Giuliana Ferraino
Mandelson: abbiamo
rispettato le regole, non temiamo i giudici
«Illegittime le tariffe sulle
importazioni di scarpe»
MILANO — I dazi Ue antidumping, voluti
fortemente dall’Italia, contro l’invasione di scarpe da Pechino? I calzaturieri
cinesi adesso contrattaccano e portano l’Europa in tribunale. Un gruppo di
aziende dell’Impero di Mezzo ha presentato ricorso contro la Commissione Ue al
Tribunale europeo di primo grado del Lussemburgo (la seconda corte per
importanza nel sistema europeo di giustizia), chiedendo di annullare le
tariffe del 16,5% imposte sull’importazione di calzature dalla Cina scattate lo
scorso 7 ottobre insieme ai dazi antidumping del 10% sulle scarpe provenienti
dal Vietnam.
Le aziende cinesi contestano la procedura usata dall’Unione europea
nell’indagine che ha preceduto l’introduzione dei dazi, basata su una verifica
a campione invece dell’esame dei prezzi azienda per azienda. Una metodologia
che — sostiene la difesa cinese — sarebbe stata usata per la prima volta dai
funzionari europei in questa materia. Sotto accusa c’è inoltre il criterio di
paragonare i prezzi cinesi a uno Stato analogo, nel caso specifico il Brasile,
invece di riconoscere la Cina come un’economia di mercato e valutarla come
tale.
A fare causa alla Commissione sarebbero almeno due gruppi di aziende,
formati da quattro produttori ciascuno. Se è vero che i dazi Ue colpiscono
1.200 produttori cinesi, i costi, fino a 2 milioni di yuan (circa 195.00 euro),
e i tempi lunghi della procedura, tra i 2 e i 4 anni, hanno scoraggiato la
maggioranza delle imprese, che hanno abbandonato i piani di un ricorso di massa.
Tra chi ha scelto di andare avanti con il ricorso c’è il Gruppo Aokang di
Wenzhou, nella provincia orientale di Zhejian, il maggiore produttore privato
di calzature del Paese con 13 milioni di paia prodotte, di cui 3 milioni
esportate, nel 2005. «Non ci hanno lasciato altra scelta» ha dichiarato il
presidente Wang Zhentao all’agenzia di stampa cinese Xinhua. A spiegare è
l’avvocato della società, Pu Lingchen, considerato il miglior legale del Paese
in materia antidumping: «La Ue ha analizzato solo 10 produttori cinesi di
calzature, al contrario di quanto avviene normalmente. E non ha inviato ad
Aokang alcune spiegazione scritta sul perché non hanno incluso l’azienda nella
lista delle società da investigare».
A Bruxelles, però, non sembrano un granché preoccupati. «Le aziende cinesi
hanno diritto di impugnare la decisione Ue sui dazi antidumping sulle
calzature, ma la Commissione ha piena fiducia. Siamo sicuri che le regole
seguite nell’indagine sono totalmente conformi con le norme della Wto.
Perciò difenderemo vigorosamente le nostre misure davanti al Tribunale del
Lussemburgo» afferma Peter Power, portavoce del commissario Ue per il
Commercio, Peter Mandelson. E non sarebbe nemmeno la prima volta che la
Commissione usa le verifiche a campione, visto che è già successo, quest’anno,
con le borse di plastica importate da Cina e Malesia.
In ogni caso, bisognerà aspettare un anno soltanto per arrivare alla prima
udienza, con il risultato che la sentenza potrebbe arrivare ben oltre i due
anni per i quali resteranno in vigore le tariffe.
Ma proprio sulla durata delle misure i calzaturieri italiani preparano una
nuova battaglia. «A gennaio lanceremo una nuova azione, a livello continentale,
attraverso la Confederazione europea dei calzaturieri, per prolungare da 2 a 5
anni i dazi contro le scarpe cinesi e incrementarne l’entità, alzandoli almeno
al 25%» annuncia da Zanzibar, dove è in vacanza, Rossano Soldini,
presidente dell’Associazione dei calzaturieri italiani (Anci). E motiva: «Nonostante
le tariffe, l’export dalla Cina continua a crescere». E l’Italia è tra i Paesi
più colpiti, con «altri 4.500 posti di lavoro persi nel 2006 e 5-600 aziende
che hanno chiuso i battenti per colpa delle scarpe cinesi». L’unica
consolazione di Soldini è che «chi sopravvive, sta diventando più forte». E
«tra luglio e settembre, nonostante produzione ed esportazione delle calzature
hanno avuto ancora il segno meno, c’è stata una piccola inversione di tendenza,
che fa sperare».