La svolta nella politica turca scombina le alleanze in Medio Oriente

Erdogan

La Turchia ha bombardato il 23 luglio, postazioni dell’Isis in Siria e campi curdi in Iraq; il ministro degli esteri Davutoglu ha dichiarato che le zone tolte all’Isis in Siria potrebbero diventare campi di raccolta per i profughi siriani. In quest’area, analoga a quella che il 1 luglio hanno creato le truppe giordane a sud della Siria, Erdogan sta inviando preventivamente 18 mila soldati.

Con queste azioni il governo turco rompe apertamente con la politica di coperta complicità con l’Isis, dopo un accordo esplicito con gli Usa. La mutata posizione turca dipende ufficialmente dall’attentato a Suruc, rivendicato dall’Isis (32 morti, 100 feriti).

La stampa americana sottolinea che può essere anche frutto dell’accordo Iran-Usa, cioè nascere dal timore che l’Iran diventasse l’alleato per eccellenza degli Usa a danno della Turchia. Sarebbe un primo frutto della nuova bilancia di potenza americana in Medio Oriente.

Ma l’evento determinante è stata certamente la conquista, a metà giugno, della città di Tal Abyad, nella provincia di Hazakah, da parte delle milizie curde armate da Washington. Questa vittoria ha permesso di unificare due province curde limitrofe (Kobani e Jazeera) lungo il confine turco-siriano. Il governo turco ha dato grande risalto al fatto che i curdi del YPG hanno espulso la popolazione araba e turkmena, simpatizzante per l’Isis. Un buon pretesto per decidere l’intervento, che mira ad estendere la zona di controllo di almeno 33 Km oltre il confine con la Siria onde impedire la formazione di un nucleo di stato curdo autonomo.

Gli Usa hanno pilotato il mutamento di indirizzo turco; la svolta è stata preparata con cura durante la visita del generale Allen e del sottosegretario alla difesa Christine Wormuth ad Ankara all’inizio di luglio. Per gli Usa il grosso vantaggio è che le basi turche per l’aeronautica sono significativamente più vicine agli obiettivi dei raid Usa contro l’ISIS. Inoltre Giordania e Turchia stanno iniziando lo smembramento della Siria, una soluzione che di quando in quando gli Usa prendono in considerazione.

Il disegno nemmeno tanto nascosto dei turchi è quello di assorbire in forma federata tutta l’area curda ex siriana, stavolta col consenso Usa, visto che è fallito il piano di puntare sui ribelli siriani per rovesciare Assad. La Siria è per i Turchi il corridoio naturale per il commercio con l’Arabia Saudita; la guerra è un danno significativo per l’economia turca, ma il peggiore degli incubi è la possibile nascita di uno stato indipendente Curdo. Oltre all’approvazione di massima di una “buffer zone”, zona cuscinetto, in territorio siriano, nei fatti la Turchia ha avuto il via libera ad attaccare i nazionalisti curdi, prima alleati degli Usa ora abbandonabili perché non più utili.

Fino ad oggi un velo di totale ambiguità oscurava le relazioni internazionali della Turchia.

Il governo che fino a poco tempo fa teorizzava il “nessun problema coi vicini”, è al centro dei conflitti: Siria e Iraq a sud, Ucraina a nord, crisi greca a ovest; in quanto potenza regionale emergente avrebbe potuto colmare il vuoto di potere determinato dal ritiro statunitense, ma è stata controbilanciata da Iran e Arabia Saudita. In più Iraq e Siria sono diventati sempre più instabili e i rapporti con Israele non sono più buoni. Il recente accordo fra USA e Iran sul nucleare e la loro collaborazione nella guerra contro l’ISIS accrescono l’isolamento turco. Per contenere l’Iran infatti i Sauditi guardano principalmente a Israele e contemporaneamente fanno scelte tattiche non sempre coerenti nell’appoggiare l’uno o l’altro gruppo sunnita. Israele d’altronde ha una sola solida alleanza: quella con la dinastia hascemita (Giordania) e in Siria preferisce un debole Assad che l’insediamento di un qualsiasi governo arabo forte.

Sul piano internazionale il governo Erdogan ha raccolto solo fallimenti: in Egitto, coi Palestinesi, con l’ISIS. Le relazioni con gli Usa erano difficili dal 2003 ( = rifiuto di concedere le basi per l’attacco all’Iraq) e di recente gli Usa hanno puntato sui peshmerga curdi per indebolire l’Isis.. Di recente hanno concesso l’uso di Incirlik contro l’ISIS, ma in generale la collaborazione con Usa e Sauditi non era definita. L’esercito turco sulla carta è temibile, ma non si cimenta in battaglia da 30 anni. L’AKP, il partito di Erdogan, è politicamente indebolito. L’instabilità mediorientale non è l’unica minaccia, perché anche il mar Nero, area strategica, è potenziale terreno di scontro militare: gli Usa si sono insediati sulle coste rumene e i Russi non intendono perdere il controllo del Mar Nero come corridoio vitale per il loro commercio. Dalla convenzione di Montreux (1936) la Turchia controlla il Bosforo e può rifiutare il transito alle navi di altri paesi o comunque imporre restrizioni, che finora ha applicato nei confronti dei russi, ma anche degli americani.

Le spinte economiche a integrarsi nell’Unione Europea sono oggi molto meno forti che dieci anni fa ( nel 2007 il 57% dell’export turco era rivolto alla UE, nel 2012 era calato al 40%; nello stesso periodo l’export verso il Nordafrica e il Medio Oriente è passato dal 18 al 34% del totale). La crisi mondiale ha reso meno appetibile l’adesione alla UE. Il trattamento riservato alla Grecia ha ridotto definitivamente gli entusiasmi, dopotutto le banche turche sono indebitate fino al collo, riescono solo a pagare gli interessi sul debito, che si aggirano intorno al 32%. E’ solo grazie al sostegno delle petromonarchie del Golfo che lo stato turco non va in bancarotta, l’Europa sarebbe assai meno comprensiva. I destini di Europa e Turchia quindi vanno a divaricarsi, anche per il fatto che è probabile che il peso della Turchia rispetto al resto dell’Europa si accresca in futuro, facendone un polo di attrazione alternativo a quello europeo per aree come la ex Yugoslavia, il Nord Africa, le repubbliche asiatiche ex sovietiche..

La svolta turca potrebbe essere letta solo in chiave geopolitica, ma in realtà a noi interessa per i suoi risvolti sociali e politici, che sono pesanti.

Erdogan ha approfittato della situazione (allarme attentati, mobilitazione per la sicurezza) per attaccare basi del PKK (gli accordi del 2012 sono evidentemente defunti), ma anche del PYG-YPG (partiti curdi di Siria) e anche le sedi del People’s Democratic Party (HDP), il partito legale turco che ha vinto 13 seggi alle ultime legislative. Cinquemila poliziotti con elicotteri e carri armati, a Istanbul e province considerate “a rischio”, stanno operando centinaia di arresti di sospetti membri del PKK, del HDP, ma anche di molte organizzazioni di sinistra o comunque oppositori del governo. L’AKP di Erdogan ha perso la maggioranza in Parlamento e cerca così di impedire che l’opposizione curda e di sinistra si rafforzi. Sotto il pretesto di legge e ordine si colpiscono anche sindacalisti e attivisti operai. La violenza interna del regime si conferma.

La repressione contemporanea di curdi e lavoratori è inevitabile dal momento che in futuro la maggioranza della forza lavoro turca, a causa dei diversi tassi di fertilità, sarà curda. E oggi la situazione di questa forza lavoro è pesante: salari taglieggiati dall’inflazione (25% annua), 43% dei posti di lavoro in nero, disoccupazione dei giovani al 28%. A questi problemi il governo, complice l’imperialismo americano oggi, quelli europei ieri, risponde solo con la repressione.