Trump ritorna. Per chi vive in Italia non è una gran novità, essendo in carica già da due anni il governo Meloni-Salvini, un corrispettivo italiano del trumpismo. Ma il Trump 2.0 si annuncia ben più dirompente. Sia perché gli Stati Uniti prima superpotenza non sono l’Italia, che ancora si muove dentro la cornice UE, sia perché i poteri del Presidente USA sono di gran lunga maggiori di quelli del governo italiano, più soggetto alle mediazioni istituzionali e parlamentari.
Stiamo ad attendere come porrà fine “in 24 ore” alla guerra in Ucraina, e nel Medio Oriente… Sul terreno economico-sociale il suo programma è più esplicito, anche se l’ambiguità fa parte del suo stile. Questi sono i piatti forti del suo menu:
- La deportazione o “rimpatrio” o internamento di un numero di immigrati irregolari che va da 1,3 a 13 milioni (a seconda delle varie dichiarazioni/interpretazioni – il suo vice Vance ha ipotizzato perfino 15-20 milioni);
- L’imposizione di tariffe doganali sulle importazioni che vanno da un minimo del 10-15% fino al 50% per tutti i paesi, e dal 60% al 100% per la Cina.
- La riduzione delle tasse sui profitti e sui ricchi (che dovrebbe essere finanziata, ma non lo sarà, dall’aumento delle tariffe doganali).
- Un’ampia deregolamentazione interna, per lasciar libere gli “spiriti vitali” del capitalismo, liberando le imprese dai “lacci e lacciuoli” che ne limitano la tendenza ad espandersi senza limiti, siano essi vincoli antitrust (es. dei grandi gruppi che hanno monopolizzato i servizi via rete internet), ambientali (vincoli al fracking, alle emissioni di carbonio e gas serra), o sociali (es. salario minimo, assistenza sanitaria, piani pensionistici pubblici, sussidi a famiglie in povertà).
Sul primo scriveremo a parte, mentre sugli ultimi due punti attendiamo le misure specifiche. In questo articolo ci soffermiamo sul secondo punto, anche perché è già possibile e utile dare una valutazione sulla guerra commerciale di Trump 1. Vale la pena qui di notare che, mentre vuole liberare gli spiriti aggressivi dei propri capitalisti togliendo di mezzo i vincoli imposti dallo Stato, con la nuova offensiva nella guerra tariffaria Trump chiede più Stato contro i capitalisti concorrenti (cinesi in prima fila, ma non solo). Lo Stato serve, eccome!, per la guerra (anche quella interna).
Con Trump tramonta definitivamente l’illusione Smithiana di un mondo basato sul libero mercato, e sull’operare della sua “mano invisibile” che trova la soluzione migliore per tutti, durata la stagione a cavallo del secolo. Si torna alla visione Hobbesiana dell’homo hominis lupus, della guerra di tutti contro tutti, dove il ruolo degli Stati che qualcuno aveva creduto eclissati dalla grande impresa transnazionale, riemerge con forza proprio per sostenere i propri titani capitalistici contro gli avversari, con tutti i mezzi, mentre il confine tra guerra economica e guerra militare sfuma fino a dissolversi nell’economia di guerra.
Occorre che i lavoratori, gli sfruttati acquistino consapevolezza che il “lupo” non è fuori ma dentro i confini, che la guerra che devono combattere non è quella tra gli Stati dei padroni, ma è quella contro gli stati dei padroni, contro lo sfruttamento e la propria riduzione a carne da cannone per gli interessi degli sfruttatori. Negli Stati Uniti, come in Italia e nel mondo intero.
La guerra tariffaria, una storia vecchia
Nel corso della sua prima presidenza Trump aveva già introdotto alti dazi su una serie di prodotti non solo cinesi, ma anche importati da Europa, Argentina, Brasile, India e Corea del Sud e perfino provenienti da Messico e Canada, che pure erano con gli USA parte dell’area di libero scambio NAFTA (per costringerli ad accettare modifiche al trattato, poi rinominato USMCA). Tuttavia le nuove misure preannunciate in campagna elettorale, con una tariffa minima “universale” del 10% per tutte le importazioni, per arrivare fino al 50% per importazioni “sensibili” o strategiche, e al 60%-100% nei confronti della Cina, avrebbero un impatto di parecchie volte maggiore. Non solo sull’economia degli Stati Uniti e del mondo, ma anche sulla politica mondiale, nel senso di accelerazione dei processi verso la guerra, così come il protezionismo degli anni 1930 segnò la spinta verso la Seconda Guerra Mondiale.
C’è anche un collegamento tra dazi e tasse, che viene da lontano. Nel primo periodo della storia americana le tariffe doganali costituivano la quasi totalità delle entrate federali, fino a quando, nel 1913, un emendamento alla Costituzione permise l’imposta sui redditi. Sviluppata una potente industria al riparo dei dazi doganali (36% della produzione manifatturiera mondiale nel 1913), il capitalismo americano diveniva esportatore netto e interessato alla riduzione delle tariffe (e ottenere reciprocità dai partner commerciali). Con la riduzione delle tariffe doganali l’onere del finanziamento del governo federale venne in parte trasferito all’imposta sui redditi.
La tariffa media ponderata applicata alle importazioni americane diminuì brevemente dal 40-50% nel periodo tra la guerra civile e la prima guerra mondiale a circa il 18% nel 1920 (se si includono anche le importazioni non soggette a dazio il calo è stato dal 30% fino al 1900 al 6% circa alla fine della Prima Guerra Mondiale – linea blu nella Fig. 1) per poi risalire negli anni ‘20 e impennarsi negli anni ’30 con lo Smoot-Hawley Act del 1930, che portò fin quasi al 60% la tariffa media sui beni sottoposti a dazi, e al 20% la tariffa media includendo i prodotti esenti. L’intenzione dei promotori della legge era proteggere gli agricoltori americani, e settori industriali in difficoltà, escludendo i concorrenti esteri dal mercato americano. Settori forti dell’industria americana, quale l’automobile, avversarono la legge chiedendo che il presidente Hoover ponesse il veto. Il repubblicano Hoover, per quanto anch’egli contrario, alla fine firmò la legge sotto la minaccia di dimissioni del suo stesso governo e per non mettersi contro il partito Repubblicano.
L’aumento delle tariffe doganali USA provocò reazioni a catena, con tariffe ritorsive da parte degli altri maggiori paesi, a partire da Canada, Gran Bretagna e Francia. Il commercio mondiale crollò del 66% tra il 1929 e il 1934. Al posto di garantire benessere agli americani, il protezionismo approfondì la crisi degli anni ’30. Le importazioni USA diminuirono del 66% da 4,4 a 1,5 miliardi di dollari, ma anche le esportazioni crollarono, e per un importo maggiore, da 5,4 a 2,1 miliardi. Il prodotto lordo USA dimezzò, la disoccupazione salì alle stelle. Il protezionismo non è certo stato la causa principale della Grande Depressione (il peso dell’export sul prodotto lordo USA nel 1929 era del 5%-7% a seconda delle fonti), ma la guerra commerciale scatenata contribuì ad alzare le tensioni tra gli Stati, spingendo verso l’opzione militare quale “soluzione” alla crisi (in Asia la parola era già alle armi con l’invasione della Manciuria da parte del Giappone).
70 anni di libero scambio
Ora la storia si ripete? I decenni seguiti alla Seconda Guerra Mondiale hanno visto una forte riduzione delle tariffe doganali e un aumento del peso dell’interscambio sull’economia mondiale: in un’economia in espansione e con la caduta degli imperi coloniali “riserva di caccia” delle rispettive metropoli (per la Francia è ancora in corso la fase finale) i grandi gruppi multinazionali sono stati interessati a tenere quanto più basse le barriere doganali per poter scorrazzare liberamente su tutto il mercato mondiale. E in particolare gli Stati Uniti, usciti vincitori dalla Seconda Guerra mondiale con la metà della produzione industriale mondiale, avevano tutto l’interesse ad aprire il mondo alle proprie merci.
Con gli accordi multilaterali GATT (1947) e WTO (1995) le tariffe doganali medie sui beni soggetti a dazi sono scese dal 30% al 5% circa nel 2016, e in rapporto all’insieme di tutte le merci scambiate sono scese dal 10% al 2% circa (su materie prime come petrolio, gas, minerale di ferro, carbone, caffè, ecc. i paesi importatori non impongono dazi).
Il mercato mondiale si è aperto alle grandi imprese industriali e agricole, non più limitate al loro “mercato interno”. Grazie anche all’abbattimento dei costi di trasporto, l’export è salito dal 12,8% della produzione mondiale nel 1970 al 26-30% negli ultimi 20 anni.
Fig. 2 – Esportazioni di beni e servizi come quota % del Prodotto Lordo Mondiale (1970-2020)
Tuttavia, come si può vedere dalla Tab. 2, la parte del prodotto mondiale che varca i confini degli Stati ha cessato di crescere dalla crisi del 2008-9. Possiamo dire che da allora la tendenza alla globalizzazione, con l’estensione delle catene internazionali di fornitura, si è arrestata. Dazi analoghi a quelli degli anni ’30, che determinassero il crollo di due terzi del commercio internazionale, avrebbe conseguenti ancora più pesanti sulle varie economie.
La guerra commerciale di Trump
L’Amministrazione Trump 1, entrata in carica nel 2017, ha condotto una guerra commerciale concentrando il fuoco contro la Cina, ma colpendo anche paesi alleati, a colpi di tariffe su elenchi di prodotti. Le varie bordate di dazi all’importazione sono arrivate a coprire quasi tutti i prodotti esportati dalla Cina verso gli Stati Uniti, riducendone notevolmente il flusso (dal 21,6% dell’import USA nel 2017 al 13,9% nel 2023). Nonostante la Cina abbia risposto colpo su colpo imponendo tariffe di pari o superiore entità contro l’export USA (mirando a colpire soprattutto i settori sostenitori di Trump), il ridimensionamento del commercio tra le due maggiori potenze commerciali non ha finora determinato una tendenza alla contrazione dell’interscambio commerciale su scala globale (Fig. 2), ma una sua ridistribuzione.
In attesa delle prossime bordate tariffarie di Trump 2 è utile analizzare più da vicino gli effetti della prima guerra commerciale USA/Cina.
Fig. 3 – Guerra commerciale USA/Cina. Tariffe medie (semplici e ponderate) genn. 2018-febb. 2020
Fonte: Hong Ma, Jingxin Ning, – The Return of Protectionism, China Economic Quartely, Sept. 2024.
Tre erano gli obiettivi della guerra commerciale dichiarati da Trump: ridurre il deficit commerciale, rafforzare la produzione industriale americana, ridimensionata dalla concorrenza dell’import, soprattutto cinese e quindi aumentare l’occupazione manifatturiera. Questo è stato un tema vincente per Trump nelle elezioni del 2016, dove nei distretti più colpiti dalle esportazioni cinesi vi è stata una più marcata polarizzazione politica e uno spostamento di voti a favore di Trump. Un quarto obiettivo, dichiarato o meno, era quello di bloccare o frenare il rafforzamento industriale cinese, precludendogli il mercato americano, pur sempre pari a circa un quinto di quello mondiale.
La Fig. 4 mostra che vi è stata una correlazione, almeno temporale, tra l’aumento dell’import dalla Cina, in grandissima parte di prodotti industriali, e il declino dell’occupazione industriale americana (declino che peraltro era in corso da decenni, in corrispondenza dell’aumento dell’import prima dal Giappone, poi da Corea e Sudest asiatico). La Cina quindi, nella campagna trumpiana ma anche dei democratici, è divenuta il “nemico esterno” responsabile dichiarato della crisi di distretti industriali nei settori in cui si sono concentrate le esportazioni cinesi (tessile-abbigliamento-calzature, poi nei prodotti meccanici, dell’elettronica di consumo, elettrodomestici).
Fig. 4 – Quota % import USA dalla Cina sul totale, e quota occupati nell’industria USA sul totale occupati
Fonte: Hong Ma, Jingxin Ning, cit.
Se come detto i dazi di Trump hanno significativamente ridotto le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti (Fig. 5), non hanno tuttavia raggiunto l’obiettivo di ridurre il deficit commerciale USA nei confronti della Cina, perché le ritorsioni tariffarie cinesi hanno a loro volta frenato le esportazioni USA in Cina. I dazi non hanno inciso significativamente neppure sull’andamento complessivo della bilancia commerciale USA, il cui deficit è salito dagli 800 miliardi di dollari del 2017 ai circa 1.100 miliardi di dollari degli ultimi tre anni.
D’altra parte quella centrata sul deficit commerciale è una visione limitata dei rapporti economici tra le potenze. Se infatti confrontiamo quanto venduto dalle imprese cinesi sul mercato americano con quanto venduto dalle imprese americane sul mercato cinese, troviamo che le vendite americane in Cina superano le vendite cinesi negli USA. Infatti mentre il primo dato è costituito quasi per intero di esportazioni, le vendite USA sul mercato cinese sono effettuate per il 70% da filiali o controllate di imprese USA in Cina (che producono in Cina con manodopera cinese). Quindi se è vero che vi è uno spostamento della produzione industriale dagli USA (e in parte dall’Europa) alla Cina, con effetti sull’occupazione industriale, i conti dal punto di vista dei capitali e dei profitti vedono un sostanziale pareggio, se non un vantaggio americano, nei rapporti sui rispettivi mercati. Anche sui mercati terzi il confronto tra Stati va visto in questi termini, dove gli investimenti esteri giocano un ruolo crescente rispetto al commercio, anche per le aziende cinesi.
Fig. 5 – Quota delle importazioni dalla Cina sul totale delle importazioni USA
Fonte: ibidem
Questo sul piano meramente economico, della produzione di plusvalore. Ma se il confronto diventasse militare, il luogo dove un capitale realizza la produzione non è indifferente. Nella Seconda Guerra Mondiale gli stabilimenti Opel in Germania, di proprietà della General Motors, produssero per lo sforzo bellico tedesco. Così farebbe il complesso petrolchimico di Huizhou di proprietà della Exxon Mobil, o le fabbriche automobilistiche di Volkswagen o Tesla in Cina, che sarebbero sotto il comando dello Stato cinese.
Primo round alla Cina
Il bilancio della prima guerra commerciale USA/Cina vede il fallimento di fatto dell’obiettivo di ridurre il deficit commerciale e di rafforzare l’industria manifatturiera americana nei settori colpiti dalle importazioni cinesi, perché la loro riduzione è stata in buona parte sostituita non da produzione made in USA, ma dalle importazioni dai paesi del Sud-Est asiatico, che risalivano di 4,3 punti % sul totale delle importazioni USA (con il Vietnam che ha raddoppiato dal 2 al 4%), e dal Messico. Va notato che Biden non ha modificato le tariffe imposte da Trump alla Cina, attenuate dall’Accordo di Fase 1 del gennaio 2020. Anche qui il dato doganale è tuttavia limitativo.
Se infatti consideriamo le catene del valore (attraverso le tavole input-output), risulta che nonostante il calo delle importazioni dirette dalla Cina, il contenuto di valore aggiunto cinese delle importazioni americane è aumentato dopo la guerra commerciale, dal 21,6% nel 2017 al 23,3% nel 2021: quindi la dipendenza reale degli USA dalla produzione cinese non è stata ridotta dall’innalzamento del muro tariffario contro la Cina.
Ciò si spiega col fatto che i paesi che hanno sostituito le esportazioni cinesi verso gli USA utilizzano in gran parte prodotti intermedi cinesi (quando non si tratta di semplice delocalizzazione da parte di imprese cinesi alla ricerca di forza lavoro a costi inferiori, ad es. in Vietnam, oltre che per aggirare le tariffe doganali americane). Quindi pur colpendo le esportazioni dirette dalla Cina, la guerra commerciale di Trump 1 non ha indebolito significativamente l’industria cinese, anzi ne ha accelerato l’internazionalizzazione.
Grazie alla sua preponderanza industriale e forza finanziaria la Cina esce vincente dal primo round della guerra commerciale lanciata dagli Stati Uniti. .
Lo Stato per la guerra
Hanno sicuramente inciso di più nella guerra economica contro la Cina le misure di embargo tecnologico nel settore dei chip di ultima generazione e di altre tecnologie ad uso militare, così come la messa al bando della tecnologia 5G di Huawei in gran parte dei paesi occidentali (ma non nel Sud del mondo). Così come per il rafforzamento dell’industria USA nei settori strategici saranno determinanti i sussidi statali americani del Chips and Science Act ($ 280 miliardi di sovvenzioni statali per la produzione di semiconduttori e ricerca nelle biotecnologie, nello spazio, ecc.) e dell’Inflation Reduction Act (sovvenzioni per centinaia di miliardi alla green economy), sulla falsariga dell’interventismo statale cinese.
Paradossalmente, ma solo in apparenza, gli Stati Uniti per cercare di invertire il processo di deindustrializzazione determinato dalla ricerca del massimo profitto e di nuovi mercati da parte delle loro multinazionali, che sono andate a investire in Cina, adottano la politica statalista dei sussidi per la quale accusano la Cina di concorrenza “sleale”. Se nella fase liberista c’era chi, a destra e a sinistra, vedeva l’eclisse dello Stato soverchiato dallo strapotere delle multinazionali, oggi si torna al colbertismo e al mercantilismo, da “destra” come da “sinistra”. Il capitalismo ha avuto bisogno di impadronirsi del potere statale per poter trionfare espropriando i piccoli produttori indipendenti; le bande dei capitalisti sono ricorse allo Stato per aprire coi cannoni i mercati coloniali, e tramite gli Stati si sono scontrate per la spartizione dei mercati con le guerre commerciali e le guerre guerreggiate, fino alle due guerre mondiali. Non è mai esistito un “capitalismo puro” nel quale le imprese si confrontano liberamente sul libero mercato, e “vincerà il migliore”… Lo Stato svolge la funzione di “capitalista collettivo” nazionale, e la sua massima espressione è la guerra… Imitando XI Jinping Biden e Trump non diventano più progressisti, così come il dirigismo statalista non è di per sé meno reazionario del liberismo, dato che il potere statale è asservito agli stessi monopoli capitalistici che nella fase precedente chiedevano di essere liberati dai lacci e lacciuoli dello Stato. E la funzione suprema dello Stato è la guerra.
Se la guerra commerciale di Trump 1 ha fallito gli obiettivi che si era preposti, perché ora Trump rilancia la guerra commerciale quale pilastro della politica economica ed esterna del Trump 2, con l’appoggio di importanti settori del capitalismo americano?
Di fronte all’annuncio di Trump del 25 novembre che imporrà dazi del 25% su Messico e Canada, quale ritorsione per il traffico di stupefacenti (il fentanyl) e di immigrati, e un 10% aggiuntivo sui prodotti cinesi (con l’accusa alla Cina di non controllare le sostanze chimiche che entrano nella produzione del fentanyl) lo stesso Wall Street Journal titola “Trump lancia una bordata contro il Trattato commerciale nordamericano” e si chiede se si tratti di una tattica negoziale per strappare nuove concessioni, o dell’ “inizio di una campagna sostenuta per rimodellare il commercio globale e l’economia americana”.
Probabilmente entrambe le cose. La promessa in campagna elettorale di una tariffa generalizzata del 10% per tutti i paesi triplicherebbe da sola le barriere attuali all’ingresso nel mercato americano, la tariffa del 60% contro i prodotti cinesi avrebbe per effetto di escluderli del tutto.
Secondo alcune valutazioni i dazi preconizzati da Trump avrebbero una portata pari a 10-15 volte quelli del 2018-20, con pesanti riflessi sull’economia mondiale.
La generalizzazione delle tariffe avrebbe l’effetto di rendere più cari tutti i prodotti importati, e quindi proteggerebbe in maniera più efficace l’industria americana dalla concorrenza dei paesi a basso costo del lavoro.
Secondo questa visione, sostenuta da Trump, gli Stati Uniti non possono che avvantaggiarsi col protezionismo, grazie a due asimmetrie: la prima è che gli USA importano per circa 3 trilioni l’anno, mentre esportano per soli 2 trilioni. Quindi se il commercio si contrae, hanno meno da perdere rispetto ai partner commerciali, e il risultato sarà la sostituzione di parte dell’import, divenuto più costoso, con produzione interna. Se “i cinesi rubano posti di lavoro agli americani” vendendogli i prodotti, tariffe del 60% sui prodotti cinesi li terranno fuori mercato e le imprese americane le produrranno negli USA con manodopera americana… L’altra asimmetria è nel fatto che l’economia USA dipende molto meno dall’export rispetto ai principali concorrenti. L’export americano è stato pari a poco più dell’11% del PIL negli ultimi 4 anni (dopo avere superato il 13% negli anni di Obama). Il PIL della Cina dipende per il 20% circa dall’export (in forte calo rispetto al picco del 36% nel 2006); anche India, Brasile, Giappone si collocano intorno al 20%. Italia, Francia, Gran Bretagna e Messico hanno un’incidenza tra il 30% e il 35%. La Germania il 47%. Queste cifre ci danno la vulnerabilità dei vari paesi rispetto alle cannonate tariffarie di Trump (tenendo però conto del fatto che circa la metà dell’export dei paesi UE va ad altri paesi UE, senza dogane interne).
Nei calcoli di Trump e dei suoi il protezionismo permette di prendere due piccioni con una fava, perché il ritorno a dazi alti dopo mezzo secolo tornerebbero alla funzione di finanziamento del bilancio statale, permettendo di ridurre l’imposta sui redditi dei ricchi e delle corporation, o almeno così spera Trump.
Ma c’è il rovescio della medaglia.
L’aumento delle tariffe doganali fa aumentare i prezzi dei prodotti importati al di sopra dei prezzi internazionali. Uno studio stima in 52 miliardi di dollari i maggiori costi per importatori e consumatori americani dei dazi introdotti da Trump 1. Ciò che lo Stato incassa in più dai dazi viene pagato da chi acquista i prodotti “protetti”, importati o prodotti negli USA. Aumenta il costo dei beni di consumo (alcune stime calcolano 1,5% di inflazione in più), si riduce il potere d’acquisto dei salari e il livello dei consumi, aumenta il malcontento tra i lavoratori. Per i settori importatori di semilavorati (es. acciaio, componenti) l’aumento dei loro costi dovuti alle tariffe ne riduce la competitività e la capacità di esportazione. Quindi l’aumento delle tariffe riduce sì l’import, ma anche l’export, con un effetto dubbio sulla bilancia commerciale, che infatti non è visibile nei sei anni dopo l’introduzione delle tariffe di Trump 1. I dazi minacciati contro Messico e Canada finirebbero per avere pesanti riflessi anche sulle imprese USA, ad es. nel settore dell’auto, che producono in Messico 2,5 milioni di veicoli venduti sul mercato americano, e che anche per le produzioni made in USA utilizzano componenti prodotti in Messico.
Infine se le tariffe, come quelle del 2017-19 contro la Cina sono mirate contro singoli paesi, gli stessi prodotti possono essere fatti transitare per i paesi non soggetti a tariffe (dopo un cambio di “passaporto”), o il paese colpito può delocalizzare la produzione in quei paesi (come ha fatto la Cina in direzione del Vietnam – il cui export nel 2022 è stato pari al 93,8% del PIL – o del Messico). Certamente i dazi minacciati contro il Messico fanno parte anche di questa partita.
Inoltre, se fossero solo gli USA a condurre la guerra tariffaria, e gli altri Stati rispondessero con misure di ritorsione solo contro l’export americano, il risultato sarebbe l’auto-isolamento autarchico degli Stati Uniti, mentre i concorrenti continuano a commerciare tra loro. Essendo il mercato USA pari a circa un quinto del mercato mondiale, la sua chiusura non è in grado di togliere l’ossigeno ai concorrenti. La Cina ha risposto con l’abbattimento delle proprie tariffe nei confronti di paesi terzi, e la firma del trattato di libero scambio RCEP con i paesi asiatici del Pacifico, dall’Australia all’Asean alla Corea.
Gli altri Stati del G-7 non sembrano per ora seguire il protezionismo americano, dal quale sono minacciati. La UE ha varato tariffe sulle auto elettriche cinesi, dal 7,8% per Tesla fino al 35% per Geely, ma pare sia già pronto un accordo per fissare un prezzo minimo per le auto cinesi. Un tipico accordo monopolistico. Le case cinesi, e quelle europee e americane con stabilimenti in Cina, esporteranno meno auto in Europa, ma con più profitti, e non metteranno fuori mercato i produttori europei. L’Amministrazione Trump potrà di nuovo usare l’arma dei dazi per strappare concessioni, ma se resta isolata, il suo protezionismo potrebbe diventare un boomerang. Il passo successivo, per arrestare il proprio declino e bloccare l’ascesa cinese, è la guerra guerreggiata.