Il riarmo giapponese recente[i] è la conclusione di un percorso che va dal “miracolo economico” degli anni ’80, grazie al quale il Giappone diviene il rivale economico numero uno degli Usa, alla stagnazione dei decenni successivi, mentre esplode la crescita economica e militare della Cina. Naturalmente sarebbe necessario aver presente almeno tutta la storia del ‘900,[ii] dalla sconfitta di Tsushima, inflitta dal Giappone imperiale alla Russia zarista nel 1905, attraverso la creazione della “sfera di coprosperità asiatica”, l’attacco di Pearl Harbor nel 1941, il ruolo del Giappone nella II guerra mondiale, la sua sconfitta. Dobbiamo per necessità dare tutto questo per scontato. Ci limitiamo a considerare che oggi un ruolo autonomo del Giappone, dati i rapporti di forza, non è più possibile: o si allea con gli Usa per “contenere” la Cina, o si allea con la Cina per una nuova edizione di “l’Asia agli Asiatici”. E la prima opzione sembra di gran lunga prevalente. Ci interessa sottolineare che in Giappone, mentre la borghesia punta al riarmo, si sono formati importanti movimenti antimilitaristi e antimperialisti che vi si oppongono e con i quali come internazionalisti vogliamo e dobbiamo collegarci.
Mutamento dei rapporti di potenza e riarmo
Negli anni ’80, al top della potenza economica del Giappone,[iii] i suoi governi hanno continuato ad applicare la cosiddetta “dottrina Yoshida”,[iv] cioè confidare per la propria sicurezza nell’ombrello nucleare americano. Nello stesso periodo, solo i membri più nazionalisti del PLD (Partito Liberaldemocratico) chiedevano la creazione di un complesso militar-industriale giapponese che consentisse al paese una “politica di potenza” autonoma sia dalla Cina che dagli Stati Uniti. Infatti (come poi rinfacceranno gli Usa), nel secondo dopoguerra le frazioni borghesi dominanti in Giappone, come del resto quelle italiane o tedesche, trovavano vantaggioso, in termini di competitività commerciale e finanziaria, tenere un basso profilo militare. Il disarmo non fu una libera scelta, si trattò di una precisa imposizione statunitense, ma che si tradusse in concreto in un vantaggio in vista della crescita economica[v], perché permise un boom dell’export e un consistente surplus commerciale. Una situazione resa evidente durante la Prima Guerra del Golfo (1991) dalla “diplomazia dell’assegno” col Giappone nel ruolo di “finanziatore” della coalizione internazionale che attaccò l’Irak di Saddam e gli Usa con le truppe sul campo.
Poi c’è stata la bolla speculativa immobiliare (1989-90) quando i terreni e gli immobili di Tokyo valevano come tutto il settore immobiliare Usa, e la recessione economica (1991-92) che ha segnato l’inizio della stagnazione, commessa all’abnorme peso della rendita, detta i “decennio perduto”, definizione che si è rivelata ottimistica quanto alla durata, tanto da essere sostituita con quella di “ventennio perduto” a definire il periodo 1991-2010. Un periodo caratterizzato da una contrazione del PIL reale, con la conseguenza di rendere irrealistica, agli occhi di tutti, l’ambizione di fare del Giappone un terzo polo indipendente antagonista a Cina e Usa in Asia. Tra il 2009 e 2011, dopo la crisi internazionale del 2008, fu chiaro che era questione di mesi per il sorpasso della Cina sul Giappone in termini di PIL.[vi]
Questo è il retroterra economico del rafforzarsi, agli inizi del 2000, del revisionismo storico cioè della tesi politica per cui il Giappone deve smettere di scusarsi per la politica aggressiva tenuta durante il secondo conflitto mondiale, riabilitando anche i 14 “criminali di guerra” del santuario Yasukuni.[vii] Ideologia particolarmente provocatoria nei confronti della Cina e della Corea, vittime delle atrocità dell’occupazione giapponese, ma anche un messaggio agli Usa, che continuavano ad “asservire” con le loro basi militari “l’amico” Giappone; una ideologia in ogni caso che alla frustrazione creata dalla stagnazione (perdita di potere d’acquisto, precarizzazione dei rapporti di lavoro) offriva uno sbocco nazionalista, un sentimento a lungo represso nel dopoguerra.
L’evoluzione dei rapporti Giappone Cina
Le relazioni diplomatiche fra Cina e Giappone sono state normalizzate solo nel 1978, sei anni dopo “la diplomazia del ping pong” che permise la ripresa dei rapporti diplomatici fra Usa e Cina. Le relazioni politiche ufficiali fra i due paesi non sono mai state particolarmente cordiali, ma sono state pragmaticamente poste le basi per contatti diplomatici regolari e produttivi, mentre la stampa dei due paesi alimentava la reciproca diffidenza. Inevitabilmente, invece, i rapporti economici si sono intensificati (già nel 2002 la Cina era il primo partner commerciale del Giappone sia per l’import che per l’export), modificandosi tuttavia nel contenuto man mano che la Cina progrediva a livello tecnologico e scientifico.[viii] Un dato esemplificativo può essere la quota dei brevetti: nel 2021 la Cina deteneva il 37,8% dei nuovi brevetti depositati (608 mila), gli Usa il 17,8%, il Giappone era terzo con il 16%. Tanto per fare il confronto l’Italia nel ’23 ha presentato 5 mila brevetti, pari allo 0,3% del totale mondiale.
Il premier Koizumi (2001-2006), un coerente “revisionista”, ha provocato un inasprimento delle relazioni bilaterali, per 5 anni non ci sono stati incontri fra i premier, tanto che si sperava nel nuovo premier Shinzo Abe nell’ottobre 2006 per riaprire un dialogo con la Cina. Abe, conservatore, nazionalista, ma pragmatico, valutò l’importanza delle relazioni economiche con la Cina per correggere la stagnazione.[ix] Si recò in Cina e ristabilì rapporti di buon vicinato. Ma nel contempo procedette a una riforma della scuola che riaffermava il controllo del governo centrale e riformava i programmi per “rafforzare l’unità nazionale e lo spirito patriottico”.[x] All’esterno Abe mandava un messaggio di distensione, ma preparava in realtà il paese per le guerre future. Può sembrare schizofrenico, ma non lo è. La sua valutazione sulla Cina, simile a quella elaborata da studiosi americani, era che c’era il tempo di prepararsi per futuri scontri, mentre la Cina recuperava il suo ritardo storico.
È di questo periodo la sua definizione dell’Indo Pacifico, la regione formata dall’’incontro dei due mari”, come area di interesse vitale per il Giappone, perché le sue vie commerciali garantiscono l’arrivo delle materie prime, sia che si tratti del petrolio del Golfo o dei minerali dell’Africa.[xi] Era un chiaro messaggio alla Cina che iniziava a inanellare la cosiddetta “collana di perle”, cioè la serie di avamposti e basi militari che doveva proteggere l’arrivo di materie prime, il commercio e gli investimenti cinesi sulla rotta che passando per Malacca portava all’Oceano Indiano al Mar Rosso e al Mediterraneo. Il “filo di perle” inquietava anche gli Usa e altre potenze del Sudest asiatico. Consapevole che da solo il Giappone era inadeguato a proteggere i suoi interessi, ma che anche la potenza statunitense non poteva fare più il bello e il cattivo tempo nell’area, Abe sostenne nel 2007 un’alleanza a quattro (Giappone, Usa, India, Australia), il Quadrilateral Security Dialogue (QUAD), che l’anno dopo scomparve dai radar di un mondo impegnato ad affrontare la Crisi del 2008, che ebbe uno degli epicentri proprio in Giappone.
La parentesi social comunista
Le successive dimissioni di Abe nel settembre 2007[xii] gli consentono di evitare la gestione della crisi del 2008 e l’onda di malcontento sociale che ne conseguì: in quell’anno la quota di precari sui lavoratori dipendenti toccò il 34,5%, pari a 18 milioni circa – nel ’98 erano il 15%; 5 milioni di famiglie avevano un reddito annuo complessivo inferiore a 11 mila $; il tasso di risparmio delle famiglie passò dal 15% del 1990 al 2%.[xiii] Le elezioni del settembre 2009 furono vinte dal PDJ (Partito Democratico del Giappone) guidato da Hatoyama, che formò una coalizione di governo con il Partito Socialdemocratico e il Partito Comunista Giapponese (filo cinese).[xiv] La coalizione aveva vinto grazie al suo programma di spesa (aumento degli assegni familiari, sussidi per i prodotti agricoli, i costi dei trasporti e della benzina; sostegni per spese mediche e scolastiche), ma aveva anche cavalcato il diffuso antiamericanismo e pacifismo, proponendo di sospendere i rifornimenti navali agli Usa in Afghanistan e Iraq, rinegoziare l’accordo sulle basi Usa in Giappone e imporre una relazione “di partnership alla pari” con Washington. (vedi il RIQUADRO 1)
Hatoyama non riuscì a mantenere il suo programma sociale.[xv].Quanto al programma di politica estera, Shinzo Abe fece suo l’obiettivo della partnership alla pari con gli Usa, dandogli però un senso “patriottico”, cancellando ogni traccia di pacifismo e delineando contemporaneamente un programma economico più gradito alla borghesia giapponese. Il tutto verrà illustrato nel prossimo articolo.
Una prima riflessione
Il sistema capitalistico, ancor di più nella sua fase imperialista, contiene in sé una tendenza inevitabile al conflitto, alla guerra. Non esistono “potenze pacifiche” e “potenze guerrafondaie”, ma solo ineguali livelli di sviluppo, che comportano la scelta di mezzi diversi per realizzare i propri interessi a seconda dei periodi storici. L’imperialismo americano nel corso della seconda guerra mondiale sconfigge il Giappone (e la Germania), nel dopoguerra domina il mondo principalmente grazie alla sua potenza economica. Ma negli ultimi trent’anni, per conservare il suo ruolo egemone ha ingaggiato una serie devastante di conflitti in Medio Oriente e in Asia. Negli anni del dopoguerra l’Europa rinasce economicamente dalle sue ceneri, si esibisce come “potenza pacifica”, ma oggi si allinea all’alleato americano e si porta la guerra in casa. La Cina ha bruciato le tappe di uno sviluppo senza uguali, ma è ancora in una fase in cui può conquistare nuovi mercati senza scatenare grossi conflitti. Ufficialmente ha una sola base militare all’estero, a Gibuti, ma i risvolti militari della “collana di perle” e della più recente “Via della seta” sono evidenti, senza contare che oggi è impegnata in un riarmo senza precedenti. E il Giappone di conseguenza: dopo i “Trenta gloriosi” anni in cui, forzatamente pacifico, risorge dalle proprie ceneri diventando la seconda potenza mondiale, è scivolato nel “ventennio perduto” di stagnazione, da cui tenta di uscire con il riarmo in attesa di futuri conflitti.
In blu la “collana di perle”, in nero i bracci della via della seta
RIQUADRO 1: Antiamericanismo, pacifismo e basi Usa in Giappone
Quando sulla stampa borghese si parla di pacifismo o antiamericanismo, si fa volutamente confusione fra il governo e gli abitanti, È più funzionale al discorso che si vuol fare. L’argomento è enorme, intendiamo darne solo un’idea almeno approssimativa. Oggi sappiamo che il Giappone fu indotto all’attacco di Pearl Harbor dal governo americano che voleva entrare in guerra nonostante una opinione pubblica interna contraria. Il Giappone condusse in Asia una guerra feroce, in cui si macchiò di crimini contro l’umanità, ma fu sottomesso definitivamente con il lancio di due ordigni nucleari su Hiroshima e Nagasaki, con conseguenze terrificanti (di cui nessuna autorità politica internazionale ha mai chiesto conto agli Usa). Il paese fu umiliato con una occupazione militare pesante che sotto altra forma dura tuttora. Le giovani generazioni, sembra, hanno scarsa consapevolezza delle terribili conseguenze di Hiroshima e Nagasaki, man mano che gli ultimi hibakusha (sopravvissuti) scompaiono. Ma non possono ignorare le basi americane.
Non ci sono dati certi sull’entità delle truppe americane di stanza in Giappone oggi. La stima oscilla fra i 52 mila dichiarati da Limes nel 2018 e i 56 mila dichiarati dalla CIA nel 2023. I militari Usa sono presenti in Giappone dal 1945 come truppe di occupazione e dal 1952 come alleati in base a un accordo di mutua assistenza firmato a San Francisco (in tempo per fare del Giappone la base logistica per la guerra di Corea). La prima base militare ufficiale invece data dal 1960 (accordo di Washington). Se nel 1985 Nakasone affermava orgoglioso che il Giappone è “la portaerei inaffondabile degli Stati Uniti nel Pacifico», le piazze hanno più e più volte contestato l’accordo si Washington. I militari americani sono a dir poco malvisti per i numerosi reati di cui si rendono responsabili, compresi stupri di bambine e omicidi, per i quali non vengono perseguiti godendo di un vero e proprio status di extraterritorialità. Il problema riguarda particolarmente Okinawa. Quest’isola posta all’estremo sud del Giappone, quasi a metà strada fra le isole maggiori e Taiwan, pur costituendo lo 0,7% del territorio nazionale ospita il 70% del personale militare. Le basi militari Usa sono pagate da Tokyo al 75%. Nel 1970 Okinawa divenne famosa per i disordini antiamericani (Koza riots). È dal 1995 che annualmente vede partecipatissime manifestazioni che chiedono “la liberazione dell’isola” da questo “servaggio” e il trasferimento altrove dei militari Usa. Ma il governo giapponese non ha mai accolto le loro richieste, perché diluire le basi per tutto il Giappone vorrebbe dire diffondere per tutto il paese il “disordine” che ora è confinato ad Okinawa.
È su imposizione degli Usa che la Costituzione giapponese contiene l’art.9 che recita: “non saranno mantenute forze di terra, di mare e d’aria, e nemmeno altri mezzi bellici.” Per questo la nazione ha la patente ufficiale di “pacifista”. Ribadiamo è stata una imposizione dei vincitori. Molti giapponesi però alla fine del conflitto fecero una seria e onesta riflessione sulla logica della guerra e delle sue atrocità, così come presero seriamente posizione contro l’uso del nucleare. E divennero pacifisti sul serio.
A riguardo, ricordiamo almeno l’Unione degli insegnanti giapponesi (o Nikkyoso) nata nel 1947 con l’adesione di 400 mila docenti, che misero al centro del loro impegno civile denunciare in classe i crimini di guerra giapponesi e l’orrore dell’atomica. Le autorità sistematicamente trasferivano o licenziavano. Furono loro a inventare lo slogan “nessun figlio per le vostre guerre”, poi ripreso da un ampio movimento di madri “per la pace”. Nel ’56 il governo proibì di parlare di pace a scuola e decise la propria supervisione sui libri di testo che mai in nessun caso dovevano denunciare i crimini compiuti dall’esercito giapponese. Ci fu uno sciopero contro questa legge e 500 mila insegnanti furono licenziati. Il Nikkyoso colpito ma non affondato continuò la sua attività e la sua lotta. https://newvoices.org.au/volume-2/the-rise-and-decline-of-japanese-pacifism/
Sempre negli anni della guerra fredda, fu attivissimo il movimento antinucleare (anche perché nell’incidente dell’atollo di Bikini, 1954, furono coinvolti pescatori giapponesi e uno morì)
I partiti parlamentari di opposizione non diedero grande aiuto al Movimento contro la guerra: il Partito Comunista fedelissimo di Stalin denunciava solo le guerre della Nato; il Partito Socialista si limitava a opporsi a ogni … modifica della Costituzione. Ma il Movimento Zengakuren (prevalentemente studentesco) scrisse pagine mirabili con le sue lotte contro la guerra in Vietnam dal 1968 al 1972; contro le spedizioni in Afghanistan e in Iraq e recentemente nel 2015 contro ogni ipotesi di riarmo (ne riparleremo), influenzando ampi settori della società. E oggi il sindacato Dorociba, l’Unione dei Metalmeccanici di Osaka, il sindacato Costruzioni e Trasporti Kan Nama, i Ferrovieri contro le privatizzazioni, il Movimento Marcia contro la Revisione della Costituzione e la Guerra conducono una battaglia senza quartiere, internazionalista, contro la guerra in Ucraina e il genocidio a Gaza.
Note
[i] https://www.paginemarxiste.org/il-riarmo-giapponese-i-2/
[ii] Dopo la vittoria di Tsushima il Giappone ottiene il riconoscimento delle sue precedenti conquiste in Cina, nel 1910 occupa la Corea, combatte a fianco dell’Intesa durante la I guerra mondiale. Negli anni ’20 e ’30 il Giappone occupa parti consistenti della Cina. L’attacco di Pearl Harbor fu di fatto quasi provocato dal governo Usa con un pesante embargo sui rifornimenti petroliferi giapponesi e mentre gli Usa ricostruivano la propria flotta in vista dello scontro finale, il Giappone, in nome della creazione di una sfera di “co prosperità asiatica” che suscitò l’approvazione di molti paesi asiatici ad es. la Thailandia, continuò la sua espansione a sud almeno fino al 1942. La sconfitta finale è legata all’uso da parte americana della bomba atomica a Hiroshima e Nagasaki. Il Giappone fu riportato ai confini del 1894 e gli occupanti americani imposero la Costituzione e il nuovo assetto statale.
[iii] Il paese si colloca nel 1972 subito dietro gli Stati Uniti in termini di PIL; nel 2011 è sorpassato dalla Cina, nel 2023 dalla Germania.
[iv] Formulata da Shigeru Yoshida, primo ministro due volte fra il 1946 e il 1954.
[v] Nel corso degli anni ’70 e ’80 si paventò addirittura un “sorpasso” giapponese in Termini di Pil. Per questo “i cattivi” dei film di serio B erano sempre giapponesi.
[vi] Forbes segnalò per il 2009 la presenza, fra i primi 50 gruppi economici asiatici di 3 gruppi di Hong Kong, 4 del Giappone, 5 di Taiwan e 16 della Cina. Nel 2005 nell’analoga classifica il Giappone era presente con 13 gruppi.
[vii] Queste posizioni sono in tempi recenti diffuse non tanto da correnti dentro il partito di maggioranza PLD, ma piuttosto attraverso gruppi di pressione non governativi, come il famoso Nippon kaigi (conferenza del Giappone), fondato nel 1997, che riunisce membri influenti della società, provenienti dal mondo dei mass media, dell’economia, della politica e di cui è stato membro autorevole Shinzo Abe. Il quale ha poi fondato nel 2009 il centro studi Sosei Nippon (Crea il Giappone), composto da parlamentari dell’Ldp e da altri conservatori. Per comunicare l’adesione a questi valori è diventato tradizionale per i politici giapponesi visitare il santuario di Yasukuni, che onora i caduti giapponesi tra cui criminali di guerra condannati dal Tribunale Internazionale anche per i soprusi perpetrati in Cina.
[viii] Se ancora nel 2000 il Giappone esportava manufatti a forte contenuto tecnologico in Cina e viceversa la Cina esportava in Giappone prodotti a basso costo e a bassa qualità, ben presto la Cina ha migliorato la qualità dei suoi manufatti e il Giappone si è spostato sulla fornitura di attrezzatura e macchine utensili.
[ix] Fra il 2001 e il 2005 l’interscambio più che raddoppia, mentre gli investimenti giapponesi in Cina triplicano.
https://www.tuttocina.it/Mondo_cinese/129/129_molt.htm
[x] Vale la pena di ricordare che questa scelta di rinvigorire il tifo per le guerre del proprio imperialismo nei giovani dentro la scuola ha di recente contraddistinto anche l’imperialismo italiano, vedi le iniziative di Valditara. https://www.tecnicadellascuola.it/militari-nelle-scuole-e-studenti-nelle-caserme-perche-secondo-quale-modello-educativo
[xi] Abe nel 2007 durante una visita in India citò l’espressione Indo-Pacifico, cioè la “confluenza dei due mari”, come la più adatta per descrivere la dinamicità di un’area in cui i mari appunto rappresentano un’arteria fondamentale per la libera circolazione di merci, servizi, persone, capitali e conoscenze, e sono, pertanto “emblema della libertà e prosperità della regione asiatica”.
[xii] Abe si dimise con il pretesto di cattive condizioni di salute, esattamente come farò nel 2020, in realtà per evitare inchieste scomode sul suo operato.
[xiii] Japon contemporain, 2 dicembre 2008.
[xiv] Il PDJ fu fondato nel 1996 da fuorusciti del Partito socialista e altri provenienti da piccole formazioni centriste, due anni dopo raccolse le spoglie dello Shinshinto o Partito della Fratellanza e via via si ingrossò accogliendo minoranze eterogenee, che ne determinarono la fondamentale fragilità interna. La vittoria del 2009 fu un evento eccezionale, visto il predominio quasi incontrastato del Partito liberaldemocratico.
[xv] Il programma sociale non fu rispettato con la motivazione che la situazione del debito pubblico non lo consentiva. Il debito arrivò al 218% del PIL, a causa anche delle vendite massicce di buoni del tesoro da parte di Banche e Fondi pensione che li detenevano. Contemporaneamente i redditi furono ulteriormente falcidiati per l’inflazione, alimentata dalla svalutazione dello Yen (18,9% sul $). Si rinunciò anche a rinegoziare lo status delle basi Usa, nonostante le partecipatissime manifestazioni popolari. I socialdemocratici abbandonarono il governo e Hatoyama dovette dimettersi.