Sono passati più di 7 anni dall’inizio della crisi dalla quale l’economia italiana non è ancora uscita (checché ne dica Renzi). E mentre l’America celebra il suo ciclico boom insieme alla Gran Bretagna, già si addensano le nubi della prossima crisi, annunciata dal nuovo tonfo della Borsa di Shanghai.
L’avvio della restrizione monetaria negli USA non impedirà la formazione delle prossime bolle speculative. I capitali, dopo aver fatto il pieno di profitti nei “paesi emergenti”, li abbandonano mentre entrano in crisi (Brasile e Russia sono in recessione). Il perdurare del quantitative easing in Eurolandia potrà evitare il crollo delle banche ma non riporterà l’Europa, sempre più vecchia e frastagliata, agli anni “gloriosi”.
Dopo aver trainato il mondo la Cina lo spaventa col suo rallentamento. La sovraccumulazione di capitali, in settori come l’acciaio, il carbone, il cemento, i palazzi, i pannelli solari, ha portato alla sovrapproduzione e al crollo dei profitti. L’anarchia del capitale e il ciclo boom-crisi si impongono anche laddove lo Stato ha la pretesa di controllare ogni impresa oltre a ogni oppositore – e dove in realtà è il capitale che si è comprato tutto l’apparato di Partito e Stato. Ma la Cina potrà evitare ancora una grossa crisi fin quando potrà gettare sul mercato urbano altre decine di milioni di contadini ogni anno.
In Africa la combinazione tra crescita demografica, disgregazione contadina e guerre aumenta l’esercito di riserva delle forze lavoro più di quanto l’accumulazione di capitali in loco sia in grado di assorbirne: altri milioni migreranno verso l’Europa: un’occasione per il grande capitale preoccupato per il calo demografico, ma anche per i lavoratori se respingeranno le sirene del razzismo e vedranno nei nuovi arrivati dei compagni di lotta.
Italia nuovo malato cronico
L’Italia nonostante i regali di Renzi alla grande borghesia (Jobs Act, riduzione imposte, ecc.), i bassi tassi di interesse, i bassi prezzi di petrolio e materie prime, è il nuovo malato cronico d’Europa con una stagnazione ventennale. Non riparte il ciclo degli investimenti proprio perché il modello centrato su bassi salari e supersfruttamento (plusvalore assoluto anziché relativo) è un disincentivo a investire.
Il persistere di un’alta disoccupazione nella metropoli italiana viene a costituire uno dei più importanti fattori di obbiettivo freno alle lotte ed alle mobilitazioni. Ad essa va aggiunta la dinamica di un mercato del lavoro che vede sempre più aumentare e consolidarsi (anche grazie al Jobs Act) una “biforcazione” tra ultra-cinquantenni ed ultra-sessantenni abbarbicati al proprio posto di lavoro per approdare alla tanto agognata pensione, e settori giovanili di forza-lavoro quanto mai “flessibili”, precari, a digiuno di una qualsivoglia esperienza di lotta e di organizzazione.
Tutto ciò alimenta inevitabilmente “istinti di conservazione” e individualismo a livello di massa, nonostante qualche settore operaio (logistica, trasporti) cerchi faticosamente di rompere tale passività sociale.
Offensiva padronale all’insegna della compressione salariale
In tale contesto l’offensiva padronale trova il terreno ideale per allargare il suo raggio d’azione, complici le burocrazie sindacali: messa in discussione del Contratto Nazionale di Lavoro da parte di Federmeccanica, e sostituzione di esso con Accordi aziendali e/o individuali, legati non più alla paga oraria ma al “rendimento” (o che dir si voglia cottimo. Parola del Ministro del Welfare Poletti).
Il governo Renzi, dopo aver “sistemato” i lavoratori con leggi ispirate direttamente dai padroni e dallo Stato (Jobs Act e “Buona Scuola”), è ora intento a ridisegnare il sistema politico per far sì che esso corrisponda meglio alle esigenze del grande capitale che lo appoggia; senza con questo toccare i privilegi delle corporazioni piccolo-borghesi (in primis sul versante evasione ed elusione fiscale).
Rafforzamento dell’Esecutivo con la legge sul Senato, allineamento di regime delle televisioni, varo di decreti sulle banche atti a prelevare comunque capitali per “rimpolpare” i “buchi” dei loro giochi d’azzardo.
La “quadratura del cerchio” la si trova comprimendo a più non posso il tenore di vita delle masse proletarie.
La Chiesa cattolica – che ha smesso da tempo di sponsorizzare un “suo” partito – gioca con abilità e scaltrezza la carta della rappresentanza “morale” dei “poveri” e degli “ultimi”, spendendo mediaticamente la figura di papa Francesco. A quest’ultimo infatti, davanti ad una corruzione subdola quanto estesa del suo clero, ad una crisi inarrestabile delle “vocazioni” nei paesi “maturi”, non rimane che rilanciare l’“opzione” dei poveri di fronte ai disastri del capitalismo: le migrazioni forzate, la disoccupazione, la guerra, la distruzione del pianeta…
Un capitalismo avversato a parole come non mai da un pontefice; ma che continua “tranquillamente” ad infischiarsene degli “appelli” di una struttura secolare che respinge geneticamente ogni azione tesa ad abbatterlo.
Le nuove-vecchie missioni militari “di pace”
L’imperialismo italiano, a fronte dell’attuale incrudimento dei rapporti internazionali e del ridimensionamento del suo peso economico, si ripropone con la sua tradizionale politica del “piede in due scarpe”, cercando di porsi in modo equidistante fra Usa e Russia e utilizzarne l’appoggio per rimontare le sue difficoltà nei confronti degli altri imperialismi europei (Francia e Germania in particolare).
Benché si presenti con la tradizionale ideologia del paese volto alla pace, utilizza sempre più spesso le missioni militari sia come merce di scambio che come strumento di penetrazione o garanzia economica (Afghanistan, Iraq, Libano, e probabilmente Libia).
Medio Oriente, cartina al tornasole delle contraddizioni
Questo ci porta al ruolo del Medio Oriente, come cartina al tornasole del ciclo del nostro tempo, con l’intreccio fra appetiti delle vecchie metropoli imperialiste e delle potenze regionali a giovane sviluppo capitalistico. Questi nuovi attori, dalla Turchia all’Arabia Saudita, dall’Egitto all’Iran, non si limitano a esprimere autonome aspirazioni egemoniche, ma gettano nell’agone il proprio peso demografico economico e militare, determinando, sia pure parzialmente, gli eventi, procedendo autonomamente a “colpi di mano”.
Non c’è più solo la volontà di accaparrarsi le risorse, ma anche la corsa a garantirne il controllo e impedire l’accesso agli altri paesi. Spezzare l’unità territoriale degli Stati usciti dal secondo conflitto mondiale da tempo non è più un tabù. Dopo la prova generale nella ex Jugoslavia, si sussegue a ritmo serrato la disgregazione degli Stati stessi, dall’Iraq alla Libia alla Siria, e i tentativi di spartirli, con effetti devastanti e una continua distruzione di vite umane, beni e risorse in una partita di cui nessun contendente tiene i fili.
Nel nuovo mondo multipolare le alleanze sono fluide, gli schieramenti si compongono e si scompongono più velocemente che in passato, a seconda della specifica convenienza. Ci sono vecchie potenze che utilizzano la forza militare per rallentare il proprio ridimensionamento, come la Russia e la Francia, altre che preferiscono giocare la carta economica in luogo dell’intervento militare, come la Germania, mentre gli Usa tentano di restare determinanti mirando alla “bilancia di potenza”, ma gli effetti a lungo termine sono in ogni caso di continua destabilizzazione.
La vecchia Europa “assediata”
Nella ricca e demograficamente vecchia Europa, davanti all’inedita ondata migratoria, cresce la sindrome dell’assedio e riemergono con sempre maggior forza ideologie xenofobe e razziste. L’illusione di poter impunemente intervenire a saccheggiare e destabilizzare quello che era un tempo il “Terzo Mondo”, di poter essere i registi di conflitti esterni senza pagarne le conseguenze nel cortile di casa sono finite. Ma dal punto di vista della borghesia europea l’utilizzo della guerra di rapina fuori dei propri confini e l’utilizzo del terrorismo come arma di controllo sociale all’interno sono due facce della stessa medaglia. All’indomani degli attentati di Parigi, Hollande cavalca l’onda emotiva per imporre lo stato di emergenza, proibire scioperi e manifestazioni, censurare l’informazione, rafforzare i poteri dell’esecutivo, ma anche rilanciare la spesa militare, l’intervento militare in Siria e nei paesi centroafricani, riproponendo nel contempo un’azione in Libia.
Le elezioni amministrative francesi, con il previsto successo del Front National di Marine Le Pen conferma che la destra razzista è, nei numeri, il partito di “scorta” per la borghesia francese, ma non ancora la scelta privilegiata (e il papocchio Hollande-Sarkozy per estromettere l’intruso ne è la manifestazione).
Nella Germania della Merkel l’episodio di Colonia viene cavalcato per scatenare una nuova caccia allo straniero. Ad Est si fa a gara a erigere muri contro gli immigrati. Le elezioni spagnole evidenziano la difficoltà della borghesia a realizzare una centralizzazione politica, ma i nuovi partiti di opposizione esprimono più i disagi di una piccola borghesia impoverita dalla crisi che le istanze dei lavoratori, preda della disoccupazione.
Superare la frammentazione organizzare la lotta
Le contraddizioni aumentano, ma non portano spontaneamente i proletari alla lotta contro il capitalismo, un sistema che garantisce ai più sfruttamento, repressione, guerre. Spesso il nemico è difficile da individuare. Il recente fallimento delle quattro banche popolari in Italia non ha solo dimostrato che non esistono “banche amiche”, ma vede il coinvolgimento dei salariati nel meccanismo del credito, come vittime certo, ma anche come percettori, sia pure marginali, di una quota di rendita finanziaria.
Che fare nelle metropoli imperialistiche dove il senso di impotenza e la pratica dell’individualismo ha raggiunto quote elevate?
Occorre che i comunisti diventino punti di riferimento nelle lotte per gli interessi immediati dei proletari, per riportare sempre e comunque ogni specifica situazione al quadro generale, collegandole all’iniziativa contro la guerra, contro il proprio imperialismo, contro ogni imperialismo.
I comunisti misurano la propria maturazione e presa politica sul lavoro diretto a fare dell’internazionalismo una politica coerente, sintetizzandola nella teoria, superando le divisioni nell’azione, catalizzando nell’organizzazione l’attualità della lotta di classe.