Il 17 marzo si voterà in Israele, il terzo mandato di Netanyahu è infatti arrivato al capolinea e il premier è convinto di potersene garantire un quarto con alleati più affidabili.
Secondo un sondaggio del Jerusalem Post, invece, altri politici, meno legati a ricette del passato sarebbero preferiti dall’elettorato, come Moshe Kahlon o Gideon Saar, entrambi transfughi del Likud, lo stesso partito di Netanyahu.
Kahlon, 54 anni, figlio di immigrati libici, otto anni nell’esercito poi studi tardivi mentre vendeva componenti d’auto, popolarissimo ex ministro delle comunicazioni, ha lottato per abbassare il costo dell’elettricità per le famiglie povere e ha ridotto drasticamente il costo della telefonia mobile (la più usata dai proletari arabi ed ebrei immigrati). Kahlon ha ripreso la proposta di Sharon di concedere “terra contro pace” ai palestinesi.
Sa’ar è figlio di una ebrea persiana e di un immigrato argentino, anche lui ha studiato legge dopo il servizio militare, ha proposto di condannare alla prigione gli imprenditori che licenziano le donne incinte (nel quadro della lotta per l’incremento demografico degli ebrei nei confronti dei palestinesi).
Questi due nomi ci dicono molto sul volto nuovo di Israele, dove la vecchia guardia Askhenazy, detentrice della maggior parte del capitale, deve però delegare la sua rappresentanza politica a chi proviene dalle file dell’immigrazione ed è in grado di dialogare coi nuovi poveri, che sono i palestinesi, ma anche gli ebrei immigrati russi, africani (sefarditi o falascia), centroasiatici. Un quadro sociale più articolato della semplice contrapposizione ebrei/palestinesi utile sia alla leadership palestinese che a quella israeliana.
La crisi di governo è palesemente legata alla cacciata di Tzipi Livni, 62 anni, figlia di un militante dell’Irgun, lei stessa ex agente segreto, leader di HaTnuah, e Yair Lapid, 49 anni, ex giornalista televisivo, leader di Yesh Atid ( = C’è un futuro) che rappresenta il ceto medio urbano, che ha votato per lui nel 2013 perché prometteva la fine della guerra coi palestinesi e la fine dei privilegi agli ultraortodossi (proposta: coi soldi risparmiati costruiamo case per i giovani a mutuo agevolato), ma anche gli imprenditori più competitivi, che puntano a uno stato moderno con uguali diritti per tutti.
Livni e Lapid si sono opposti alla proposta di legge costituzionale che introduce il concetto di “identità ebraica” (= diritti di cittadinanza solo agli ebrei). Nel dicembre 2012 sondaggi indipendenti mostravano che il 67% degli israeliani e il 58% di chi votava Netanyahu appoggiava la soluzione dei due stati, con Gerusalemme divisa in due. Oggi, tuttavia, nessuno scommetterebbe un NIS sulla possibilità di realizzarla. Non è solo la destra israeliana che esclude la soluzione “due popoli due stati”, su cui la ANP ha costruito la sua strategia. Anche le formazioni palestinesi radicali vogliono uno stato unico, perché sono convinte che ben presto i palestinesi sarebbero prevalenti per ragioni puramente demografiche.
Nel frattempo il fenomeno delle colonie, cresciuto esponenzialmente negli ultimi anni, ha modificato irreversibilmente il quadro, dando forza alla estrema destra religiosa che non vuole uno stato laico, perché ingrassa sui privilegi del suo status ( 250 € per figlio, media di 10 figli per famiglia, 60% che ha diritto a un sussidio di disoccupazione a vita, perché “pregano”: totale costano 1 miliardo di € all’ anno), può mobilitare l’ala dura dei coloni con un razzismo antiarabo consapevole, agita lo spettro del terrorismo per ottenere la limitazione delle lotte sindacali e per reprimere l’opposizione liberal, insomma propone un fascismo israeliano in salsa reazionario religiosa.
Oggi chi si oppone alle colonie o alla repressione dei palestinese, se israeliano, ha vita molto più difficile che in passato. Lo Stato di Israele non riconosce il diritto all’obiezione di coscienza per motivi politici e chi lo rivendica in genere finisce in prigione.
I refusenik nel 1982, dopo Sabra e Chatila furono 3.500: durante a prima Intifada in 2.500 rifiutarono di sparare agli adolescenti; nel 2000 in 650 durante la seconda intifada. Oggi sono poche centinaia. La pressione sociale è enorme (Reddacion Madrid 5 ottobre 2014). Se alle elezioni di marzo Netanyahu si confermasse premier, secondo i sondaggi attuali, per avere una maggioranza, sarebbe costretto non solo a confermare il sodalizio con il “falco” Lieberman, oggi ministro degli esteri e bandiera degli immigrati russi, che costituiscono il nerbo dei nuovi coloni, e con Naftali Bennet, 42 anni, leader di HaBayit HaYehudi (“Focolaio Ebraico”), uno degli uomini più ricchi di Israele. Dovrebbe imbarcare anche i due partiti ultraortodossi. La proposta unificante: puntare allo “stato unico” o espellendo una quota consistente di arabi da Gerusalemme est verso la West Bank, o annettendo direttamente l’area C della West Bank imponendo uno status di cittadini di serie B a tutti gli arabi. Una riedizione insomma dell’apartheid sudafricana.
Sembra improbabile una soluzione di sinistra borghese o di centro; per come pesa ora il partito laburista dovrebbe allearsi sia con Tzipi Livni che con la destra israeliana laica e “civile”, ad es. Kahlon, per archiviare la legge sull'”identità ebraica”. Esclusa a priori una alleanza con i partiti dei palestinesi con cittadinanza israeliana.
Nessun palestinese, peraltro si è sentito rappresentato da Livni e Lapid, che non si sono opposti a Netanyahu per garantire i diritti dei palestinesi, ma perché temono che una identità religiosa ebraica imposta a Israele comporti la limitazione dei diritti cari alla classe media (gli ultraortodossi vorrebbero limitare l’aborto ai soli casi di rischio della vita, imporre tribunali religiosi, per chi lo richiede, scuole religiose dove non si insegna matematica e inglese e le scienze si studiano sulla Bibbia, minori diritti per le donne, ad es. la tutela patrimoniale da parte di un parente maschio, ecc.). Inoltre vogliono ridurre la spesa per gli ultraortodossi perché sono improduttivi e mettono a rischio il bilancio dello stato.
I parlamentari palestinesi, pur opponendosi alla legge in questione, hanno dichiarato che sarebbe solo la ratifica giuridica di una situazione di discriminazione che quotidianamente il milione e 700 mila arabi con passaporto israeliano verificano sulla loro pelle. Una situazione che è comunque definita da altre 57 leggi discriminatorie, tutte approvate dalla Knesset, alcune nel periodo 1948-1966 in cui i cittadini palestinesi di Israele erano posti sotto legge marziale, altre recenti. Una fra tutte oggi è particolarmente odiata, il rifiuto della cittadinanza alle mogli provenienti da Gaza o Cisgiordania. Ma particolarmente discriminatorie sono le difficoltà poste solo ai palestinesi, per l’acquisto di case o terra coltivabile, o per costituire associazioni e gruppi politici (Al Jazeera 2 dicembre 2014).
Tutti i sondaggi prevedono una vasta astensione degli arabi israeliani alle prossime elezioni. Infatti la nuova soglia di sbarramento elettorale al 3,25% lascerà fuori della Knesset almeno un partito palestinese; se anche si formasse una unica lista palestinese, essa arriverebbe terza o quarta in parlamento, sarebbe cioè emarginata. Si può dire quindi che la componente palestinese di Israele ha perso per buona parte ogni fiducia nella possibilità di rappresentare per via parlamentare i suoi diritti.
In questo quadro l’ipotesi di un fronte proletario, al di sopra delle religioni e delle etnie, che porti avanti gli interessi dei lavoratori, oggi sul piano sociale, domani su un piano politico più complessivo, è assurda, sorpassata, inattuale ? In termini oggettivi no. Non c’è da una parte un proletariato sfruttato che coincide completamente coi palestinesi e dall’altra una componente borghese sfruttatrice totalmente ebraica. Come in un qualsiasi paese capitalistico, la borghesia israeliana (che è più forte e dominante rispetto a quella palestinese, ma non l’unica borghesia) usa lo strumento della contrapposizione religiosa, linguistica ed etnica per sfruttare meglio i lavoratori israeliani oltre che quelli palestinesi. Ma non c’è oggi una organizzazione di significativa consistenza che porti avanti l’dea di un fronte proletario o anche solo della pacifica convivenza fra palestinesi e ebrei in un quadro borghese. D’altro canto risulta altrettanto chiaro è che la creazione di un fronte unico di lotta dei proletari che prescinda le divisioni etniche e religiose sarà impossibile o velleitario senza mettere in discussione l’essenza stessa dello Stato sionista che oggi più di ieri fonde in sé le caratteristiche di potenza imperialista occupante e regime sociale di apartheid.
L’Ocse per il 2013 parla di un 20,9% di persone sotto la linea di povertà in Israele, pari a 1,4 milioni. Di fronte a loro, ci informa Haaretz, ci sono i 500 più ricchi tra gli israeliani la cui fortuna complessiva è di 75 miliardi di $ (il PIL israeliano è di 194 miliardi). Alcuni di questi milionari sono palestinesi.
Significativi anche i dati pubblicati di recente dal Ministero dell’Economia israeliano. A causa dell’inflazione i consumi dei beni primari nel primo trimestre 2014 segna un -3,2% sul 2013. In crescita soprattutto gli affitti (+46% in 10 anni),i prezzi di alimentari e beni della prima infanzia. Gli alimentari in Israele costano un 25% in più dei paesi UE (dati Centro ricerca Knesset). I salari invece sono fermi dal 2010; il 65% dei salariati prende intorno a 1250€ lordi; la pressione fiscale è del 13%. Cresce l’indebitamento delle famiglie (nel 2014 + 7,1% sul 2013 per un totale di 410 miliardi di €). I profitti sono invece cresciuti moltissimo, 7 miliardi di $ nel solo 2013 (la crescita del PIL dello stesso anno è intorno al 3,3% annuo).
L’Histadrut una volta centrale unica sindacale ebraica, strettamente interconnessa con lo stato ebraico e il partito laburista, rappresenta attualmente solo il 20% dei lavoratori israeliani e principalmente quei lavoratori ad alta professionalità non toccati dalla crisi. Negli anni ’70 organizzava invece l’85% dei lavoratori per la semplice ragione che solo se iscritto un lavoratore aveva diritto all’assistenza malattia. Nel 1977 lo stato ha avocato a sé il servizio sanitario. Benché collaborazionista e concertativa, l’Histadrut è stata costretta dalla pressione degli iscritti a minacciare lo sciopero generale per chiedere il rispetto del minimo salariale e la riduzione dei contratti temporanei ormai dilaganti in particolare nei servizi (Times of Israel 16 novembre 2014).
Nel 2007 è stato fondato un nuovo sindacato israeliano indipendente Koach La Ovdim (potere ai lavoratori), 12 mila membri nel 2013. Nato per dar voce ai precari, moltiplicatosi a vista d’occhio dopo le privatizzazioni degli anni ’70, KLO ha organizzato molti scioperi coinvolgendo insieme arabi ed ebrei (ha introdotto la pratica dei volantini e dei comizi bilingui). Nessuno ne parla ma dal 2011 è in aumento il numero dei palestinesi impiegati nelle colonie israeliane; lavorano in violazione delle leggi dell’ANP, costretti dall’alto tasso di disoccupazione nei territori occupati (37% a Gaza 17% in Cisgiordania) ma anche perché i salari nei territori sono molto più bassi ( 46,2 Nis al giorno a Gaza, 76,9 in Cisgiordania, 150 nelle colonie – 1 NIS vale circa 20 centesimi di euro). I sindacati connessi con l’ANP non li organizzano considerandoli traditori e giustificano i bassi salari perché gli imprenditori palestinesi sono “patrioti”. KLO ne ha contattati 28 mila, di cui 10 mila lavoratori senza permesso di lavoro e visto, quindi non registrabili ufficialmente, ma a cui KLO offre assistenza e consulenza, oltre che prestiti di prima accoglienza. KLO lotta perché ai palestinesi sia applicato il salario minimo previsto per gli israeliani (sentenza 2007 dell’Alta corte) e godano di assistenza malattia e infortuni.
Analoga l’esperienza del WAC (Workers advice center), Maan in arabo, che da centro di consulenza si è trasformato in vero e proprio sindacato, che si occupa di lavoratori arabi e israeliani, ma soprattutto dei disoccupati, dei braccianti e dei muratori arabi, “perché sono l’anello più debole del mercato del lavoro israeliano”. Anche Wac pubblica i volantini in arabo, ebraico e russo e cercano di impedire la concorrenza fra lavoratori ebrei di recente immigrazione e arabi, sviluppando invece azioni di solidarietà. Secondo WAC mentre cresceva a dismisura la ricchezza delle venti famiglie israeliane più ricche,” circa un milione di lavoratori sono stati spinti sotto la soglia della povertà”. “Operai comuni, addetti alle pulizie, commessi, autisti, insegnanti elementari percepiscono il salario minimo mensile (687€ al mese), i 250 mila immigrati ancora meno….” “gli operai specializzati in media guadagnano 892 €”.
Secondo Wac i poveri sono una alta percentuale di palestinesi e di ebrei Mizrahi (cioè orientali, provenienti di recente da paesi medio orientali e nord africani; da non confondere coi sefarditi, immigrati nei primi anni ’50), buona parte degli ebrei russi e dei falasciah etiopi. Quindi arabi ed ebrei, se sono lavoratori, stanno avvicinandosi moltissimo nelle condizioni di vita.
Per quanto minoritarie, esistono quindi esperienze di superamento degli steccati etnici e linguistici fra lavoratori sul piano sindacale. E’ questa la fiammella che va sviluppata, anche se al momento nel quadro delle politiche di aggressione permanente di Israele a danno della popolazione palestinese, nessuna organizzazione politica sembra in grado di farlo.