Come da tempo aveva minacciato, Erdogan ha iniziato l’invasione di Afrin, una enclave curdo siriana, all’estremità nord del governatorato di Aleppo, sul confine turco-siriano. E’ una striscia di terra strategicamente decisiva per un eventuale territorio unificato e autonomo curdo in terra siriana, perché solo una striscia di terra la separano da Kobane e dalla Rojava, l’altro territorio curdo-siriano. Strategica anche perché un’altra striscia di terra, appartenente alla Turchia, la separa da un eventuale sbocco sul Mediterraneo.
Due buoni motivi altrettanto strategici per la Turchia di Erdogan di schiacciare sul nascere ogni velleità di indipendenza.
La primavera araba del 2011 e la guerra siriana hanno dato ai curdi siriani l’opportunità di uscire dall’oblio politico. Assad alle prese con la ribellione interna nel 2012 ha ritirato le sue truppe, lasciando ai curdi lo spazio per costituirsi nella Rojava in governo autonomo, controllato dal PYD, Partito dell’Unione democratica, con proprie milizie (YPG). La piccola entità curda ha tentato di creare forme di democrazia dal basso, una federazione di comunità locali che salvaguardasse il pluralismo e la multietnicità, una forte partecipazione della comunità (e in particolare delle donne), certamente progressiva e degna di nota se si considerano le difficoltà oggettive e il carattere reazionario degli altri governi medioorientali. Nel luglio 2012 inizia la battaglia di Aleppo fra gruppi islamici, fra cui avamposti dell’Isis, e truppe di Assad, una battaglia combattuta casa per casa, con episodi di inaudita ferocia. I ribelli islamici possono contare sul sostegno finanziario, militare e logistico della Turchia, che comunque ha come costante obiettivo di tenere separate Afrin da Rojava, tagliare i rifornimenti ai cantoni siriani e tagliare i collegamenti con i curdi della Turchia e col PKK. Man mano che l’Isis si espande a ovest in Siria fra 2013 e 2014 i curdi diventano un’importante pedina nel gioco statunitense, e ottengono sostegno (armi, cibo, intelligence ecc.) copertamente da Israele (dove esiste una forte comunità curda) e abbastanza palesemente dagli Usa. Dopo l’intervento diretto Russo anche Putin ne coltiva la collaborazione.
Nel caos siriano, mentre Aleppo è ridotta a rovine fumanti, le enclaves curde in cui gli ospedali e le scuole funzionano sembrano un’oasi di civiltà.
I curdi dell’YPG sono costantemente in conflitto con i gruppi islamici, per tenere libera la propria aerea, proteggere i confini, e collaborano nella battaglia di Aleppo dove alcuni quartieri sono interamente curdi; accolgono quasi centomila profughi di Aleppo nella Rojava. Nel 2014 Kobane diviene il simbolo dell’eroica resistenza di un pugno di combattenti curdi dell’YPG, costretti a contare essenzialmente sulle proprie forze e su armi leggere per difendersi dall’attacco di Daesh (Isis). Solo tardivamente in loro aiuto intervengono reparti dal Kurdistan iracheno. L’YPG avrà un ruolo decisivo nell’estate 2014, liberando Manbij dall’Isis e per tutto il 2015 in appoggio alle truppe russe che tentano di liberare Aleppo. Nel corso del 2016 e 2017 i curdi siriani hanno sempre più legato le loro sorti agli Usa da un lato e alla Russia dall’altro, situazione complessa dal momento che le due potenze hanno obiettivi strategici ben diversi.
Si è visto bene a fine 2016 con la battaglia finale per la liberazione di Aleppo con la Russia che collaborava con Turchia e Iran e gli Usa contrari alla presenza militare turca e iraniana, ma anche a fine estate 2017 nel caso dell’assedio di Deir EzZor (nella cui provincia passa l’autostrada Damasco-Bagdad) per strapparla all’Isis: la Russia è stata determinante per la conquista da parte di Assad di questo distretto fra l’altro ricco di giacimenti di petrolio, mentre gli Usa hanno cercato fino all’ultimo di impedire la vittoria di Assad, bombardandone “per errore” le truppe e spostando parte delle milizie curde siriane da Raqqa a Deir EzZor.
Le alleanze in Medio Oriente sono quanto mai volatili e le combinazioni di interessi mutevoli. E in questo gioco cinico e baro i curdi sono il vaso di coccio sacrificabile.
I curdi della Rojava hanno conquistato Raqqa, ex capitale del Califfato, per conto degli Usa, sperando in un appoggio Usa alla loro indipendenza, ma hanno compattamente contro Turchia, Iran e Sauditi. Fra Raqqa e Deir ez-Zor hanno inglobato estesi territori a maggioranza araba, ostili al loro predominio, inoltre, il crollo dell’Isis potrebbe preludere a una sanguinosa resa dei conti fra le tribù e i raggruppamenti arabi. Nel corso del 2017 un attacco turco Afrin è stato sempre possibile ma reso improbabile per la presenza delle truppe russe. I quali russi premono perché almeno due campi petroliferi, quello ex Conoco presso Deir EzZor e quello di al-Umar, più a sud, tornino sotto il controllo di Assad pur essendo attualmente sotto il controllo militare curdo. E contemporaneamente hanno intessuto in più convegni una intensa trattativa per dare uno sbocco alla crisi siriana approfittando del nullismo dei vari incontri a Genevra.
In questo contesto la Turchia ha deciso l’attacco. Il 20 gennaio l’aviazione ha bombardato numero obiettivi in Afrin, il giorno seguente è seguita l’invasione di terra sia dal confine settentrionale con la Turchia (truppe di fanteria e corazzate turche), sia da est dove l’opposizione siriana filo-turca dell’Esercito Libero occupa dal 2017 Azaz, Al-Bab e Jarablus, conquistate con l’aiuto di Ankara nell’ambito dell’operazione Scudo dell’Eufrate.
Giustamente scrive Sofri (Foglio 23 gen) che il nome della spedizione (“Ramo d’olivo”) brilla per impudenza e ovvietà, così come lo slogan di Erdogan “Dio è con noi”. Andrebbe aggiunto che i morti a Afrin sono la giusta introduzione ai colloqui di pace che si tengono a Vienna il 25, sotto gli auspici dell’Onu, e il 30 a Sochi, sotto l’egida russa.
Erdogan si è mosso perché, molto opportunamente per la Turchia, la Russia ha ritirato truppe e osservatori da Afrin, in cui agiva da garante da più di 18 mesi. Formalmente la Russia ha protestato, ma a Mosca il 18 si era tenuto un vertice militare russo-turco (cfr. East West Europe del 22 gennaio). Assad d’altro canto non ha fatto abbattere gli aerei turchi dalla sua contraerea.
Gli Usa avrebbero chiesto che l’operazione contro Afrin “non duri troppo”; Tillerson ha invitato “alla moderazione tutte le parti” (sic), ma ha aggiunto: “Riconosciamo pienamente il legittimo diritto della Turchia di proteggere i propri cittadini dagli elementi terroristici” (dunque via libera al massacro).
In Europa la Francia ha chiesto la convocazione d’urgenza del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Il 20 gennaio la Merkel riceveva funzionari della sicurezza turca
per “conversazioni amichevoli”, nessuna parola è stata spesa per le vittime di Afrin (WSWS 22 gennaio), al contrario il governo tedesco si è impegnato a perseguire i militanti PKK sul suolo tedesco (la Germania ha in corso trattative per una cospicua vendita di armi a Istambul).
I boss delle potenze imperialiste hanno armato e gettato in prima fila i curdi, per le proprie tattiche sullo scacchiere siriano, salvo abbandonarli alle vendette della Turchia, quando sono meno utili.
Nemmeno la solidarietà etnica funziona: Barzani il presidente del Kurdistan iracheno, che col Rojava curdo-siriano confina, si è limitato a dire che la soluzione pacifica è preferibile.
Dietro la decisione russa c’è sicuramente una serie di considerazioni.
Assad sta assediando Idlib, per eliminare le ultime sacche di resistenza dei ribelli siriani, e i turchi avrebbero dato l’assenso all’operazione (contro frange islamiche turkmene e iugure che controllano la città) in cambio di un assenso russo all’operazione ad Afrin (cfr EastWest Europe del 23 gennaio).Il rappresentante del governo del Rojava ad Afrin Aldar Xelil ha confermato che i rappresentanti russi si sono offerti di fermare l’attacco turco solo in cambio di cedere Afrin al controllo del regime di Damasco.
Se le due operazioni (Afrin e Idlib) andassero in porto la Turchia si garantirebbe che l’unica opposizione ad Assad resterebbe quella filoturca e l’unica area curda sarebbe ad est dell’Eufrate. Assad riconquisterebbe lo sbocco sul Mediterraneo e potrebbe garantire le concessioni russe in tutta tranquillità.
L’accordo consentirebbe a Putin di sbloccare i negoziati di Sochi, in cui la Turchia si è messa di traverso.
Infine la Turchia acquisterà per 2,5 miliardi di $ due batterie di missili a lungo raggio S-400.
Gli Usa sono accusati di aver “provocato” Erdogan con l’annuncio del 14 gennaio di un piano di formazione di 30 mila uomini da integrare nelle Forze Democratiche Siriane (SDF la coalizione curdo araba sponsorizzata dagli Usa) come nuove “Guardie di frontiera”; gli Usa hanno peraltro ritirato il progetto dopo le sfuriate di Ankara.
Gli Usa del resto non hanno mai preso un impegno formale per l’indipendenza della Rojava e in più con l’Isis in ritirata da Siria e Iraq il sostegno dei curdi nella zona è diventato meno indispensabile, quindi la Turchia si è mossa pressoché certa che Trump sarebbe stato a guardare. Erdogan del resto si è garantito l’appoggio “esterno” del governo iracheno di Haider al-Abadi che potrebbe impegnarsi per impedire che i curdi iracheni corrano in aiuto di Afrin come fecero con Kobane, dal momento che dopo il referendum voluto da Barzani anche il governo iracheno ha tutto l’interesse a schiacciare ogni aspirazione indipendentista. Dal punto di vista di Trump una guerra sul confine che impegni la Turchia per almeno sei mesi in un’area che non rappresenta particolare interesse per gli interessi statunitensi può essere un fatto positivo. E in generale può essere positiva la continuazione dello stato di guerra che rimandi la ricostituzione di uno stato comunque inevitabilmente filo-russo.
L’esito a Afrim è apparentemente scontato data la sproporzione militare fra i contendenti. Erdogan millanta la sicurezza di una “guerra-lampo”, per conquistare in profondità quei 30 km necessari a “tenere sotto controllo i terroristi” dell’YPG, rassicurando nel contempo gli investitori che l’episodio non provocherà instabilità. Escusatio non petita…
Non tutti i commentatori infatti danno per scontata la sconfitta curda, soprattutto pensando a Kobane e al fatto che i curdi, oggi, sono meglio armati e meglio organizzati, si battono letteralmente per la sopravvivenza e potrebbero rendere troppo costosa la spedizione all’esercito turco.
Tutte le potenze regionali sono contro l’indipendenza curda perché in ciascun paese sono una minoranza più o meno penalizzata. In particolare Erdogan vuole schiacciare i curdi siriani perché teme il ravvivarsi dell’opposizione dei curdi turchi, che costituiscono lo strato più povero e sfruttato del proletariato turco. E come i curdi vengono arrestati, torturati perseguitati dal governo turco, lo stesso pugno di ferro viene usato contro i lavoratori e gli oppositori. L’aggressività all’esterno, da parte dello stato, è l’altra faccia della violenza di classe all’interno.
La tragedia della Siria è figlia oltre che delle ciniche strategie degli imperialismi, anche degli appetiti delle nuove, aggressive nuove potenze regionali, che in barba ad ogni diritto internazionale codificato tentano di correggere a proprio vantaggio i confini. Le battaglie di Afrin e Idlib produrranno altri profughi, altri morti, altre sofferenze, altra instabilità (prevedibile il successivo attacco a Manbij) o viceversa quella “pace dei morti” cui i conflitti moderni ci hanno abituato. Intento quand’anche domani davvero si realizzasse la pace, la Siria resta un paese distrutto (i costi della ricostruzione sono calcolati in 226 miliardi di $), con milioni di profughi interni ed esterni, privo dei più elementari servizi, in cui la speranza di vita è crollata di 15 anni e in cui sono ricomparse malattie da tempo debellate come la tubercolosi, la leishmaniosi e la scabbia.
L’unica luce in questo quadro viene dalle manifestazioni che si sono svolte in Turchia contro l’operazione militare su Afrin, definita un “crimine di guerra”, e che hanno portato all’arresto di 91 oppositori a Istanbul, Ankara, Izmir, Mersin, Van, Igdir, Diyarbakir. Sono proteste che richiedono coraggio e molta determinazione. Come comunisti dobbiamo sostenere proteste come queste, farle conoscere, denunciare le complicità dei governi di casa nostra e sviluppare legami internazionali.