LA SPEDIZIONE BIPARTISAN

FRANCO VENTURINI

La politica e i nostri
soldati in Libano


Mentre la missione  in
IRAQ era basata sull’avventurismo e sull’unilateralismo, le missioni in
AFGANISTAN e LIBANO sono state basate su presupposti ben diversi: chi ne chiede
la  fine dovrebbe tenerne conto.

Una febbre da missione
militare scuote la politica italiana. Accade che in Libano l’assassinio di
Pierre Gemayel avvicini lo spauracchio di una nuova guerra civile e renda così
più pesanti i rischi che gravano sui nostri militari schierati a Sud? Ebbene,
nei palazzi romani l’accresciuto pericolo induce qualche esponente
dell’opposizione ad accusare il governo di velleitaria incoscienza
, si parla di «errore chiarissimo» concepito per
far dimenticare la «fuga dall’Iraq», le missioni volute da Berlusconi vengono
giocate contro quelle decise da Prodi e D’Alema come se la politica estera
italiana — e la pelle dei soldati — dipendessero da una cinica partita a carte
tra schieramenti contrapposti.E la sinistra «antagonista», parte della
maggioranza governativa, partecipa anch’essa al triste esercizio,
sottovalutando questa volta le insidie della presenza militare in Libano per
poter chiedere che non solo dall’Iraq, ma anche dall’Afghanistan
«berlusconiano» ci si ritiri
. Intendiamoci, il diritto di critica è
sacrosanto e tale deve rimanere. Oggi per chi giudica negativamente la missione
in Libano come ieri per chi (a nostro avviso con argomenti ben più validi)
giudicava negativamente l’invio di soldati in Iraq. Ma è proprio quando i
pericoli aumentano, è quando il compito delle nostre forze si fa più arduo che
la politica dovrebbe scoprire quel senso di responsabilità che continua invece
a mancarle
.
In Iraq la scelta di partecipare militarmente a un dopoguerra quello sì del
tutto illusorio si inserì in una cornice di contrasti fondamentali tra governo
e opposizione, sull’unilateralismo di Bush e sui metodi per «esportare la
democrazia». Ben diverse e diversamente motivate
(la sinistra- sinistra
dovrebbe ricordarlo) furono le ragioni dell’intervento in Afghanistan, ed è
in qualche modo consolante che ancora oggi lo schieramento deciso a «restare»,
pur auspicando il ripensamento di una missione male impostata, vada dai Ds ad
An. E il Libano, non dovrebbe essere anche questa una iniziativa ispirata da
finalità bipartisan?

Ernesto Galli della Loggia ha ben scritto su queste colonne che la politica
estera dà ragione, in ultima analisi, ai rapporti di forza. Il Medio Oriente di
oggi ne è una prova evidente, purché per forza non si intenda esclusivamente la
forza militare. La politica estera non si fa e non si può più fare soltanto
con gli F-16, l’America non ha vinto in Iraq, Israele non ha vinto contro
Hezbollah, l’iraniano Ahmadinejad lancia sfide forse meno temerarie di quanto
appaiano, la strategia diventa spesso pura provocazione e il Libano è la patria
prediletta dei provocatori.
La Siria per riprendersi il potere d’un tempo, l’Iran per far sentire le sue
possibilità di ritorsione, Hezbollah per tentare di diventare padrone a Beirut,
Israele per inseguire un recupero d’immagine militare e impedire il riarmo di
Hezbollah, tutti hanno potenzialmente interesse ad accendere in Libano la
miccia di una destabilizzazione generalizzata
. Esistono davvero diversità,
nella nostra classe politica, sull’opportunità di provare a prevenire un simile
scenario? Davvero è stato un errore accogliere l’appello dell’Onu per la costituzione
di quella Unifil II che sconta sì le ambiguità e le debolezze del mandato
ricevuto, ma può servire almeno a guadagnare tempo e spazio per un
indispensabile complemento politico peraltro in discussione tanto negli Usa
quanto in Europa? Proprio perché i rischi sono alti, proprio perché non
avrebbe senso rimanere se il tentativo fallisse e i nostri soldati si
trovassero presi tra due fuochi, la politica italiana dovrebbe riconoscersi
tutta almeno in uno sforzo: quello di provarci, in una regione dove la buona
volontà pacificatrice è merce rarissima
.

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