribuzioni contrattuali orarie; Eurostat, Prezzi al consumo, Italia
La curva rossa descrive l’andamento mensile dei prezzi al consumo, quella blu dei salari contrattuali, dal gennaio 2021 al novembre 2024. Salta all’occhio come fino a novembre 2022 i prezzi sono schizzati in alto, mentre i salari sono rimasti incollati al pavimento. A dicembre 2022 la differenza tra le due linee ha raggiunto i 16 punti. I padroni hanno aumentato i loro prezzi di vendita, ma i lavoratori sono rimasti al palo. Approfittando anche della pandemia che rendeva più difficile portare avanti delle lotte, le associazioni dei capitalisti (Confindustria, Confcommercio, Confartigianato, ecc.) hanno rifiutato di rinnovare i contratti di lavoro scaduti. A primavera 2023 il tempo medio di attesa dalla scadenza di un contratto al suo rinnovo aveva raggiunto i 34 mesi, quasi 3 anni per recuperare solo una parte di quanto perso con l’inflazione!
Per il ritardo nella firma dei contratti, da febbraio 2021 ad oggi sono stati persi, in media, 8.320 euro
Il più recente bollettino Istat su contratti e retribuzioni contrattuali ci informa che ancora a settembre 2024 quasi 7 milioni di salariati, il 52,5% del totale, avevano il contratto scaduto. Gli ultimi contratti rinnovati sono stati firmati con un ritardo, in media, di un anno e mezzo. Il divario tra il livello dei prezzi e quello dei salari si è un po’ ridotto negli ultimi mesi, ma è rimasto sopra il 10% (11,4% a settembre 2024). Se sommiamo le perdite mensili di potere d’acquisto subite da inizio 2021, scopriamo che i lavoratori hanno perso mediamente un potere d’acquisto pari a 4,16 salari mensili (es. se ogni mese avessero perso il 10%, nei 33 mesi considerati avrebbero perso il 330% di un salario mensile, cioè 3,3 salari mensili, ma hanno perso di più). Considerando un salario lordo di 2.000 euro (includente tredicesima e quattordicesima), la perdita di potere d’acquisto accumulata a partire da febbraio 2021 è stata di 8.320 euro!
Quindi, al rinnovo di un contratto, un sindacato che si rispetti dovrebbe chiedere una “una tantum” di 8 mila euro per recuperare il pregresso, e aumenti da subito almeno pari all’inflazione, solo per non andare indietro! Il fatto che a qualsiasi lettore una elementare rivendicazione del genere appaia “fantasindacalismo”, è indice della debolezza in cui il movimento sindacale e la classe lavoratrice si trovano da decenni, rassegnati a subire le perdite inflitte da un’improvvisa fiammata inflazionistica. Questa grossa perdita salariale è dovuta all’abolizione della scala mobile sottoscritta da CGIL-CISL-UIL nel 1992, che aveva garantito tra il 1975 e il 1985 l’adeguamento automatico dei salari agli aumenti dei prezzi. Nel 1985 ci pensò il socialista Craxi ad operare un primo taglio dei punti di contingenza; nel 1992 il suo braccio destro Amato, d’intesa con i vertici sindacali, affossò l’intero meccanismo. Mai dimenticare, quindi, quanto la sinistra “riformista” (di cui sono eredi Pd e Alleanza verdi sinistra) ha contribuito negli ultimi decenni al peggioramento della condizione di operai/e e salariati/e.
Senza lotte, salari da povertà (la sola eccezione dei bancari)
Non solo i contratti vengono rinnovati in ritardo, ma quando vengono firmati, gli aumenti nominali contrattati sono inferiori all’inflazione, cioè in perdita. D’altra parte non c’è da stupirsi, visto che nella gran parte dei settori non ci sono state lotte significative per conquistarli. Perché i capitalisti dovrebbero concedere di più, se non vi sono costretti dagli scioperi? In effetti, i contratti firmati nel corso del 2024 per le categorie operaie prevedono aumenti intorno ai 200 euro lordi (meno di 150 netti – precisiamo che tutte le cifre indicate sono al lordo, non al netto) su 4 anni per le categorie operaie più numerose, ad es. nel commercio, con cifre inferiori per le cooperative sociali (120 euro di aumento tra il settembre 2020 e il gennaio 2026, più l’istituzione di una quattordicesima dimezzata), per la ceramica (170 euro di aumento in 6 anni) e per gli alberghi Confcommercio (180 euro in quasi 12 anni, tra gennaio 2016 e novembre 2027, dato che nei primi 8 anni non c’era stato nessun aumento). Siamo, in un numero crescente di casi, a salari da povertà, che costringono alla ricerca di un secondo lavoro o a illimitati straordinari. Con una sola eccezione: il contratto dei bancari, dove le banche gonfie di profitti a miliardi hanno elargito aumenti salariali di 435 euro al mese, briciole per loro, per tacitare i dipendenti e far loro accettare le continue riduzioni di personale con la crescente informatizzazione.
Lo stato, come padrone, imita i capitalisti privati
In materia di ritardi nei rinnovi contrattuali si distingue anche lo Stato. Nel gennaio 2024 è stato firmato il CCNL per Istruzione e Ricerca 2019-2021, scaduto da oltre due anni al momento della firma, con aumenti di 124 euro per il personale docente e 96 euro per il personale ATA. Dato il ritardo, che è ora di tre anni, i lavoratori della scuola proseguono la loro discesa da categoria relativamente privilegiata verso condizioni salariali simili a quelle del settore privato. D’altra parte, la contrattazione nel Pubblico Impiego assume un carattere di crescente “politicizzazione”: CGIL e UIL stanno contestando il CCNL delle Funzioni Centrali (ministeri, 195 mila dipendenti) in assemblee che vedono una decisa maggioranza dei lavoratori contrari all’accordo, che è però esecutivo dato che la CISL e gli altri sindacati firmatari schierati dalla parte del governo Meloni hanno la maggioranza degli iscritti. Il 14 gennaio un accordo per i lavoratori della Sanità raggiunto dalla CISL e altri sindacati autonomi (aumento di 172,40 euro medi in 4 anni) è stato invece bloccato da CGIL e UIL, che hanno il 47% degli iscritti, in quanto si è aggiunto a loro il sindacato autonomo Nursing Up con il suo 6,4% di iscritti. In tutti i casi, però, l’ultima parola non è mai dei lavoratori e delle lavoratrici, mai chiamati ad essere protagonisti della lotta, anzi educati alla passività da decenni di politiche sindacali rinunciatarie e colluse con i padroni e i governi dei più vari colori.
I salari italiani, fanalino di coda in Europa
Il risultato di questi decenni di passività lo vediamo nel grafico seguente, tratto dai dati rilevati dall’OCSE.

Fonte: Nostra elaborazione su dati OCSE
L’Italia spicca per la stagnazione del valore reale dei salari negli ultimi 33 anni. I salari italiani risultano aver perso 3 punti percentuali, quelli spagnoli sono aumentati di 13 punti, quelli di tedeschi e francesi di 31 e 32 punti, quelli irlandesi di 87 punti. I lavoratori francesi, che nel 1990 avevano salari pari a quelli italiani, ora li superano del 34% (quelli tedeschi di quasi il 50%). Ciò è il risultato, oltre che della passività sindacale, anche di una frammentazione contrattuale che agevolando la piccola impresa a scapito dei suoi salariati (in molti settori abbiamo tre contratti diversi firmati da CGIL, CISL e UIL: Industria, Piccola industria, Artigianato) ha tenuto in piedi una miriade di piccole aziende facendo loro sconti sui salari. I salari medi nelle imprese industriali sopra i 250 addetti sono del 36% più alti che nelle imprese artigianali da 1 a 9 addetti. Anche a seguito di ciò la piccola impresa, dove è difficile e spesso impossibile organizzarsi sindacalmente, ha in Italia un peso molto maggiore che in Francia e Germania, abbassando il livello medio dei salari italiani. A ciò si aggiungono le disparità geografiche, con i salari al Sud inferiori del 28% a quelli del Centro-Nord, sia per la prevalenza delle piccole aziende e dei lavori meno qualificati, ma anche (per il 9%) a parità di mansione.
Il contratto dei metalmeccanici
Un contratto di particolare rilevanza non ancora rinnovato è quello dei Metalmeccanici Industria, la sezione tuttora più numerosa della classe operaia, con 1,5 milioni di lavoratori in 30 mila aziende, e storicamente tra le più combattive negli anni ’60-’80. Nel rinnovo del CCNL nel febbraio 2021, anch’esso a perdere (aumenti intorno agli 80 euro in tre anni), era stato inserito un collegamento con l’indice dei prezzi al consumo al netto dei prodotti energetici, grazie al quale gli aumenti effettivi per il livello D2 (ex 3° livello, operaio comune), sono stati di 250 euro al giugno 2024 – quindi, circa 170 euro mensili sono il risultato della clausola di parziale reintroduzione, di fatto, di una scala mobile dei salari, che ha in buona parte protetto i metalmeccanici dall’inflazione 2021-’23, a differenza delle altre categorie.
La piattaforma di FIOM, FIM e UILM per il rinnovo del contratto scaduto, che sul piano salariale chiede aumenti di 280 euro (per il livello C3, ex 5°, operaio specializzato) contiene rivendicazioni condivisibili in astratto, ad esempio sull’orario di lavoro e la precarietà, ma nel concreto talmente generiche da apparire quanto meno timide, poco convinte, con una disposizione di partenza alla mediazione al ribasso:
- Sull’orario pone timidamente l’esigenza di “andare verso” le 35 ore settimanali, con forme di “sperimentazione”, ma già nella premessa si inchina agli interessi del capitale: “l’obiettivo principale è garantire l’occupazione aumentando la produttività e la competitività”, “grazie agli investimenti tecnologici di prodotto e di processo, attuando forme di riduzione dell’orario di lavoro a parità di salario”. Questa richiesta però vale solo per le aziende “coinvolte in processi di transizione, riorganizzazione o crisi e di consistente riqualificazione professionale.” E, sia mai che una eventuale riduzione d’orario sia accollata ai padroni, il tutto si conclude con la richiesta di coinvolgere il governo “per individuare un idoneo ed efficace strumento legislativo che favorisca la riduzione contrattuale dell’orario di lavoro anche attraverso le risorse oggi impegnate in ammortizzatori sociali, anche per favorire un sostegno alla formazione.” Insomma ancora una volta, secondo i burocrati sindacali di CGIL-CISL-UIL, per tutelare in qualche modo l’occupazione operaia, bisogna fare ricorso alla fiscalità generale, cioè a tasse e imposte pagate in larghissima parte proprio dalla classe lavoratrice.
- sulla precarietà si chiede “una percentuale massima di utilizzo” di contratti atipici, ma non si indica un preciso paletto invalicabile. Si chiede di introdurre “causali”, ma non si dice quali. Si chiede di individuare “percorsi di stabilizzazione, superati i 24 mesi”, ma non si dice quali.
- Rivendica limiti agli appalti (già vietati per le attività di trasformazione industriale), chiedendo che per tutte le attività elencate come campo di applicazione del CCNL negli appalti sia applicato il CCNL metalmeccanici (e non, ad es. il Multiservizi che comporta una riduzione di circa 2 euro l’ora);
- chiede infine un aumento da 485 a 700 euro dell’”elemento perequativo”, per le aziende dove non c’è contrattazione di secondo livello.
A fronte dell’interruzione delle trattative in novembre da parte di Federmeccanica, FIOM, FIM e UILM hanno avviato degli scioperi. Sono tra le poche categorie del settore industriale e terziario privato a farli, ma finora si tratta di scioperi a bassa intensità (un pacchetto di 8 ore suddiviso in scioperi di 4 ore) e programmaticamente divisi a livello regionale. Senonché senza la piena mobilitazione della grande forza potenziale di questo settore decisivo della classe operaia sarà impossibile strappare significative concessioni da un padronato reso ancora più oltranzista dall’incondizionato appoggio del governo Meloni.
Gli scioperi nei trasporti
In altri rinnovi contrattuali gli scioperi, soprattutto nel settore dei Trasporti, sono stati invece ripetuti e realmente generali. Parliamo dei ferrovieri, dei lavoratori del trasporto pubblico locale, e di quelli del trasporto merci-logistica. A organizzare questi scioperi in prima fila non sono state CGIL, CISL e UIL, ma vari sindacati “alternativi”, che in questi settori pesano di più dei confederali – anche se l’estrema frammentazione sindacale nel settore ferroviario e del trasporto pubblico locale, con i vari sindacati che si fanno concorrenza indicendo scioperi su date diverse su piattaforme diverse, tende a disperdere le energie che i lavoratori hanno dimostrato di essere pronti a mettere in campo per invertire la pesante perdita di potere d’acquisto dei propri salari. In questi settori, regolati da una complessa legislazione anti-sciopero, si intromette di regola la Commissione di Garanzia per limitare la portata degli scioperi. E se questo non bastasse, si è aggiunto l’attivismo anti-operaio di Salvini, ministro dei Trasporti, che cerca di farsi pubblicità limitando le ore di sciopero e precettando i lavoratori.
Trasporto ferroviario
Nove scioperi pienamente riusciti, nonostante le intimidazioni e le precettazioni, indetti dalle assemblee dei lavoratori supportate dai sindacati di base hanno fatto saltare la concertazione dei sei sindacati seduti al tavolo contrattuale e scongiurato l’ennesima firma di un contratto a perdere. Dai lavoratori della manutenzione, che contestano la firma dell’accordo del 10 gennaio 2024, ai macchinisti e capitreno, è nata una piattaforma dal basso che si contrappone frontalmente alle richieste aziendali (accompagnate e nella sostanza assecondate dai balbettii dei concertativi). L’azienda pretende la revisione di alcuni moduli di scorta e condotta, l’ampliamento dei limiti di condotta, l’abbattimento del limite minimo settimanale delle 30 ore di lavoro nella costruzione dei turni, la ridefinizione dei riposi settimanali, la possibilità di variare la produzione con un differenziale del più o meno 10 per cento, e ancor peggio a Mercitalia l’estensione del famigerato Agente-solo-di-notte e la pianificazione di turni senza l’obbligo di inserire la refezione.
La risposta dei ferrovieri sta nelle alte, talvolta altissime, percentuali delle adesioni agli scioperi indetti dagli organismi di base – nell’ultimo sciopero del 25-26 gennaio le FS hanno dovuto cancellare oltre due treni su tre. La piattaforma rivendicativa del personale di macchina e bordo scaturita dalle assemblee si concentra sulla modifica della normativa di lavoro in funzione della mitigazione del rischio: un massimo di 36 ore settimanali, un massimo di 8 ore nei servizi andata e ritorno, turno di notte di 7 ore, revisione degli equipaggi, tutela dell’inidoneità, ripianamento dell’erosione del potere di acquisto dell’ultimo triennio, riequilibrio dei carichi di lavoro tra impianti. Una piattaforma sostenuta da lotte che hanno messo in luce il ruolo nefasto dei sindacati firmatari impedendo, sinora, un rinnovo contrattuale contenente gli ennesimi arretramenti.
Gli autoferrotranvieri
Gli autoferrotranvieri (Trasporto Pubblico Locale) hanno subito una forte caduta di potere d’acquisto: dopo l’aumento dell’ottobre 2017, i loro salari sono rimasti fermi fino al luglio 2022, quando con il nuovo contratto è scattato il primo di 3 aumenti di 30 euro, di cui l’ultimo a settembre 2023. Con soli 90 euro di aumento su 6 anni hanno quindi perso più potere d’acquisto della media dei lavoratori, e questo contribuisce a spiegare la loro maggiore disponibilità alla lotta degli scorsi mesi. L’11 dicembre scorso CGIL, CISL, UIL, UGL e FAISAL hanno firmato un’ipotesi di accordo che prevede aumenti per 160 euro al parametro 175 (60 euro a marzo 2025 e 100 euro ad agosto 2026), più € 40 di EDR; per il livello più basso questo significa un aumento complessivo di 114 euro lordi che significa meno di 80 euro netti; per il livello più alto sono invece 286 euro lordi. Per il pregresso è prevista una Una tantum che va da 714 euro per il livello più alto a 286 euro per quello più basso, a cui si aggiungeranno 40 euro se entro l’anno sarà raggiunto “un accordo per la rivisitazione della regolamentazione dell’articolazione dell’orario di lavoro con l’obiettivo prioritario di contemperare le esigenze di produttività aziendale con quelle relative alla conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”, cioè sulla flessibilità degli orari (già pesantissimi, con doppi turni giornalieri). In caso contrario, 20 euro al mese o in alternativa due giorni di permesso retribuito.
Nel valutare questo accordo occorre tenere in considerazione il fatto che mancano autisti di autobus (400 solo a Milano), perché il salario non corrisponde più al sacrificio degli orari disagiati: quindi è la stessa logica del mercato del lavoro che avrebbe richiesto un forte aumento salariale, oppure una significativa riduzione dell’orario di lavoro, o entrambe le cose. L’ipotesi di accordo non corrisponde alla volontà dei lavoratori che hanno lottato e la cosa è facile da spiegare, dal momento che i sindacati firmatari non sono quelli che hanno organizzato la gran parte degli scioperi. Dato che nell’incontro presso il Ministero dei Trasporti i sindacati si sono impegnati a sciogliere la riserva entro il 24 gennaio, non sembra intendano sottoporre l’accordo all’approvazione dei lavoratori, mentre i sindacati di base chiedono che l’ipotesi di accordo sia sottoposta a referendum tra i lavoratori. L’ennesimo vergognoso esempio di CGIL, CISL e UIL che, da sindacati di stato sostenuti dalle aziende, si arrogano il diritto di firmare accordi per lavoratori tra i quali sono largamente minoritari. I sindacati di base e i lavoratori avranno la determinazione per continuare la lotta?
Analoga conclusione c’era stata per il CCNL Portuali imprese, con aumenti per il IV livello di 150 euro lorde + 50 di EDR (qui uguale per tutte le categorie). Il contratto prevede misure concordate per ridurre le malattie brevi, e aumenta di due notti il requisito per la riduzione dell’orario settimanale da 38 a 36 ore.
Trasporto-merci e logistica : un accordo a perdere, da bocciare!
Mentre proseguono gli scioperi dei ferrovieri per il rinnovo del CCNL, con richieste centrate soprattutto sulla parte normativa, i turni stressanti e la sicurezza, CGIL, CISL e UIL hanno firmato anche il rinnovo del contratto Trasporto Merci e Logistica nei primi giorni di dicembre 2024. Un settore di grande importanza, sia per la sua ampiezza (più di un milione di addetti), sia per il ruolo strategico che ha nel connettere produzione e distribuzione delle merci, sia perché negli ultimi 14 anni ha visto un’intensità di lotta sconosciuta negli altri settori del proletariato, dovuta soprattutto al protagonismo di decine di migliaia di lavoratori/ lavoratrici immigrati organizzati nel sindacalismo di base, in primis nel SI Cobas – i cui iscritti e coordinatori hanno ricevuto in questi anni oltre tremila denunce per i picchetti davanti ai magazzini e nei centri di smistamento delle merci (interporti, porti, etc.).
La firma dell’accordo è avvenuta a pochi giorni dall’unico sciopero generale proclamato negli ultimi anni da CGIL e UIL (il 29 novembre), e pochi giorni prima dell’unico sciopero nella logistica indetto dagli stessi per il 9 e 10 dicembre, e non effettuato proprio per la “provvidenziale” firma dell’accordo. Se si firma un accordo prima di fare lo sciopero, ed è possibile, dovrebbe essere perché con la sola minaccia dello sciopero si è ottenuto quello che si voleva ottenere con lo sciopero. Ma la realtà è in questo caso alquanto diversa: incalzati dagli scioperi dei sindacati di base, e in particolare del SI Cobas, Assologistica, Confetra, Fedit, Anita, e CGIL, CISL e UIL hanno voluto chiudere la vertenza prima del picco natalizio, presentando il rinnovo come una conquista dei confederali nel tentativo di togliere spazio ai sindacati “di base”. Una chiusura, perciò, tutta “politica”, sulle spalle dei lavoratori.
Il nuovo contratto, abbastanza in linea con gli altri settori, non garantisce nemmeno il recupero del potere d’acquisto perso negli anni precedenti. Con il primo aumento a gennaio 2025, pari a 98-130 euro a seconda del livello (che assorbe 60 e più euro di vacanza contrattuale) i salari reali restano di 130 euro al di sotto del livello del gennaio 2021. Anche con gli scaglioni di aumento successivi, pari ad altri 80-100 euro a fine contratto (fine 2027), i salari resteranno inferiori al livello che oggi dovrebbero avere per recuperare il potere d’acquisto che avevano a gennaio 2021. A questa perdita si aggiungerà l’aumento dei prezzi dei prossimi 3 anni… Per un effettivo recupero del potere d’acquisto occorreva un aumento di 300 euro subito, come richiesto nella piattaforma di SI Cobas, AdL Cobas e altri sindacati di base, più aumenti successivi per far fronte all’inflazione futura, non certo aumenti di 180-230 euro lordi a fine contratto. Inoltre, l’accordo non prevede nulla a fronte degli oltre 8 mila euro persi in questi anni. Sul piano salariale CGIL, CISL e UIL hanno quindi accettato una grossa perdita di potere d’acquisto anche per il futuro, senza lottare, anzi firmando in fretta e furia per disdire l’unico sciopero già proclamato. Non hanno voluto mettere in campo i lavoratori per il timore, più che fondato, di esserne condizionati.
Le internalizzazioni usate come un’arma contro le conquiste operaie
I padroni delle imprese hanno però cercato di accreditare i sindacati confederali, che sono in grossa difficoltà in questo settore, con alcune concessioni sulla parte normativa. Tra queste, ci sono le clausole che limitano le responsabilità dei conducenti dei furgoni per danni ai veicoli, il parziale pagamento della malattia da parte delle cooperative, l’estensione agli autisti di furgone della “clausola sociale” che garantisce il mantenimento del posto di lavoro alle stesse condizioni in caso di cambio appalto. Ma restano esclusi da questa garanzia gli autisti di camion, che sono la maggioranza dei lavoratori del settore, e in gran parte non sindacalizzati. Inoltre non viene prevista alcuna garanzia per i lavoratori coinvolti nelle internalizzazioni, portate avanti da diversi grandi gruppi del settore, in parte per la pressione della magistratura che ha scoperto evasioni fiscali e contributive per parecchi milioni (evasioni che sono forse soltanto la punta dell’iceberg).
Attraverso anni e anni di dure lotte condotte dal SI Cobas e altri sindacati di base i facchini e i driver della logistica hanno conquistato in un numero importante di magazzini, oltre l’applicazione integrale del CCNL, notevoli miglioramenti salariali e normativi a livello aziendale o con accordi nazionali con Fedit (SDA, BRT, GLS). Tra questi, la riduzione dell’orario di lavoro con due giornate aggiuntive di permesso retribuito, i ticket mensa fino a 8 euro al giorno, passaggi automatici di livello in base all’anzianità. Ora con le internalizzazioni le imprese cercano di cancellare queste conquiste, trattando le condizioni di queste internalizzazioni con CGIL, CISL e UIL nel tentativo di tagliar fuori i sindacati di base. Fedex e DHL sono due esempi di queste pratiche padronali anti-operaie, rese possibili dalla connivenza dei confederali. Ora anche BRT sta internalizzando con questi criteri.
Mentre il SI Cobas nella sua piattaforma chiedeva l’estensione della riduzione di due giornate di lavoro a tutto il settore, il CCNL non prevede alcuna riduzione (tranne l’estensione ai turnisti anche non di ciclo continuo della mezz’ora di mensa retribuita) e conferma di fatto il prolungamento dell’orario di lavoro oltre le 39 ore contrattuali a 47 (pagate 39!) per gli autisti di camion, e a 42 (nel 2026, ora sono 44) per gli autisti dei furgoni, con il pretesto-finzione del “lavoro discontinuo”: se si nega la discontinuità, si perde la trasferta.
Aumenta la precarietà
Il punto di peggiore arretramento è l’aumento della precarizzazione della forza lavoro. Negli accordi nazionali conquistati da SI Cobas e AdL Cobas con Fedit c’è la riduzione a 18 mesi del periodo massimo di lavoro dopo il quale il lavoratore deve essere stabilizzato. Il nuovo CCNL firmato da CGIL, CISL e UIL, invece, aumenta la precarietà: i limiti posti dai contratti precedenti al numero di lavoratori a termine e somministrati, già alti, vengono ulteriormente elevati dal 35% al 41% del personale a tempo indeterminato, con livelli ancora più alti per le imprese “start up” – una autentica presa in giro, dato che in questo settore le imprese “start up” crescono come funghi negli appalti per sparire anche dopo meno di un anno con il loro bottino di evasione fiscale. L’accettazione da parte di CGIL, CISL e UIL dell’aumento dei lavoratori precari, ricattabili e per questo difficili da organizzare sindacalmente, è un grave tradimento nei confronti della classe, perché aumenta le divisioni tra lavoratori e rende più difficile la difesa. Questo metodo è usato dai maggiori gruppi del settore, soprattutto nei nuovi magazzini dove assumono in gran parte lavoratori a termine e interinali, per impedire l’ingresso del sindacato. Internalizzazioni e precarizzazione sono le armi di una offensiva in corso da parte delle grandi aziende del settore che resistono anche a rinnovare gli accordi nazionali di secondo livello firmati negli anni precedenti con i sindacati combattivi.
Per queste ragioni il CCNL Trasporti e Logistica firmato dai sindacati confederali senza chiamare i lavoratori alla lotta, costituisce una svendita tanto delle condizioni salariali quanto di quelle normative. Va senza dubbio respinto dai lavoratori nelle assemblee e soprattutto organizzando lotte che coinvolgano per quanto possibile tutto il settore su una piattaforma unitaria di recupero salariale, riduzione dell’orario di lavoro, limitazione della precarietà.
Solo una ripresa delle lotte può invertire questa deriva che dura da decenni e vede la frantumazione azienda per azienda del movimento dei lavoratori. La perdita di potere d’acquisto dei salari non solo riduce il tenore di vita delle famiglie proletarie, ma spinge i lavoratori a cercare un recupero del salario attraverso gli straordinari, aumentando lo sfruttamento, il logoramento fisico e psichico, riducendo il tempo libero, riducendo il numero di posti di lavoro, aumentando il numero dei disoccupati.
Nei luoghi di lavoro dove è presente l’organizzazione sindacale, l’esigenza di recupero salariale si traduce in accordi aziendali su premi di risultato, legati alla presenza e alla produttività, che spingono ad andare al lavoro anche se malati, ad aumentare anno dopo anno l’intensità lavorativa. Questi premi aziendali aumentano inoltre le differenze e la divisione tra lavoratori di diverse aziende, e incentivano lo spirito aziendalista contro la coscienza di classe.
La politica fiscale governativa, che incentiva i premi di risultato con una tassazione di favore del 5% rispetto alla media tra il 23% e il 35% degli altri aumenti salariali, spinge volutamente in questa direzione di divisione aziendalista della classe, che va contrastata.
Va denunciata inoltre la manovra 2025 che alla decontribuzione del 6-7% sostituisce una detrazione IRPEF del 4,8%, pari al 4,34% sul lordo, con un aggravio del carico fiscale e contributivo del 2,66% rispetto alla situazione precedente per i redditi tra 15.000 e 20.000 euro, aggravio che aumenta ulteriormente tra i 20 e i 35 mila euro, con l’aliquota del 35% che scatta sopra i 28.000 euro, mentre per i lavoratori autonomi la flat tax del 15% si applica fino a 85.000 euro di reddito, e anche i redditi finanziari sono tassati molto meno dei salari: tasse di classe!
Alcuni fondamentali obiettivi comuni
Invertire una tendenza così a lungo affermatasi di arretramenti, contratti a perdere, penetrazione della logica del meno peggio e dell’aziendalismo, richiede anzitutto un ritorno massiccio (non di piccoli gruppi di operai/e di lavoratori/lavoratrici) alla pratica della lotta organizzata. Un ritorno che, oggi, deve sfidare anche le regole di un’economia di guerra quale è quella che si sta instaurando, con una secca riduzione ulteriore della spesa sociale, e quindi del salario indiretto, a favore della spesa militare. E con l’entrata in vigore, sul piano legale e nei fatti, di una repressione delle lotte e dell’organizzazione operaia fortemente potenziata, come indicano le norme contenute nel DDL ex-1660 e la pratica sistematica delle intimidazione e delle aggressioni poliziesche ai picchetti operai. Nulla potrà sostituire la ripresa del protagonismo operaio e proletario, che è in genere spontanea. Per favorirla e prepararla, però, è sempre di grande utilità che i gruppi di lavoratori più combattivi e coscienti dell’attuale situazione – oltre a formulare un chiaro bilancio di classe delle ragioni di fondo di questo arretramento – promuovano in tutte le categorie alcuni fondamentali obiettivi comuni, per dare forza ad un processo di avvicinamento e di unificazione dei diversi comparti della classe lavoratrice.
La maggiore forza acquisita dai sindacati combattivi – valga per tutti la centralità che il SI Cobas ha conquistato nella logistica a scala nazionale – sempre più dev’essere messa al servizio del rafforzamento di tutta la classe, non solo spingendo a superare passività e rassegnazione delle altre categorie, ma impegnando i lavoratori già organizzati sul terreno della lotta, purtroppo ancora una minoranza, in battaglie esemplari, capaci di indicare la strada a chi è prigioniero del collaborazionismo di CGIL, CISL e UIL.
Da questo punto di vista, avrebbe un grande valore, soprattutto nelle filiere della logistica dove un lungo ciclo di lotte ha permesso di innalzare i salari rispetto alle condizioni di super-sfruttamento preesistenti, impegnarsi a rifiutare il lavoro straordinario, contrapponendovi la richiesta di aumenti salariali tabellari e l’assunzione di nuovo personale. È chiaro che la strada maestra per questa rivendicazione è la conquista del terreno di lotta per il CCNL. Tuttavia, la richiesta di un superminimo nel salario base, pur ottenuta nelle realtà lavorative più forti, non sarebbe una riproposizione in altra forma dell’aziendalismo che occorre contrastare, bensì un’indicazione a tutti i lavoratori che la lotta per il salario non può essere combattuta accettando straordinari e premi di produttività.
Ecco di seguito alcuni punti rivendicativi che ci sembrano essenziali:
- Aumenti che riportino il potere d’acquisto del salario almeno al livello del 2021, calcolando un aumento del 20% su un salario medio lordo di 2000 euro, questi aumenti dovrebbero essere di almeno 400 euro lordi, includendo gli aumenti dei contratti stipulati in questi anni;
- Questi aumenti devono essere uguali per tutti, per iniziare a ridurre le differenze tra i diversi livelli, anche perché i maggiori aumenti dei prezzi si sono avuti nei prodotti alimentari e nell’energia, e tutti abbiamo gli stessi bisogni di mangiare e di riscaldarci;
- Re-introduzione di un meccanismo di adeguamento automatico dei salari ai prezzi (scala mobile), capace di unire realtà lavorative forti e deboli, contribuendo all’unità di classe, ed evitando che le lotte operaie siano costrette ad uno sforzo estenuante solo per inseguire il carovita anziché ottenere miglioramenti effettivi;
- Salario minimo legale di 12 euro l’ora per tutti i lavoratori e lavoratrici, per farla finita con il dumping salariale e il lavoro povero dei contratti pirata e anche di CGIL, CISL e Uil (vedi Servizi fiduciari, ossia vigilanza privata con salari lordi di euro 5,40 l’ora, ma anche il Multiservizi con salari tra i 7 e gli 8 euro l’ora, divenuto il CCNL di default per gran parte degli appalti). M5Stelle e PD hanno alzato la bandiera del salario minimo (veramente minimo, 9 euro l’ora!) in funzione elettorale, ma l’hanno subito lasciata cadere. Questa battaglia sindacale e politica va condotta nei luoghi di lavoro e nelle piazze per garantire una retribuzione che permetta di vivere decentemente a tutte e tutti coloro che lavorano, e va unita alla battaglia per il
- Salario garantito per i disoccupati, che oggi sono solo in minima parte coperti dalla NASPI, che dopo 5 mesi si riduce sempre più e dura al massimo due anni. Una battaglia che, sull’esempio dei disoccupati di Napoli, va collegata alla formazione e a lavori socialmente utili.
- Divieto degli appalti aziendali tranne nel caso di attività per le quali sono necessarie aziende specializzate; conservazione del posto di lavoro e dei diritti acquisiti nelle conseguenti internalizzazioni.
- Limitazione del lavoro a termine e in somministrazione ai lavori a carattere stagionale o ai picchi di produzione o sostituzione di assenze per maternità/aspettativa. Tempo indeterminato obbligatorio in tutti gli altri casi. Basta lavoratori sotto il costante ricatto della riconferma!
- Riduzione dell’orario settimanale di lavoro a 35 ore, a parità di salario mensile. Lavoriamo per vivere, non viviamo per lavorare! La riduzione dell’orario di lavoro è anche l’unico modo per difendere l’occupazione a fronte dei mutamenti tecnologici che riducono le ore necessarie per produrre un dato prodotto (es. auto elettriche, intelligenza artificiale).
- Fine del monopolio della rappresentanza a CGIL, CISL, UIL, abolizione delle norme e degli accordi con la Confindustria oggi esistenti (a cominciare dalla legge 146 e dall’accordo del 2014). Non devono essere i padroni a scegliere i sindacati con cui trattare, devono essere i lavoratori e le lavoratrici. Diritto di contrattazione, di rappresentanza e di sciopero a tutti i sindacati sulla base del numero dei lavoratori che li sostengono ai vari livelli. Approvazione obbligatoria degli accordi contrattuali da parte di tutti i lavoratori/lavoratrici interessati, con votazioni al termine delle assemblee. Libera elezione dei delegati e delle delegate di reparto.
Va da sé che non esistendo da molto, moltissimo tempo un livello di lotta economico-sindacale separato da quello politico, sarà impossibile il rilancio della lotta rivendicativa senza che ad esso si accompagni la denuncia della corsa alla guerra in cui il capitale e lo stato italiano sono coinvolti in prima fila, in Ucraina, in Palestina e ovunque, e senza lo schieramento incondizionato al fianco delle popolazioni e dei lavoratori immigrati che sono destinati ad essere il primo bersaglio delle politiche belliciste e razziste dei governi occidentali, da Trump a Meloni.
Compiti ardui, ma questo è.