La corsa all’Africa
Se al centro del dibattito internazionale, in particolare in Europa c’è la guerra in Ucraina, il convitato di pietra di questa guerra è spesso l’Africa. Da un lato le ripercussioni più pesanti per quanto riguarda la carenza di cereali e fertilizzanti si sono avute in quel continente (con effetti devastanti sulle popolazioni). Dall’altro il taglio delle risorse naturali importate dalla Russia – gas, petrolio, minerali vari, grano – spinge i paesi europei a cercare di sostituirle con quelle presenti in Africa, accentuando la competizione per accaparrarsele. Per l’Italia, il governo Meloni esprime questi nuovi sforzi di conquista “neocoloniale” con la strategia del piano Mattei, camuffata come aiuto allo sviluppo africano (aiutiamoli a casa loro: tradotto conquistiamo terreno per i capitali italiani) e come contrasto ai trafficanti di uomini (in realtà una guerra contro gli immigrati, per costringerli ad accettare misere condizioni di vita e lavoro).1
I recenti colpi di stato in alcuni paesi del Sahel – Mali, Burkina Faso, Guinea Niger, Gabon – aggiungono nuovo combustibile locale alla contesa globale per l’Africa.
L’Africa possiede la più ampia superficie coltivabile del mondo, il 45% del totale secondo la Banca Mondiale,2 per gran parte molto fertili perché ancora vergini, oggetto del 70% del land grabbing, l’accaparramento di terre, in corso a livello globale.
L’Africa possiede circa il 30% di tutte le riserve minerarie globali,3 cosicché essa è il principale fornitore di diverse materie prime,4 tra cui bauxite, cobalto, rame, cromo, grafite, manganese, oro, diamanti, tantalio, uranio e platino. E ha almeno un quinto delle riserve mondiali di una dozzina di metalli fondamentali per la transizione energetica, tra cui circa il 19% di quelli necessari per le auto elettriche, come rame e litio. Le sue riserve petrolifere e di gas naturale accertate rappresentano rispettivamente l’8% e il 7% di quelle globali.
L’esportazione di minerali è circa il 70% del totale delle esportazioni africane, e circa il 28% del prodotto interno lordo del continente. Un export che tuttavia non è finora servito ad alimentare uno sviluppo industriale dei paesi esportatori, diversi dei quali stanno cercando di imporre restrizioni alle esportazioni di risorse minerarie grezze.5
Alle ricchezze naturali, si aggiunge una ricchezza di uomini, 1 miliardo e 468 milioni, oltre il 18% dell’umanità, importante oggi, probabilmente strategica per un’Europa sempre più vecchia. È la popolazione più giovane del mondo, il 60% degli africani è sotto i 25 anni, con un tasso di crescita (dal 1995 al 2017) doppio di quello globale, e più del doppio di quello asiatico.
Tuttavia, la maggioranza della popolazione africana non è ancora proletarizzata, prevale il settore agricolo, seppure in un quadro di forte trasformazione capitalistica i cui ritmi di sviluppo sono molto differenziati nelle varie aree, più alti in genere nel Nord del continente.
Di conseguenza la potenziale forza lavoro dell’Africa è molto superiore a quanto il suo attuale mercato del lavoro sia in grado di assorbire, ed è perciò disponibile a vendersi a bassissimo costo, oppure ad emigrare in paesi più sviluppati (anche al suo interno), offrendosi in concorrenza con la forza lavoro autoctona. Per le economie più avanzate un serbatoio di manodopera per il futuro.
La contesa per l’Africa
La contesa per le ricchezze africane tra le potenze globali e tra i paesi emergenti è uno dei fattori centrali della geopolitica africana. Ricchezze naturali che hanno nutrito l’industrializzazione dell’Europa e ora dovrebbero, secondo i piani delle potenze e alle loro condizioni, nutrire la cosiddetta transizione verde.
Questa contesa avviene in un contesto sociale ed economico molto differenziato tra i 54 paesi africani, e profondamente influenzato dalla storia. La colonizzazione, avviata nell’Ottocento, ha condizionato fortemente tipo e ritmi di sviluppo del continente africano per tutto il secolo successivo. In quella fase l’Africa è stata il cortile di casa dell’Europa. La decolonizzazione degli anni Sessanta del secolo scorso fu il frutto di lotte di liberazione, in un quadro internazionale che le vedeva sostenute da Usa e Urss, in concorrenza tra loro, per poter penetrare nel continente. Nonostante la formale indipendenza, le ex colonie hanno di fatto mantenuto un rapporto di dipendenza dalle vecchie metropoli europee, il cui peso economico è però progressivamente diminuito rispetto alle altre potenze. Questo si è tradotto in uno squilibrio tra l’influenza politica ancora significativa delle ex potenze coloniali e la loro capacità di controllo economico sulle ex colonie, e sull’Africa in generale.
Divario che negli ultimi decenni, nel quadro dei mutamenti nei rapporti di forza determinato dall’ascesa di nuove potenze globali, raggruppatesi come BRICS, ha favorito la competizione per l’influenza e lo sfruttamento sul continente.
La cosiddetta “nuova corsa all’Africa”, in cui si è introdotta da protagonista la Cina ma anche potenze regionali di minor calibro (India, Turchia, Egitto Qatar, Emirati, Arabia Saudita, …).
La forte instabilità dello sviluppo economico e sociale africano è legata alla dipendenza economica e politica dalle grandi e piccole potenze, che si contendono il predominio con ogni mezzo.
Alla violenta contesa tra potenze si aggiungono le sanguinose scorribande fuori controllo di gruppi armati (al-Qaeda nel Maghreb Islamico (Aqim), ISIS/Daesh, Boko Haram affiliato con Daesh, Al-Shaahab.6
E bande mercenarie (gruppo Wagner). L’ingerenza delle potenze si esprime sempre più in conflitti su procura, colpi di stato a ripetizione, fomentati e/o alimentati in vari paesi africani (Sudan, Etiopia e Corno d’Africa in generale, …), e per converso l’instabilità regionale è determinata dialetticamente anche dalla reazione a queste manovre.
Il ventre molle francese
Lo squilibrio tra influenza politica, in gran parte retaggio dell’oppressione coloniale, e attuale peso economico ha riguardato in particolare la Francia, che si sta dimostrando sempre più incapace di esercitare un controllo economico sugli ex possedimenti coloniali, detti Françafrique.8 Ne approfittano gli altri imperialismi, non solo Russia e Cina, ma anche India, Giappone e Stati Uniti e vari paesi del Golfo per cercare di penetrare nei territori delle sue ex colonie.
Dove è andato crescendo il risentimento contro la Francia neocolonialista. I militari vedono la possibilità di svincolarsi dalla Francia facendo leva su questo malcontento popolare. Almeno sette i colpi di stato militari attuati negli ultimi anni in alcuni paesi del Sahel: Mali (2020 e 2021), Burkina Faso (due colpi nel 2022), Niger (2023), Gabon (2023), Guinea (2021), oltre a manifestazioni di massa dall’Algeria al Congo e più recentemente in Benin.
Nell’area del Sahel il fermento politico e sociale è provocato non solo dalla richiesta di rimozione delle truppe francesi – ottenuta da Burkina Faso e Mali – ma anche dalla volontà di spezzare il controllo economico francese sulla regione, assicurato dalla forza militare. Un importante elemento di questo controllo è la questione monetaria. Quattordici ex colonie francesi hanno continuato a utilizzare le valute della Communauté Financiére Africaine (CFA),9 che offrono immensi vantaggi alla Francia. La quale impone che il 50% delle loro riserve venga detenuto dal Tesoro francese, e ne decide di conseguenza il valore. Questo vincolo può produrre, come avvenuto con la svalutazione del CFA nel 1994, effetti catastrofici sui paesi che lo utilizzano. Dal punto di vista commerciale inoltre, una moneta forte come il franco CFA rende le esportazioni dalla zona CFA molto più costose.
I colpi di stato anti-francesi non possono tuttavia considerarsi come “rivoluzioni democratiche”, dato che il potere rimane in mano a clan ristretti di militari e civili legati ad altre potenze. Ciò è in gran parte dovuto al fatto che non ci sono state rivoluzione capaci di rovesciare l’apparato politico di questi paesi monopolizzato da cleptocrazie di lunga data cresciute all’ombra della Francia (esempio salito di recente alla cronaca la famiglia Bongo, che ha governato il Gabon dal 1967 al 2023 e che ha saccheggiato le ricchezze petrolifere del Gabon per il proprio tornaconto personale.
Tentativi di coalizioni africane per “contare” di più. Colpi di stato o legittime rivolte popolari?
In Africa sono state create diverse organizzazioni regionali, comunità economiche, come tentativo delle borghesie africane di superare la frammentazione politico-economica, rafforzare la forza di “contrattazione” rispetto alle potenze, e incentivare lo sviluppo economico del continente. Basta ricordare che gli scambi commerciali africani avvengono per la maggior parte con paesi esterni al continente, solo il 18% avviene all’interno e spesso con alti dazi, a fronte del 19% del commercio intra-regionale in America Latina, del 51% in Asia, del 54% per cento in Nord America e del 70% per cento in Europa. Tuttavia quanto è accaduto di recente in occasione del colpo di stato in Niger esemplifica le difficoltà incontrate in questo processo di integrazione africana. Parliamo di Ecowas.
Sullo sfondo sono in corso violenti lotte di potere. L’ondata di colpi di Stato che sta investendo l’Africa sta alimentando una spaccatura tra Francia e Stati Uniti. Questo è risultato evidente in particolare in occasione degli eventi in Niger che, in contrasto con la Francia, Usa, Germania, Italia, UK, Spagna si sono rifiutati di definire “colpo di stato”.
La Francia ha caldeggiato l’intervento militare per procura di Ecowas, allo scopo di reinsediare il presidente destituito, Bazoum, finanziandolo con il Fondo europeo per la pace (con il quale Bruxelles paga le armi per l’Ucraina). Germania, Italia, Spagna e UK, pur dichiarando di voler proteggere i propri “interessi e obiettivi nella subregione” e non lasciarla a paesi terzi10(Cina e Russia) non hanno dichiarato illegale il nuovo governo militare e hanno messo i freni alla possibilità di un intervento militare di Ecowas. Intervento che comunque non è passato anche per l’opposizione interna, da parte degli stati anti-francesi, Burkina Faso e Mali in primis e, soprattutto, del gigante Nigeria, che ne è presidente, oltre che per la scelta USA di non regalare anche i militari nigerini alla Wagner.
Gli Stati Uniti – che in Niger oltre a 1100 soldati e personale dei servizi hanno una base di droni, ad Agadez, e che hanno investito fortemente per l’addestramento delle forze nigerine – hanno ufficialmente spinto per una soluzione diplomatica. E hanno inviato la Segretaria di Stato, Victoria Nuland, per negoziare con l’ex comandante delle forze speciali nigerine, Moussa Salaou Barmou, che si è formato negli USA.
A fronte della persistente opposizione in Niger, e privo dell’appoggio delle maggiori potenze europee e degli Stati Uniti, Macron ha dichiarato che ritirerà le truppe dal Niger. Una dura sconfitta per l’imperialismo francese, ma anche per gli interessi complessivi di quello europeo.
Nuovi scenari e vecchie logiche imperialiste
Il quadro globale è quello del multipolarismo, che si è sostituito al vecchio duopolio USA-URSS/Russia, consentendo l’entrata in scena di nuovi attori, i BRICS. Alcuni politologi, ma anche partiti e gruppi della sinistra, lo presentano come una democratizzazione delle relazioni internazionali. In realtà la contesa si è fatta ancora più violenta, caotica e complessa. E sfocia sempre più spesso in guerre, che naturalmente toccano anche l’Africa. Da ultimo il Sudan.
Ed è quasi simbolico il recente scoop giornalistico12 che ha rivelato come una delle due fazioni militar-economiche del Sudan tra loro in scontro armato dallo scorso aprile sia rifornita di armi … da Zelensky. Il presidente ucraino aiuta il generale Burhan, capo delle forze armate sudanesi e presidente ad interim di una giunta militar civile in disfacimento, contro la fazione del capo delle RSF, Hemedti, legato a Russia, e ad Emirati Arabi Uniti. Così le logiche della guerra in Ucraina portano l’alfiere della “guerra patriottica” a intervenire in una proxy war in Africa.
Giulia Luzzi
Riquadro 1
Cina
Nella retorica politica occidentale, quindi, l’obiettivo politico prevalente, accanto alla denuncia della presenza dell’estremismo islamico, è il “pericolo cinese e russo”. E da un punto di vista di scontro imperialista i numeri sono significativi almeno per la Cina.
I gruppi cinesi appoggiati dallo stato hanno sostenuto la creazione di “zone economiche speciali” in Etiopia, Nigeria, Rwanda e Djibuti.
A causa dell’aumento del costo del lavoro in Cina, i gruppi cinesi hanno investito nel calzaturiero e abbigliamento in Etiopia (la quale ora è divenuta esportatrice nel mercato europeo anche perché vi producono marchi occidentali come H&M).
La Cina sta superando i concorrenti occidentali anche fra i consumatori africani. Il gigante Huawei è entrato in tutta la catena di fornitura Internet, dai cavi sottomarini alla vendita di telefoni cellulari.
In base a uno studio McKinsey del 2017,7 attualmente operano in Africa oltre 10mila imprese cinesi, di cui solo il 10% statali, che realizzano circa il 12% della produzione industriale africana complessiva; per quanto riguarda i progetti infrastrutturali i cinesi hanno una quota di quasi il 50%, ponendosi (2015) al 1° posto (seguiti da Francia, Giappone, Germania e India).
La Cina è al 1° posto anche per gli scambi commerciali con l’Africa (seguita da India, Francia, Usa, Germania), sempre al 1° posto per l’incremento degli Investimenti Esteri Diretti (IED)- dati 2014 – (seguita da Sud Africa, UK, USA, Francia).
Invece per quanto riguarda gli stock di IED cioè gli investimenti accumulati nel tempo, la Cina era ancora al 4°.
La Cina è il secondo fornitore di armi dell’Africa dopo la Russia, davanti agli Usa, (rapporto Sipri). Dal 2008-2012 al 2013-2017 queste vendite sono aumentate del 55%, e si sono concentrate soprattutto sul Nordafrica, e in particolare Algeria, Tanzania, Marocco, Nigeria e Sudan.
È prima tra i membri del Consiglio di sicurezza ONU per militari (caschi blu) impiegati in Africa (2.519, di cui oltre mille in Sud Sudan) e seconda in assoluto dopo gli Usa per finanziamenti alle operazioni. Infine ha un peso preponderante nella base militare di Djibuti.
Riquadro 2
Russia
Dalla metà degli anni ’50 l’Africa divenne un importante campo di battaglia della Guerra Fredda. Fornendo armi ed equipaggiamenti, addestramento militare e consiglieri ai movimenti indipendentisti e ai governi africani, l’Unione Sovietica riuscì a penetrare nei principali paesi dell’Africa, compresi Algeria, Angola, Egitto, Etiopia, Libia e Mozambico. Questo avveniva in compensazione alla caratteristica debolezza nell’export di capitali dell’URSS. Poi, dopo il crollo dell’Urss l’attività russa in Africa fu marginale per circa due decenni. Ma è ripresa nel 2006 con il viaggio di Putin in Sud Africa.
Gli sforzi diplomatici della Russia si moltiplicarono a seguito all’annessione della Crimea nel 2014 (e conseguenti sanzioni occidentali), come pure con la guerra attuale in Ucraina per offrire cereali al posto di quelli ucraini che hanno preso la via dell’Europa.
Infatti, nel luglio 2023, 17 capi di stato africani hanno partecipato al secondo vertice Russia-Africa, sottoscrivendo diversi accordi (prevenzione della corsa agli armamenti nello spazio, cooperazione nella sicurezza informatica e lotta al terrorismo sul territorio). Mosca ha promesso di cancellare ulteriori debiti dei paesi africani.
Grazie a queste relazioni, il Cremlino ha ottenuto il sostegno di molti stati africani durante votazioni chiave presso l’ONU.
Quasi il 30% delle forniture di cereali dell’Africa provengono dalla Russia. I principali partner commerciali di Mosca nella regione sono i paesi del Nord Africa – in particolare Egitto, Algeria e Marocco – che insieme rappresentano circa il 67% del commercio totale della Russia con il continente.
L’espansione economica della Russia in Africa vede il predomino di gruppi parzialmente o interamente di proprietà dello Stato, tra cui i giganti del petrolio e del gas Rosneft, Tatneft e Gazprom, con importanti progetti di idrocarburi in Nord Africa. Anche il gruppo nucleare Rosatom si è impegnato con diversi paesi africani (es: 2022, costruzione della prima centrale nucleare egiziana).
Tuttavia gli impegni economici russi in Africa oggi rimangono modesti, rispetto a quelli attuali di Stati Uniti, Cina e Unione Europea. Ad esempio l’interscambio commerciale Russia-paesi africani è aumentato da 9,9 a circa 17,7 miliardi di dollari, ben al di sotto di quello Africa/UE, Cina e Stati Uniti rispettivamente a 295, 254 e 65 miliardi di dollari.
Bassi anche gli Investimenti Esteri Diretti russi in Africa, meno dell’1% del totale degli IDE in Africa.
Invece, nel campo degli armamenti la Russia mantiene una posizione di primo piano in Africa. Ha siglato “accordi di cooperazione tecnica militare” per fornire armamenti con più di 30 stati africani. È il maggiore fornitore di armi dell’Africa, di cui quasi l’80% sono dirette al vecchio alleato Algeria, che le usa dal tempo della sua guerra di indipendenza contro la Francia a fine anni ’50. Le vendite in Africa rappresentano circa un terzo di tutte le esportazioni militari russe, e viceversa per l’Africa le forniture russe nel 2018-2022 hanno rappresentato il 40% delle sue importazioni per i principali sistemi d’arma, contro il 16% di quelle importate dagli di Stati Uniti, il 9,8% dalla Cina e il 7,6 dalla Francia.11
La Russia è però presente militarmente sul terreno per lo più tramite truppe mercenarie, di cui Wagner è la principale, presenza che si concentra in alcuni paesi – Mali, Repubblica Centrafricana, Sudan e Sud Sudan, Libia, Gabon – contro 34 avamposti militari degli Stati Uniti. Tuttavia l’intervento russo è al centro dell’attenzione perché sta erodendo le posizioni dell’imperialismo francese.
Riquadro 3
L’Italia in Africa
Nel periodo fra le due guerre mondiali anche lo stato italiano si è costruito un “impero coloniale”, nei confronti del quale si è macchiato di analoghe iniquità, ma da cui ha tratto minori profitti, essendo arrivata buon ultimo a rivendicare la sua fetta di torta. L’imperialismo italiano ha certamente ottenuto di più dalla penetrazione “pacifica” nel secondo dopoguerra in particolare in Libia, dove la presa dell’Eni è rimasta salda nonostante le vicende del 2011. Del resto la stessa posizione geografica al centro del Mediterraneo garantisce un certo vantaggio.
Per venire ai tempi più recenti, in Africa sono intervenuti i grandi gruppi del settore dell’energia (Enel tuttora primo operatore dell’Oil & Gas in Africa, Eni, Snam ecc.) e quelli attivi nelle costruzioni e nei grandi progetti infrastrutturali (ad es. Salini Impregilo oggi Webuild, Danieli). Ma nel 2022 l’Africa pesava solo per il 3,5% sull’export italiano. Le grandi banche non hanno una presenza significativa e per gli investimenti, fatte salve le variazioni annuali, l’Italia nello scorso decennio era all’ottavo posto.
Il governo Draghi ha potenziato l’interesse per l’Africa, alla ricerca di nuove fonti di approvvigionamento energetico in proprio. Già prima dello scoppio della guerra in Ucraina, l’Algeria forniva il 23% del consumo di gas, mentre per il petrolio la Libia forniva il 15% del consumo e la Nigeria il 4%. Draghi ha contrattato un aumento della fornitura algerina e preso contatti con Egitto, Angola, Mozambico e Congo Brazzaville.
Già con Draghi si è delineato quello che Meloni ha poi battezzato “Piano Mattei”, cioè l’ambizione di trasformare l’Italia in un «hub» energetico per tutta l’Europa, facendo da ponte fra Africa ed Europa, legando il Nord Europa alle fonti energetiche africane attraverso l’Italia, dalla Sicilia alle Alpi. Un piano che ha bisogno per realizzarsi di un profondo ammodernamento dei trasporti italiani grazie a un impiego efficace dei fondi PNRR stanziati a questo scopo. Nei suoi viaggi in Africa, Meloni ha tentato di legare la partita al tema immigrazioni, sviluppando e generalizzando lo squallido accordo a suo tempo firmato da Minniti con la Libia. Nel 2023 Meloni è stata in Algeria, Libia; è stata firmata l’intesa con l’Egitto. In giugno si è recata in Tunisia.13 Il tutto inquadrato in una dichiarata fedeltà atlantica (“Sostenere l’Africa significa anche impedire l’offensiva politica della Cina e militare dei russi”.), ma con grande attenzione agli interessi dei propri imprenditori.14 Una voce importante degli accordi riguarda la vendita di armi, per la gioia di Finmeccanica e Fincantieri, oltre che gli accordi su petrolio e infrastrutture.
Il capitolo armi, ovviamente del tutto secretato alla stampa, è stato centrale nel viaggio in Etiopia (aprile ’23), come il capitolo dighe costruite da Webuild, anch’esse grondanti sangue.15
NOTE
1 Cfr. Il debutto di Giorgia Meloni all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, 20 sett. 2023: «… L’Africa non è un continente povero. È al contrario un continente ricco di risorse strategiche…»
2 https://www.africarivista.it/africa-terra-di-conquista-senza-giustizia/183095/; vedi anche https://formiche.net/2023/04/una-nuova-corsa-allafrica-conversazione-con-thaker/
3 https://www.policycenter.ma/sites/default/files/OCPPC-PB1719vEn.pdf
4 https://link.springer.com/article/10.1557/s43577-023-00534-3
5 In particolare Zimbabwe, Namibia e Repubblica Democratica del Congo, tutti con importanti giacimenti di litio, stanno vietando l’esportazione di minerali grezzi per batterie e intendono lavorarli localmente.
8 Françafrique, la politica di Parigi per l’Africa, si sosteneva con basi militari francesi da Gibuti al Senegal, dalla Costa d’Avorio al Gabon, servite a tenere la regione sotto il tallone di ferro del suo imperialismo, rovesciando governi, o assassinando leader patriottici. Tra il 1997 e il 2002, durante la presidenza di Jacque Chirac, la Francia è intervenuta militarmente 33 volte nel continente africano (nel 1962-1995, intervenne militarmente 19 volte). Philippe Toyo Noudjenoume, presidente dell’Organizzazione dei Popoli dell’Africa Occidentale ricorda che «Di tutte le ex potenze coloniali in Africa la Francia è intervenuta almeno sessanta volte per rovesciare governi: come quello di Modibo Keïta in Mali (1968), o assassinare leader patriottici, come Félix-Roland Moumié (1960) ed Ernest Ouandié (1971) in Camerun, Sylvanus Olympio in Togo nel 1963, Thomas Sankara in Burkina Faso nel 1987 etc.»
9 Il franco CFA è il nome di due valute usate da 14 paesi africani, tra loro in parità ed intercambiabili: il franco CFA dell’Africa occidentale, utilizzato in otto Paesi: Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senegal e Togo, e il franco CFA dell’Africa centrale, utilizzato in sei Paesi: Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Repubblica del Congo, Guinea Equatoriale e Gabon. Delle ex colonie francesi Guinea e Mauritania hanno abbandonato il CFA, mentre vi hanno aderito Guinea Bissau, ex colonia portoghese) e Guinea Equatoriale (ex colonia spagnola). Entrambi i franchi CFA hanno un tasso di cambio fisso (peg) rispetto all’euro: 1 euro = esattamente 655,957 F.CFA.
10 euractiv.com 29/08/2023.
12 CNN, https://edition.cnn.com/videos/world/2023/09/20/exp-sudan-ukraine-russia-war-elbagir-092012pseg1-cnni-world.cnn; Africa Express, 1.10.2023
13 https://www.combat-coc.org/a-tunisi-ipocrisie-e-trattative-a-spese-di-lavoratori-e-immigrati/
14 https://www.combat-coc.org/egitto-democrazia-gas-petrolio-armamenti-vs-diritti-umani/
15 https://www.combat-coc.org/aiutiamoci-in-casa-loro/
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