In attesa dell’accertamento delle responsabilità individuali, riceviamo da un compagno ferroviere questa lucida denuncia del ruolo avuto nella dinamica dell’incidente dalla separazione tra infrastruttura e trasporto – un fatto economico, la scelta di fare delle ferrovie un business capitalistico per la produzione di profitto.
Già all’alba del 6 febbraio, mentre correva la notizia del disastro di Livraga AV (treno 9595, ore 5,35 del 6 febbraio 2020), s’intuiva che qualcosa di grave avesse riguardato l’infrastruttura; un treno per poter raggiungere i 300 km/h necessita a bordo delle più sofisticate e vincolanti informazioni a garanzia del corretto tracciato, che non arrivano dai segnali fissi (che non esistono sulle linee col sistema ETCS), bensì dal “blocco radio”. Invece, come si sta appurando, l’itinerario era deviato con uno scambio disalimentato e bloccato, ma non nella posizione corretta. Il che non è stato visto dal sistema operativo, la garanzia del corretto tracciato non poteva giungere dai vincoli e dai circuiti di terra dello scambio, ma solo dalla comunicazione di chi aveva operato sul posto.
La memoria corre due anni fa, a quel 25 gennaio 2018 quando il 10452 Cremona-Milano carico di pendolari deragliò a Pioltello (3 morti e centinaia di feriti), e le analogie non sono poche. A Pioltello si trattò di un cedimento strutturale di un punto di giunzione male mantenuto. E allora come oggi la tragedia è avvenuta su una direttrice principale, su una linea tra le più monitorate, su quella “T” (TO-VE, MI-SA) che assorbe la grandissima parte degli investimenti destinati al controllo e alla manutenzione.
E allora, dov’è il problema?
Nell’ultimo decennio, nel periodo tra i grandi disastri (Viareggio, Pioltello, Livraga) sono avvenuti incidenti e micro incidenti senza soluzione di continuità: svii, frane, passaggi a livello e soprattutto morti e feriti tra gli addetti alla manutenzione (almeno 35 operai morti sui binari). Ma l’aspetto inedito del disastro di Livraga è il fatto che ad essere coinvolto è il treno-simbolo della corsa ad Alta Velocità, l’ETR 400 (“Freccia 1000”), e dietro a questo simbolo c’è tutto un mondo: all’AV italiana (che ha costi/km elevatissimi, senza termini di paragone) si accompagnano un supporto ideologico esterno legato all’esportazione del modello verso altri paesi (Spagna, Francia) e un supporto ideologico interno fatto di prestazioni all’eccesso (orari di lavoro e di guida al di fuori di ogni controllo), di saturazione delle linee con ritmi estremi per incastrare cantieri e manutenzioni ordinarie nelle ore di assenza di traffico.
In generale va sempre sottolineato il fatto che, da quasi un quindicennio, la gestione dell’infrastruttura è stata separata dal trasporto, sempre più liberalizzato nell’ottica di una concorrenza feroce nella caccia al profitto. È chiaro a tutti che un sistema integrato infrastruttura-trasporto si coordini meglio di uno separato. Per non parlare del sistema degli appalti che contraddistingue la manutenzione dell’infrastruttura, che frantuma ulteriormente la catena dei controlli. E quasi sempre il mancato coordinamento è alla base degli incidenti.
Va da sé che il tutto sia stato avallato dai sindacati concertativi. I quali, in questa occasione, dopo aver emanato il comunicato di circostanza, hanno scioperato per… due ore.
La presenza e l’attività dei ferrovieri rivoluzionari nel sindacalismo di base (che ha indetto uno sciopero di otto ore), inconciliabilmente avverso ai concertativi, da sempre si contraddistingue per la lotta per condizioni migliori di lavoro e sicurezza. E non può che continuare.