ITALIA, LAVORO
CORRIERE Ven. 17/3/2006
PIETRO ICHINO
L’inaccessibilità del “posto fisso” è conseguenza
proprio del suo eccesso di protezione.
La precarietà è diffusa nei settori poco produttivi
(dove applicare i diritti potrebbe causare licenziamenti in massa) e dove i
posti di lavoro fissi sono limitati (N.d.R.: ma limitati per
scelta di chi??): pubblico impiego, ecc..
“L’uguaglianza non si garantisce con un tratto di penna
del legislatore”, ma con una politica che integra le debolezze produttive con i
servizi.
Le statistiche di
Bankitalia sulle assunzioni a termine confermano la tendenza all’aumento del
lavoro precario, soprattutto tra le nuove generazioni. Può colpire che questo allarme venga da quella
stessa cattedra dalla quale sovente, in passato, è stata raccomandata una
maggiore flessibilità della disciplina del rapporto di lavoro; ma
l’osservazione empirica di oggi non contraddice affatto quelle indicazioni di
policy: semmai le rafforza. Il problema non sta
tanto nell’esistenza di un’area di lavoro precario, quanto nella difficoltà di
uscirne con la maturità professionale, accedendo all’area del lavoro protetto;
e l’inaccessibilità di quest’ultima è conseguenza proprio dell’eccesso di
rigidità della protezione.
Sarebbe utile che le statistiche incominciassero anche a distinguere tra i due
tipi di lavoratori coinvolti nel fenomeno del precariato, di cui proprio pochi
giorni fa abbiamo discusso su queste pagine (Corriere del 14 marzo). Un
problema è quello del lavoratore precario professionalmente forte, che ha
soltanto la sfortuna di collocarsi in settori del mercato dove i posti di
lavoro stabili, per vari motivi di natura istituzionale o sindacale, si
bandiscono col contagocce: così nelle università, negli ospedali, nelle
case editrici, in generale in tutto il settore pubblico; un problema di
natura molto diversa è quello del lavoratore precario debole, che riesce a
trovare un’occupazione soltanto sotto-standard perché è meno produttivo della
media della sua categoria. La distinzione tra i due casi è molto
importante, perché le rispettive possibili cure sono diverse; e se non si
coglie la differenza si rischia di fare disastri. È dunque auspicabile che in
futuro la Banca d’Italia e l’Istat facciano il possibile per rendere i due
aspetti del lavoro precario meglio visibili, quantificabili e individuabili
nella mappa del tessuto produttivo nazionale.
Il lavoratore precario professionalmente debole è solitamente occupato in
settori, o margini del tessuto aziendale, caratterizzati da alta elasticità
della domanda: cioè in zone dove a un aumento anche modesto del costo del
lavoro corrisponde una riduzione rilevante della domanda. Qui, se
l’intervento consiste nell’imporre uno standard di trattamento più costoso per
l’azienda (e anche la stabilità costituisce un costo assai rilevante, a parità
di retribuzione), esso può determinare la soppressione del posto di lavoro. Lo
sanno bene – per esempio – i sindacati che nei call center sono costretti ad
andare con i piedi di piombo nel rivendicare la regolarizzazione di migliaia di
false collaborazioni autonome, per evitare il rischio di far perdere il posto a
migliaia di giovani.
Nelle ultime settimane l’Unione col suo programma elettorale e la Cgil con
le tesi approvate dal suo ultimo congresso hanno indicato come obiettivo
generale di politica del lavoro la parificazione del costo dei cosiddetti
lavori atipici rispetto a quello del lavoro regolare. Faranno bene
anch’esse ad andare con i piedi di piombo su questo terreno, se non vogliono
mietere vittime tra i precari. È questo un terreno sul quale
l’uguaglianza non si garantisce con un tratto di penna del legislatore, ma va
costruita nel vivo del tessuto produttivo con l’intelligenza delle analisi e
con l’efficienza dei servizi di educazione, informazione, orientamento
professionale, formazione mirata e assistenza alla mobilità geografica: i
soli mezzi utili per neutralizzare l’handicap di cui soffre il lavoro debole.