La vertenza GKN in un libro di Dario Salvetti : lotta di classe o deriva localistica? – Graziano Giusti

E’ uscito di recente un libro di Dario Salvetti, delegato FIOM ex GKN di Campi Bisenzio (FI), in cui l’autore presenta l’esperienza della lotta contro i licenziamenti avvenuta in quella fabbrica. Lotta che ha fatto molto parlare di sé anche e soprattutto per il livello delle mobilitazioni e delle iniziative nate attorno ad essa. Sulla base di questa esperienza Salvetti lancia un messaggio “nuovo” su come il movimento operaio dovrebbe affrontare situazioni del tipo di quella vissuta dai lavoratori di questa fabbrica. Visto che la questione è cogente (la stessa CGIL parla di 118.000 posti di lavoro a rischio per chiusura di impianti industriali), andiamo a vedere quali sono le proposte di Salvetti.

Per un lungo periodo di tempo, stando alle vicende del capitalismo italiano, le ristrutturazioni o le chiusure aziendali dei grandi gruppi avvenivano attraverso un uso massiccio e prolungato della cassa integrazione e una lenta dismissione delle attività produttive (1).

Da un certo momento in poi, più o meno a cavallo tra il XX secolo e il XXI, il capitale ha preso decisamente la strada delle dismissioni aziendali tramite la vendita di rami d’azienda, oppure dell’intera azienda. Per non dire delle esternalizzazioni. Tali procedure avvengono di frequente con licenziamenti in tronco dei dipendenti; i quali devono ricorrere subitamente a ridotti ammortizzatori sociali, coinvolgendo la solita infinita/snervante/truffaldina accozzaglia delle “istituzioni” e delle cosiddette “parti sociali”. Un mercimonio inaudito, in cui alla fine i lavoratori perdono non solo il salario, ma anche la dignità e la speranza.

Nel pacco degli “accordi sindacali” che accompagnano il corteo funebre, sono parte integrante gli approcci dei presunti “nuovi padroni” dell’azienda in questione; i quali, dopo un tira e molla di mesi e mesi – spesso dopo aver ricevuto pure sussidi pubblici – applicano la tattica delle “scatole cinesi”. Il licenziato parte credendo che si tratti solo di cambiar padrone, ma finisce in un vortice perverso di “sottosistemi aziendali” o di vacui “piani industriali” al termine dei quali c’è il nulla…

Il tutto è stato con gli anni adeguatamente rimpolpato da leggi e leggine che hanno estremamente precarizzato e reso “fluida” la condizione operaia: le decine di contratti di lavoro a ricatto, l’aumento dei ritmi, della flessibilità e dell’orario di lavoro, gli straordinari a go-go, la crescita di quello che Marx chiama l’esercito industriale di riserva, e infine, ma non per ultimo, l’arretramento salariale. In cui l’unica valvola di sfogo è l’aziendalismo più vieto, sostenuto e sponsorizzato sistematicamente dal sindacalismo collaborativo (CGIL compresa).

Chi scrive è stato parte in prima persona, da operaio, di una vicenda di dismissioni – circa un ventennio orsono – che avrebbe dovuto fare scuola, e impedire che ancora oggi troppi lavoratori colpiti da misure del genere continuino a rivolgersi alla Triplice sindacale.

Sto parlando della Siemens SPA di Cavenago Brianza, facente parte allora della provincia di Milano. L’azienda era leader mondiale dei cavi per macchine a controllo numerico. Con accordi sindacali siglati al Ministero del Lavoro in cui si garantiva tutta, ma proprio tutta la contrattazione pregressa, il colosso tedesco esternalizzava la produzione in Slovacchia in cambio di una “nuova attività” presso l’adiacente Bartolini Progetti. Mantenendo in toto l’occupazione allora presente (circa 300 dipendenti). L’operazione, fatta con il pieno accordo delle burocrazie della Triplice, ricattando e dividendo i lavoratori (e mettendo nel pacco prepensionamenti e bonus di buonuscita), portò nel giro di quattro anni (2003-2007) alla totale disgregazione di quella comunità operaia, caduta nel vortice di finti padroni dietro la fola della “reindustrializzazione ecologica”.

Salvetti nel suo libro, scritto con la giornalista de “La 7” Gea Scancarello (Questo lavoro non è vita, Fuori Scena, 2024), dice esplicitamente di voler fare tesoro di simili precedenti. Ma se entriamo nei dettagli di quanto egli propone in alternativa alla semplice rivendicazione del “lavoro” per come il capitale te lo pone (un lavoro di m… per dirla in due parole), non mi sembra di individuare chissà quali novità. Anzi.    

Come è noto, nel luglio del 2021 i 422 lavoratori della GKN, azienda dell’automotive che produce semiassi (l’85% delle commesse sono Stellantis), si vedono recapitare dalla direzione – via email – la notizia del loro licenziamento in conseguenza della chiusura dello stabilimento.

La GKN fa capo al fondo finanziario britannico Melrose, che ha acquisito il gruppo da appena tre anni. Salvetti mette giustamente in luce come la “bomba” (modalità a parte) non arrivi del tutto inattesa alla RSU e al Collettivo di fabbrica; quest’ultimo, assieme ai “delegati di raccordo”, è sorto “in affiancamento a una struttura sindacale già forte e capillare”.

E’ sicuramente importante valorizzare la forte sindacalizzazione della fabbrica, l’attenta e continua contrattazione interna da parte di una RSU permeata di ugualitarismo, inserita in un territorio che non ha perso del tutto quel solidarismo popolare così prezioso per le lotte operaie.  

Tali caratteristiche permettono alla GKN, sin da subito, di promuovere forti mobilitazioni proletarie e popolari che portano in piazza, a più riprese, decine di migliaia di persone; spinte dalla volontà di trasformare questa vertenza occupazionale in una calamita in grado di segnare la riscossa per migliaia di lavoratori messi nelle stesse condizioni. E, più in generale, per tutto il proletariato italiano reduce da decenni di cocenti delusioni e sconfitte legate alla linea difensiva “caso per caso”.

In fondo l’aziendalismo, e – di conseguenza – la frammentazione delle lotte, quando non il pieno sabotaggio di esse, sono da tempo gli assi portanti di un sindacalismo di Stato colluso e autoreferenziale, vera e propria burocrazia statale insediata nella classe in cambio di prebende e seggi elettorali.

Fatto è che in prima battuta (viste anche le esperienze di altre fabbriche), la RSU e il Collettivo, nonché l’Assemblea Permanente costituitasi dopo i licenziamenti, cercano di smarcarsi dalla pura e semplice rivendicazione di un lavoro perduto. Puntando certo sulla mobilitazione solidale, ma anche – e diremmo soprattutto, per ciò che narra Salvetti – sulla “creatività” della lotta e sul suo legame col territorio.

Quindi non puntando sull’allargamento della mobilitazione operaia e sulla costruzione di un suo coordinamento di lotta nazionale indipendente dai dettami delle burocrazie sindacali di ogni colore e provenienza. No, si cerca di potenziare al massimo una vertenza aziendale singola per farla diventare un esempio da seguire attraverso il sostegno del “suo” territorio, chiedendo ovunque solidarietà a questo “modello” di azione con il marchio di fabbrica “Insorgiamo”.

Ciò che porta a una simile impostazione sempre più localistica, illusoria (checché se ne dica) e sostanzialmente perdente, è probabilmente la piega che dopo qualche mese prendono gli eventi. Una piega assolutamente in linea con il cliché descritto sopra.

Dall’ottobre 2021 a dicembre dello stesso anno, scrive Salvetti, “I licenziamenti sono stati momentaneamente annullati [per difetto di forma, cosa che si ripeterà anche col nuovo proprietario – n.], ma la multinazionale non riporta la produzione nella fabbrica. L’assemblea permanente rimane, pur a stipendio pieno, in un vero e proprio limbo. Si rafforza la convergenza con gli altri movimenti e nasce per la prima volta una proposta di reindustrializzazione da parte del collettivo operaio e delle competenze solidali.”

Tale reindustrializzazione “dal basso” consiste nella “progettazione di un “polo pubblico della mobilità sostenibile”, scritto insieme ad alcune ricercatrici e ricercatori, anche della Scuola superiore Sant’Anna di Pisa. Un simile progetto deve sposarsi con una “azione legislativa dal basso”, una legge anti-delocalizzazioni mai discussa in parlamento che invece approva la Orlando-Todde, e con una “convergenza” con gli altri soggetti del “movimento”, consistente in assemblee, incontri e mobilitazioni.

Il fulcro del discorso rimane sempre e comunque la GKN, e solo la GKN; la quale, nel novembre, viene rilevata da Francesco Borgomeo, advisor di Melrose, incaricato con molta probabilità dalla finanziaria di liquidare la questione facendo finta di cercare nuovi acquirenti per il sito. Per assumersi in breve tempo il ruolo di taglia-teste in prima persona.

La dimostrazione che non si intende uscire dal localismo la si ha quando RSU e Collettivo GKN, invitati dal Fronte Anticapitalista prima, e dalla Assemblea Lavoratrici e Lavoratori Combattivi poi, a diventare parte integrante di tutto ciò che si muove nello scontro di classe nella penisola, dopo un iniziale timido approccio, nei fatti rifiutano. Rifiutano la proposta del SI Cobas e della TIR di lavorare insieme ad unificare le lotte contro i licenziamenti messi sul tavolo ministeriale, tra cui quelli della TNT-Fedex di Piacenza e della Whirpool di Napoli, oltre ai Disoccupati 7 Novembre della stessa città partenopea.

Sollecitati – a più riprese – ad unirsi a organismi di lotta reali come questi per farsi centro di iniziative unitarie di scontro con il padronato e il governo in quanto organo di coordinamento del dominio di classe, RSU e Collettivo GKN scelgono invece di inseguire il sogno di un capitalismo “dal volto umano”, ecologico, “sociale”, meglio se radicato sul “territorio”.

Un capitalismo dove nessuno ti imponga il lavoro notturno, ritmi di lavoro stressanti, o ti distolga da una vita relazionale piena, ricca di interessi e soddisfazioni. Non è il Proudhon del 1847, compagni; è Salvetti che – nell’anno di grazia 2024 – ripete come un mantra simili sogni mutualistici presentandoli per nuovi, quando sono vecchi come il cucco, e per di più stroncati, a suo tempo, da K. Marx sul piano teorico (nella Miseria della filosofia) e sul piano pratico da quasi 200 anni di storia del movimento operaio.

Una motivazione plausibile per derive come questa la si può individuare nella sindrome della sconfitta: con un movimento proletario dell’industria polverizzato in mille casi “particolari”, staccato da tradizioni di lotta e di organizzazione di classe, speranzoso solo di non cadere sotto la mannaia del capitale, in cui emergono, in alcuni casi, addirittura pulsioni pietistiche dirette verso “somme autorità” come il papa e il presidente della repubblica, si può comprendere perché il Collettivo GKN si sia indirizzato sempre più verso un localismo tout court. Quello che irrita è la mistificazione, la pretesa di spacciare il progetto di trasformare l’ex GKN in unità produttiva pubblica di cargo bike e impianti fotovoltaici per una proposta dirompente, alternativa rispetto al capitalismo corrente, in quanto espressione di un “nuovo verbo social-ambientalista”.

Il progetto, infatti, è quello di arrivare ad una fabbrica “integrata col territorio (con esso) fortemente fusa, con una iniziativa dal basso, in cui si prova ad accorciare la distanza di questa famosa catena di comando tra chi decide, chi controlla, ecc. Il punto della nostra reindustrializzazione è che noi vogliamo realizzare un prodotto ecologicamente avanzato che contribuisca ad affossare (“affossare” !!!) gli attuali rapporti di forza.”

Rapporti di forza tra le classi che Salvetti, rimasticando un po’ di marxismo “à la volée”, riconosce essere fondamentale per il futuro dei lavoratori. Il problema sta nella direzione in cui egli intende far maturare simili rapporti di forza. La direzione è quella delle scorciatoie piene di trabocchetti, di riprendersi in mano un capitalismo a pezzetti, in cui – ad esempio – si ripropone il vecchio equivoco in base al quale ciò che caratterizzerebbe il capitalismo è cosa si produce. Non, quindi, i rapporti di produzione (di sfruttamento) che sostanziano il dominio del capitale sul lavoro salariato, ma l’oggetto della produzione, la singola merce piuttosto che un’altra…

Scrive Salvetti: “Produrre un semiasse di una Ferrari, dal punto di vista sociale, non è uguale a produrre un pannello fotovoltaico. Il primo incorpora un meccanismo di disuguaglianza, di privilegi, di indifferenza all’inquinamento; il secondo produce democrazia orizzontale, energetica, climatica…”.

Ora, è sicuro, il proletariato al potere demolirebbe il mito delle Ferrari, compresi i loro semiassi. Ben altre sarebbero le priorità. Viene in mente l’affermazione di Lenin per cui, nel socialismo, l’oro potrebbe andare ad adornare i cessi…

Ma ciò non significa assolutamente che sia possibile fare terra bruciata attorno al capitale coltivando, a prescindere da un percorso rivoluzionario e dal ribaltamento del potere borghese, “processi di riappropriazione della fabbrica” fondati sul “profitto sociale di un prodotto” (Salvetti).

Processi preferibilmente affidati alla mano rassicurante del “bene pubblico” (non meno inserito nei meccanismi di estrazione di plusvalore, e dunque di sfruttamento, di quanto lo sia l’impresa privata).

Sono, questi, vecchi pallini, vecchie frottole dello stalinismo – frutto anche di una lettura caricaturale di Trotsky (Salvetti viene da questa trafila) – che ritornano a galla, più o meno inconsciamente, quando non si sa più dove sbattere il capo.

Non esistono, questo è ben chiaro, ricette facili su come battersi contro la chiusura delle fabbriche e i licenziamenti. Ma in simili argomentazioni e in una simile prospettiva emerge il rifiuto di porsi nell’ottica lavoro salariato contro capitale, sostituita dalla velleità di fare concorrenza al capitale sul suo stesso terreno! Come se il capitale cinese (ma anche italiano, tedesco, ecc.) non inondasse già il mercato di milioni di pannelli fotovoltaici (fino a far divenire i parchi fotovoltaici un problema per l’ambiente) e di bici elettriche con mezzi e su una scala irraggiungibile per una cooperativa operaia. La quale, per stare sul mercato senza essere immediatamente travolta, sarebbe magari costretta ad optare per produrre la “Ferrari” delle bici elettriche…

Un altro mito, più togliattiano che stalinista, è quello che Salvetti ripropone a più riprese: dal momento che il capitalista è un idiota sociale che non sa approntare dei veri “piani industriali”, tocca noi, avanguardie del proletariato in lotta, imporli con scienza-tecnica-coscienza.

Come? Con una mobilitazione che coinvolgendo soggetti sociali territoriali, “reti volontarie e professionali, militanti ed accademiche”, arrivi a far passare una legge (la Climate Jobs) di riconversione ecologica pubblica, in grado di imporre un “piano industriale collettivo”, in base al quale è “l’operaio che parla”. Quell’operaio che, solo, “ama la fabbrica”… Per la serie: tocca agli operai insegnare il mestiere ai capitalisti!

Sennonché i cimiteri industriali italiani sono pieni di ossa operaie tritate da chi, già negli anni ’70 del secolo scorso, portava in fabbrica il verbo della “lotta per gli investimenti produttivi”, in quanto il “capitale parassitario” non avrebbe avuto alcuna chance di sopravvivenza. Una simile devastante politica portata in fabbrica dalla Triplice sindacale caratterizzò in particolare gli anni dell’”unità nazionale” e del compromesso storico tra DC e PCI, lasciando sul terreno una lunga scia di disillusioni e di macerie.

Si ha un bel dire sulla “irriformabilità del capitalismo”e sulla necessità di un “sindacato di classe” quando poi si praticano “processi di convergenza”, che da un lato non disturbano affatto il capitalismo, e dall’altro, col micro-mutualismo, allontanano i lavoratori proprio da qualsiasi prospettiva di organizzazione di classe. Ci era sempre suonata pomposa la formula della “insorgenza”; ora se ne vede il contenuto reale in un altro termine: convergenza – convergenza con le istituzioni locali.

Intendiamoci: è comprensibile il richiamo a non accontentarsi di una lotta economica schiava di quel “circolo vizioso produzione-consumo che alla fine rende più poveri”; giusta la riproposizione del salario differito come terreno di lotta più largo e politicamente più coinvolgente, ma ancora una volta la soluzione ventilata si distacca dalle premesse che vorrebbero avere un che di “anti-capitalistico”:

“E’ il fatto stesso che il capitale sia allo sbando a costringere i lavoratori a convertirsi in “attivisti sociali”, cioè in persone che nel portare avanti la difesa del proprio lavoro hanno una prospettiva sociale.” Dici davvero?

Il richiamo che fa Salvetti è al progetto industriale presentato dal Collettivo nel dicembre del ’21, finalizzato alla costruzione di una filiera di “mobilità sostenibile” collegata alla “sovranità contadina” e  “mobilità bolognese”, per produrre la Cargo Bike. Un processo di “multirelazionalità” (fondata sulla comunità locale) e di “tenuta democratica”(fondata sulla democrazia diretta), creativo, coinvolgente, in grado di far sorgere addirittura una “classe dirigente diffusa”. Ergo di “mettere in discussione il funzionamento della società”. Mettere in discussione il funzionamento della società … dici sul serio?

Per questa via, purtroppo, l’esperienza di lotta GKN, che agli esordi aveva suscitato aspettative e speranze, è caduta su un binario morto. Lo diciamo non da una cattedra, non dall’esterno, ma avendo più volte manifestato concretamente solidarietà alla lotta degli operai GKN, e dal vivo della lotta e dall’impegno profuso affinché la classe lavoratrice riprenda la sua marcia come soggetto sociale e politico autonomo dalla logica del capitale e delle sue istituzioni.

Proprio così: soggetto sociale e politico, dal momento che i due termini per me e per noi internazionalisti rivoluzionari sono inscindibili, mentre in tutto il libro di Salvetti la lotta politica proletaria contro stato borghese, governo, partiti parlamentari ed i sindacati di regime collusi, è tristemente relegata sullo sfondo. Anzi: quasi mai nominata!

Sorge il dubbio che il motivo di una tale dimenticanza risieda proprio nella mancata emancipazione dalla famosa “disciplina sindacale” della CGIL, che non tollera lotte radicali generalizzate, e vieta di uscire dal guscio istituzionale del “caso per caso”. Non solo: quell’“attivismo sociale” che Salvetti richiama è ben accetto dalle burocrazie sindacali e dalle istituzioni locali tutte (la “Comunità”…) solo e nella misura in cui progetta programmi minimalisti di cooperazione e di mutualità facilmente riassorbibili dal sistema.

Tali soggetti “territoriali” possono anche mettere una buona parola per elargire aiuti in grado di far sorgere una cooperativa con le caratteristiche elencate da Salvetti, in grado di tenere a galla quel 30% di forza lavoro ex GKN sopravvissuto a questi tribolati quarantuno mesi di vertenza.  

Tutto ciò, però, a patto che la lotta operaia non “deragli” verso pericolose quanto inopportune, per le istituzioni del capitale, realtà di lotta di classe e di lotta sociale effettive e non simulate; verso un fronte unico di classe che abbia come prospettiva non un diverso capitalismo ecologico e sostenibile, ma il superamento del capitalismo attraverso una lotta politica organizzata dotata di un respiro internazionale e internazionalista.

Questo è il nocciolo del problema che il libro elude. E questo spiega per quale motivo i suddetti, ripetuti, espliciti inviti al Collettivo e alla RSU della GKN di farsi coinvolgere appieno in organismi di lotta reale, aventi come scopo la generalizzazione delle lotte su punti unificanti come la riduzione dell’orario di lavoro e il salario garantito, siano puntualmente caduti nel vuoto.

Purtroppo la “scuola” dell’opposizione in CGIL, raggruppata ne “Il Sindacato è un’altra cosa” e cespugli vari, non produce nulla che vada oltre i duelli congressuali (sempre più mosci a dire il vero) e l’oltranzismo aziendalista. Ricordo in proposito un’altra esperienza personale che la dice lunga.

Alla SAME di Treviglio (BG), nel 2011, la FIOM-CGIL d’impronta “cremaschiana” (Giorgio Cremaschi era ai tempi presidente del Comitato centrale della FIOM), largamente maggioritaria in RSU, fece mercimonio di precari, nonostante suonasse a tutto volume le trombe dell’opposizione “dura e pura”! Venne infatti permessa alla direzione (novembre 2011) la non riconferma di una ventina di indesiderati interinali (parte dei quali tra l’altro avrebbe dovuto avere la precedenza nell’assunzione per “anzianità” di rinnovi) per poi cantare vittoria cinque mesi dopo di fronte a una nuova infornata di assunzioni a tempo indeterminato largamente superiore alle uscite del novembre!

Motivo: per tenere in fabbrica i reprobi, i quali nel frattempo si erano messi in presidio ai cancelli (lasciati, soli, a marcire), ci sarebbe stato da combattere, perdinci, e non si voleva di certo turbare il regolare decorso del duro, classista, progressista…contratto aziendale!!!

Attenzione: la SAME, già allora “punta di lancia” di quella “rivolta sociale” oggi evocata (a parole) da Landini!    

La visione di una lotta di classe che prima di estrinsecarsi appieno come lotta generale deve inderogabilmente passare da una (improbabile) unificazione “economica” della classe stessa (senza con questo togliere l’importanza di perseguire comunque lotte rivendicative unificanti) è certamente errata. Ma ancora di più errata – e fuorviante – è l’idea che il capitalismo possa essere demolito a colpi di “microrganismi più o meno socialisti o socialisteggianti”, bypassando la lotta politica e la lotta per l’organizzazione partitica rivoluzionaria.

Lo è soprattutto in un’era come l’attuale: caratterizzata non da una competizione più o meno “democratica” su chi produce meglio e con minor impatto sociale, ma da una lotta feroce dell’imperialismo mondiale e dei capitalismi d’area contro il proletariato di ogni latitudine. Un’era caratterizzata da una tendenza generale al riarmo e alla guerra. Cosa che dovrebbe porre ad ogni rivoluzionario – e ad ogni autentica avanguardia di classe – il compito prioritario di lottare contro il “proprio imperialismo, contro il “proprio” governo, contro i collusi partiti e sindacati sciovinisti e social-imperialisti. Contro l’aziendalismo, il localismo, il riformismo, il sindacalismo spicciolo e forviante, occorre più che mai raccogliere le energie proletarie per sviluppare una forte, radicata, organizzata minoranza rivoluzionaria in grado di costruire mobilitazioni di massa contro guerra, repressione e sfruttamento.   

Post scriptum

Apprendo ora che è stata votata, nella notte tra il 20 e il 21 dicembre, una legge regionale sui Consorzi industriali che ricalca la proposta del Collettivo di Fabbrica ex GKN. Proposta sulla quale mi sono soffermato nell’articolo. Comprensibile il clima di festa da parte di lavoratori senza salario da 12 mesi, reduci da una vertenza snervante. Molti di loro vedranno in questa legge l’uscita dal tunnel. Purtroppo per loro, però, cambia poco. Basta vedere i quattrini messi per il finanziamento del progetto. “Bastano appena a girare la chiave del motorino d’avviamento”, ha ammesso lo stesso Salvetti. Nel frattempo si fa ancora più stretto, e soffocante, il legame materiale e ideologico tra i lavoratori rimasti e le istituzioni, gli “amici degli amici”, etc. Basti vedere i soggetti che hanno votato a favore della legge nel Consiglio Regionale (PD, M5S, Italia viva, un esponente di FI)… tutta gente che non si è mai stracciata le vesti per la causa operaia, o no?

(1) Mettendo un attimo da parte il livello decisamente più basso della finanziarizzazione e internazionalizzazione dell’economia rispetto a quanto lo sia ai giorni nostri, oltre al diverso assetto dell’organizzazione del lavoro e delle tecniche produttive, lo scopo evidente dei capitalisti (appoggiati dai governi di turno e dalle compiacenti burocrazie sindacali) consisteva nello sfiancare la resistenza operaia per restaurare il pieno controllo della fabbrica e posizionarsi per le successive operazioni di mercato (fossero o no in continuità col brand d’origine dell’azienda).

La famosa lotta dei 35 giorni alla Fiat nell’ormai lontano autunno 1980, ad esempio, finita con quella sconfitta durissima dei lavoratori che nell’immaginario collettivo segnò un’epoca, portò alla cassa integrazione ben 24.000 dipendenti (di cui 22.000 operai), per un periodo di 36 mesi. Di quei lavoratori ben pochi poterono rientrare in fabbrica perché l’obbiettivo della direzione era proprio quello di sfiancare e intimorire le avanguardie di lotta contestualmente a tutta la forza-lavoro occupata (non va dimenticato che l’attacco fu preceduto l’anno prima da decine di licenziamenti politici di avanguardie di lotta).

Va ricordato come – formalmente – quei cassintegrati rimanevano dipendenti Fiat; e la pratica dei rinnovi della cassa integrazione, sempre nei grandi gruppi industriali, era prassi diffusa. Ragion per cui lo “sfoltimento” degli organici avveniva con un’ampia manovra a tenaglia, non frontalmente. Basti citare aziende come l’Innocenti Auto di Lambrate (MI) o, restando sempre nel milanese, la Magneti Marelli di Crescenzago. Ma i casi si contano a decine.

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