
Nei giorni in cui cade il settantasettesimo anniversario della catastrofe del maggio 1948, è ricorrente il confronto tra ieri e oggi. Lo faremo anche noi per mostrare cosa è cambiato da allora.
La catastrofe del 1948 fu l’esito di mezzo secolo di progressiva, e sempre più agguerrita e terroristica, colonizzazione della Palestina da parte del movimento sionista sostenuto sul piano finanziario e protetto sul piano politico e militare dall’imperialismo britannico (quello sionista è l’unico movimento “nazionale” in cui ha avuto una funzione chiave una banca, il Jewish Colonial Trust, e prima ancora le generose dazioni di danaro del barone di Rothschild, che iniziarono nel 1883 quando un vero e proprio movimento sionista non esisteva ancora).
Ma non si può dimenticare che essa fu – nello stesso tempo – l’esito di una delle più ingiuste punizioni collettive della storia: venne imposto alla popolazione araba di Palestina di pagare il prezzo dello sterminio degli ebrei operato in Europa dal regime nazista nel corso della seconda guerra mondiale (culmine di una persecuzione contro gli ebrei-massa durata in Europa per molti secoli). Uno sterminio di cui erano state complici, con il loro silenzio, proprio quelle potenze democratiche che, sconfitto il nazismo, trovarono vantaggioso presentarsi come portabandiere dell’umanità “proteggendo” gli ebrei superstiti con il trovargli, a spese della popolazione nativa, una “patria” inventata – le alternative erano il Madagascar o l’Argentina…
Nei due anni cruciali (1947-1948) in cui la diplomazia internazionale preparò la nascita dello stato di Israele, i 62.000 arruolati nelle milizie sioniste e ultra-sioniste (Haganah, Palmach, Irgun, Stern) provvidero ad attuare con mezzi terroristici un’enorme pulizia etnica che provocò l’espulsione forzata dalle loro terre di 800.000 palestinesi, la metà della popolazione araba residente allora in Palestina. Il fatto-simbolo di questo processo coloniale di insediamento fu il massacro degli abitanti del villaggio di Deir Yassin, dove le milizie sioniste assassinano a sangue freddo centinaia di palestinesi di ogni età – un massacro poi pubblicizzato dalle stesse bande assassine in tutti i villaggi arabi attaccati.
A questo vero e proprio esercito sionista ben equipaggiato si opporrà in modo debole, tardivo e totalmente scoordinato un improvvisato “Esercito di liberazione” arabo composto da poche migliaia di armati palestinesi, siriani e iracheni dotati di sole armi leggere, a cui si aggiunsero, dopo la proclamazione uniterale dello stato di Israele da parte di Ben Gurion, altre migliaia di uomini provenienti dall’Egitto, dalla Transgiordania e dall’Iraq. Troppo poco, troppo tardi – ma è comunque da ricordare che allora l’insieme degli stati arabi respinse la costituzione dello stato di Israele.
Controversa fu anche l’approvazione del “Piano di partizione della Palestina” da parte dell’Assemblea generale dell’Onu il 29 novembre 1947: votarono infatti a favore del Piano 33 stati (con in testa gli Stati Uniti e l’URSS di Stalin), ma ci furono 13 voti contrari (in larga prevalenza stati arabi e di tradizione islamica) e 10 astensioni (per lo più i paesi dell’America Latina e la Jugoslavia di Tito). La risoluzione n. 181, non vincolante e perciò priva di valore giuridico, prevedeva la creazione di tre stati: uno ebraico, l’altro arabo, mentre il terzo, comprendente la sola città di Gerusalemme, era posto sotto amministrazione internazionale. Questa iniqua risoluzione assegnava allo stato ebraico il 56% del territorio della Palestina che sarebbe diventato il 77% già alla fine del 1948, l’80% dei terreni coltivabili a cereali e circa il 40% degli insediamenti industriali – sebbene gli ebrei colonizzatori fossero solo un terzo degli abitanti di quella terra.
Va ricordato che l’United Nations Special Committee on Palestine formulò una proposta alternativa a cui nessuno si prende la briga di fare cenno, avanzata dalla Jugoslavia, dall’India appena divenuta indipendente, e dall’Iran: uno stato federale bi-nazionale – soluzione di sicuro meno iniqua, sebbene anch’essa concessiva verso la colonizzazione sionista.
A distanza di quasi ottanta anni siamo nel mezzo di una seconda, devastante offensiva terroristica di marca sionista, ma a compierla è uno stato oramai riconosciuto di diritto o di fatto dalla totalità degli stati arabi, ed il cui diritto al genocidio dei palestinesi non è disconosciuto da nessuno degli stati borghesi esistenti sulla faccia della terra – tant’è che nessuno di essi ha rotto le relazioni diplomatiche con Tel Aviv dall’inizio della carneficina.
Il teatro di questo massacro non sono né Deir Yassin, né i 500 villaggi palestinesi distrutti. È la striscia di Gaza con le sue città densamente popolate. I morti non si contano a migliaia, ma a decine di migliaia e, sicuramente alla fine, a centinaia di migliaia. Inoltre nessuno stato ha rotto le relazioni economiche con Israele, e – a quel che si riesce a sapere – non le ha neppure allentate. Inclusi quelli, come la Cina e altri Brics, che a parole dissentono dal genocidio, ma poi continuano a sostenerlo di fatto con le proprie forniture di petrolio, tecnologia, infrastrutture, imprese edili, derrate alimentari, ecc.
L’appoggio incondizionato e determinante di Stati Uniti, Italia ed Unione europea, i grandi fornitori di armi di Israele non è minimamente messo in discussione dai più diversi report sulle stragi, le torture, le violenze più efferate, l’uso dell’arma della fame e della sete, l’assassinio sistematico di personale sanitario e di giornalisti, la distruzione degli ospedali, delle scuole, dei sistemi viari e fognari, degli impianti di dissalazione dell’acqua marina, etc. Lo stato colonialista e razzista di Israele è oggi protetto – in una forma o nell’altra – dalla totalità degli stati capitalistici del mondo. Basterà dire che nel suo discorso del 9 maggio sulla piazza Rossa Putin, al ventesimo mese del massacro di palestinesi, ha affermato solennemente che la Russia è un baluardo non solo contro “il nazismo e la russofobìa”, ma anche contro … l’antisemitismo. E di recente il presidente dell’Algeria Tebboune, pur rinviando la istituzione di normali relazioni diplomatiche con Israele al futuro, ha dato disposizione di non chiamare più Israele “entità sionista”, bensì – rispettosamente – stato di Israele… Dal che si deduce che bisogna compiere massacri su larga scala per essere rispettati a livello di burocrazie del capitale (incluse quelle formalmente, fino a ieri, “anti-sioniste”).
Nelle sfere dirigenti degli stati, a cominciare da quelli occidentali – l’Italia in prima linea che riuscì a passare per qualche tempo come “amica dei palestinesi” -, è sparita ogni reale avversione a Israele e ai suoi metodi terroristici. Anzi, benché non sia facile né opportuno dichiararlo, essi progressivamente sono presi a modello. In alcune università statunitensi, e ovviamente al Pentagono, si sta studiando il modo di operare dell’esercito sionista a Gaza come una nuova modalità di azione utile a infrangere ogni limite etico e giuridico con la giustificazione che è stato il nemico (in questo caso la resistenza palestinese, Hamas in primis) ad obbligarti ad adottare pratiche che possono provocare anche molte “morti accidentali”. Di fatto ogni obiettivo civile è trasformato in obiettivo militare, mentre le vecchie “leggi della guerra” contenenti – sulla carta – qualche limitazione sono esplicitamente dichiarate decadute. La legge fondamentale della guerra, ha affermato il ministro statunitense della guerra Hegseth, è quella della massima letalità. Al diavolo tutto il resto!
Ma quale capo di stato borghese, dell’Ovest e dell’Est, del Nord e del Sud del mondo, non sogna di poter “fare a pezzi” (espressione di Netanyahu riferita ai palestinesi che resistono) i propri sudditi ribelli, se necessario? I tempi della moderazione (posto che ci siano mai stati), sono finiti, ha scritto qualcuno.
Le cose sono enormemente cambiate, però, anche dal lato palestinese. Fu piuttosto facile, per le bande sioniste del ‘47-’48 organizzate in esercito, avere ragione in pochi mesi delle disorganizzate truppe arabe. Mentre oggi, a 20 mesi dal 7 ottobre 2023, lo stato e l’esercito sionista – nonostante l’illimitata opera di devastazione e massacro – non sono riusciti tuttora ad avere completamente ragione delle forze di Hamas. La resistenza palestinese è passata per prove molto difficili (pensiamo alla vicenda drammatica della degenerazione di al Fatah), ma negli ultimi decenni si è temprata nel fuoco di una catena di Intifade che dal dicembre 1987 (l’Intifada delle pietre), attraverso l’Intifada di al-Aqsa (2000-2005), la grande marcia per il ritorno del 2018, l’Intifada dell’unità del 2021, hanno enormenete allargato la partecipazione al moto di liberazione. Questo processo ha infine generato il 7 ottobre l’azione offensiva finalizzata a spezzare il lento, inesorabile strangolamento dell’esistenza della popolazione di Gaza.
E se è vero che il prezzo pagato dalle forze della resistenza e dalla popolazione è stato ed è terribile, la solidarietà che la causa della liberazione palestinese ha ricevuto e riceve oggi nel mondo arabo e nel mondo intero è incomparabilmente superiore a quella del 1948. Non ci riferiamo certo alle classi possidenti arabe e, men che meno, alle burocrazie statali; ci riferiamo ai movimenti nazionalisti arabi più radicati a livello popolare (Ansar Allah oggi, Hezbollah ieri), che sono stati capaci di portare allo stato sionista colpi che ne hanno mostrato tutta la vulnerabilità.
La causa palestinese – isolata dagli stati – si è più che mai internazionalizzata in un contesto diverso rispetto ad alcuni decenni fa. Negli anni ‘60 e ‘70 uscì dai confini strettamente nazionali all’interno del moto pan-arabo e del movimento anticoloniale delle nazionalità oppresse (Vietnam, colonie portoghesi, Cuba, etc.). Oggi la sua internazionalizzazione si dà ad un livello più profondo – delle masse sfruttate e oppresse, e non solo nel “Sud” del mondo. La Palestina, questa volta da sola, appare come la “patria degli oppressi di tutto il mondo”, un titolo conquistato con la straordinaria prova di resistenza, dignità, coraggio, fermezza data anche in questi mesi di orrenda carneficina.
La seconda Nakba – o, se vogliamo, la continuazione della prima – che si svolge oggi sotto i nostri occhi, è ancora più tremenda di quella del ’48. Essa è la predisposizione di una “soluzione finale” che non si ferma di fronte ai crimini più efferati pur di raggiungere il proprio scopo: disperdere definitivamente il popolo palestinese, cancellarne l’esistenza, trasformare l’intera Palestina nella base della “grande Israele”, com’è fin dalle origini nel dna del sionismo.
Ma proprio la radicalità sterminista del progetto israeliano richiama, osiamo dire: costringe, la resistenza palestinese ad una risposta rivoluzionaria altrettanto radicale, non solo per il proprio eroismo di cui continua a dar prova ogni giorno. La radicalità cui è obbligata la lotta al colonialismo sionista è quella di parlare alle masse oppresse dell’area non solo con il linguaggio della solidarietà ideale, ma con quello della lotta comune per scardinare l’ordine imperialista/sionista del Medio Oriente – per rimettere in moto una rivoluzione democratica di area capace di “andare fino in fondo” nel rovesciare i regimi circostanti legati con mille fili alle grandi potenze, anzitutto quelle occidentali. Un assalto che sarebbe il preludio, l’anticipazione del rivolgimento degli sfruttati di tutto il mondo per regolare definitivamente i conti con il sistema capitalistico internazionale.
Certo, “la rivoluzione palestinese è giunta in ritardo rispetto al nazionalismo [rivoluzionario] e in anticipo rispetto alla rivoluzione” [sociale], ma oggi questa sollevazione, e ciò che ha suscitato nel mondo mediorientale e nel mondo intero, ci danno una prefigurazione di come lo stato di Israele cadrà – cadrà quando, rovesciati i regimi reazionari confinanti (Egitto, Giordania, Libano, Siria), il moto rivoluzionario democratico anti-imperialista trasborderà verso Israele spezzando le catene che hanno finora impedito questa materiale fraternizzazione di forze, e restituirà al popolo e alla resistenza palestinese un po’ del coraggio e dell’aiuto che essi hanno dato a tutti i popoli e gli sfruttati della regione e del mondo.
Nell’ordine imperialista-sionista del Medio Oriente non c’è posto per l’autodeterminazione del popolo palestinese né, tanto meno, per il riscatto sociale delle masse sfruttate palestinesi. Per questo, tutti gli Stati capitalistici temono la resistenza palestinese, vedendo in essa il possibile detonatore di un rivolgimento capace di estendersi ben oltre i confini di Gaza e della Cisgiordania e di ridestare anche il proletariato delle metropoli imperialiste, ad oggi quasi del tutto incapace di rompere la sudditanza alle proprie classi dominanti e ai loro interessi di sfruttamento e saccheggio.
Dopo 100 anni di colonialismo, razzismo, sterminismo, nazi-sionismo ad opera congiunta israeliana-occidentale, dopo cento anni di indomita resistenza palestinese, di continuo rinata dalle ceneri delle proprie sconfitte e illusioni, possiamo essere certi di questo: lo stato di Israele è transitorio, mortale, la Palestina è immortale. Di generazione in generazione fino alla liberazione.