NIALL FERGUSON (Traduzione Rita
Baldassarre)
Per chiudere la guerra civile in IRAQ bisogna:
- offrire contropartite economiche agli iracheni che lasciano le
armi - assicurarsi (col denaro) l’appoggio degli sceicchi delle etnie
- puntare sull’ONU e sulle potenze coinvolte in Medio Oriente
Dal punto di vista storico, è facile capire che cosa è
andato storto in Iraq: truppe insufficienti in campo subito dopo la caduta di
Saddam Hussein; soldi insufficienti per invogliare la gente a collaborare;
insufficiente fermezza con gli insorti fin dall’inizio; insufficiente
diplomazia per assicurare e mantenere il sostegno internazionale. E ancora,
dimenticavo, una insufficiente conoscenza della storia.
(Solo in «Guerre
stellari» si è visto un impero capace di creare la sua realtà). Non è la prima
volta che un intervento militare americano ha provocato un disastro e il
Vietnam del Sud è lungi dall’essere l’unico precedente. La storia dell’ America
centrale e dei Caraibi offre numerosi altri esempi. In Guatemala, negli anni
Cinquanta e Sessanta, un colpo di Stato appoggiato dagli Usa ha innescato una
guerra civile durata decenni che ha causato centinaia di migliaia di vittime.
Un simile processo è in atto oggi in Iraq. Il ciclo di violenza settaria è già
ben radicato nella capitale, malgrado i recenti sforzi americani di «liberare e
proteggere » i luoghi più rischiosi. Negli ultimi due mesi però violenza e
morte si sono estese alle province vicine, causando bagni di sangue in luoghi
come Duluiyah, una cittadina a predominanza sunnita a nord di Bagdad, e a
Balad, un’ enclave sciita poco distante. La violenza si è intensificata anche
tra curdi e arabi a Kirkuk. Il sogno americano di affidare la sicurezza
all’esercito e alle forze di polizia irachene si sta trasformando in un incubo,
perché alcuni elementi di queste stesse forze sono i principali responsabili
della pulizia etnica. (..) La crisi irachena, oltre alle ripercussioni
economiche — rialzo dei prezzi del petrolio, rallentamento della crescita
economica — ha prodotto gravi conseguenze in politica internazionale, e non è
da escludere il rischio di nuovi attacchi terroristici contro gli Stati Uniti,
come si evince dai particolari trapelati dall’ultimo rapporto dei servizi di
sicurezza americani. Questa catastrofe ha ulteriormente danneggiato la
reputazione internazionale degli Stati Uniti, scesa ormai a un minimo storico,
riducendo la capacità del governo di affrontare nuove crisi e minacce. (..)
Dobbiamo prepararci a vedere gli elicotteri che prelevano gli ultimi americani
dalla Zona Verde mentre la guerra civile dilania l’Iraq? Personalmente, mi
sembra che le opzioni che ci restano si riducono a tre.
La prima è semplicemente quella di cominciare a pagare gli iracheni, affinché
depongano le armi e si cerchino un impiego pacifico. È risaputo che la presenza
americana in Iraq ha costi spaventosi. Joseph Stiglitz, premio Nobel dell’
Economia, prevede un costo finale tra uno e due trilioni di dollari, se la
permanenza americana in Iraq si protrarrà fino al 2010 o al 2015. Queste cifre
danno il capogiro, è vero, ma come spesa annuale in rapporto al prodotto
interno lordo (l’1,1 per cento al massimo), questa guerra resta ancora, a tutti
gli effetti, assai economica. Il vero problema semmai ha due facce: la
prima, gran parte dei soldi spesi sono serviti a finanziare le forze americane;
la seconda, troppe risorse destinate alla ricostruzione economica del Paese
sono state intascate da appaltatori disonesti. Ne è risultato una specie di
Piano Marshall all’inverso, nel quale i soldi dell’America sono andati… agli
americani! Di conseguenza, anziché promuovere la ripresa economica, la
stagnazione ha alimentato la guerra civile. Eppure, con una frazione di
quello che si spende per servire hamburger ai nostri ragazzi, si potrebbero
acquistare e disarmare tutti gli AK-47 che circolano in Iraq.
La seconda alternativa sarebbe implementare una sorta di strategia in stile
britannico, nello spirito di Gertrude Bell. Lasciamo in pace il premier Nuri
al-Maliki e sforziamoci invece di assicurarci, in cambio di denaro, l’appoggio
degli sceicchi delle varie etnie. Portiamo l’esempio dei Paesi arabi più
prosperi della regione e chiediamo agli sceicchi quanto sarebbero tutti più
ricchi e felici se gli Hashemiti non fossero stati rovesciati nel 1958.
La terza opzione è la più importante: lasciamo da parte Siria e Iran e
pensiamo invece a 1) i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza Onu; 2)
alla Germania; 3) al Giappone. Tutti — con l’eccezione della Russia — rischiano
grosse perdite economiche se l’Iraq precipita nel baratro. È vero,
l’internazionalizzazione delle zone di conflitto non è garanzia di buoni
affari, ma la Sarajevo di oggi è meglio della Sarajevo di dieci anni fa. Investire
più soldi, ripristinare le antiche gerarchie di potere, più le Nazioni Unite: è
una formula che farebbe piangere un neocon, ma i neocon dovrebbero piangere già
da un pezzo. Il loro vecchio sogno di un «effetto domino» democratico è
andato in fumo da molto tempo. È venuto il momento di ricorrere non solo al
realismo, ma al realismo più realistico, e questo significa dare agli iracheni
incentivi tangibili perché smettano di ammazzarsi tra di loro. E questo è
l’obiettivo che merita la precedenza assoluta, non la scaletta dell’ultima
ritirata dell’America dal suo sogno imperiale.