L’esercito sionista attacca le basi Unifil in Libano. Strano? E perché?

S’è scatenato un gran baccano internazionale, in questi giorni, perché l’esercito sionista ha osato attaccare le basi Unifil, forte della sua assoluta storica impunità dovuta alla protezione incondizionata di cui gode da decenni. Un baccano insensato, e ipocrita. Forse è il caso di ricordare che l’Haganah e l’Irgun non esitarono a far saltare in aria il 22 luglio 1946 il King David Hotel di Gerusalemme in cui era ospitato il comando delle truppe britanniche in Palestina e Cisgiordania (facendo 91 morti e 46 feriti) – fu la punizione inferta ai loro protettori britannici per aver cercato, assai blandamente in verità, di porre un qualche argine all’immigrazione ebraica in Palestina – https://it.wikipedia.org/wiki/Attentato_al_King_David_Hotel.

La banda Stern, quella del feroce massacro di palestinesi nel villaggio di Deir Yassin e dalle esplicite simpatie per il nazismo, l’Irgun e l’Haganah si segnalarono per altri omicidi mirati ai danni dei loro mandanti (Lord Moyne, ad esempio, ma fu assassinato da loro anche Lord Bernadotte, il mediatore ONU), compiendo attentati anti-britannici anche fuori dalla Palestina (uno avvenne a Roma), e – nota bene! – all’atto di fondazione dello stato di Israele tutti i membri di queste formazioni ultra-sioniste di rivendicata matrice terroristica (1) furono incorporati, previa amnistia generale, dentro l’esercito regolare. I loro capi (Shamir, il “pacifista” Rabin, Dayan, il macellaio Sharon e via continuando) sono stati per decenni tra le massime autorità politiche e militari dello stato sionista.

Quindi, di cosa meravigliarsi? C’è da chiedersi, piuttosto, il perché dei recenti attacchi ad Unifil. E la risposta è piuttosto agevole. La trascriviamo paro paro dal Corriere della sera di ieri, 11 ottobre, certo non imputabile di sentimenti anti-sionisti:

“Perché Israele vuole liberarsi dell’Unifil? Nel campo delle ipotesi ce ne sono due molto plausibili; una di immagine internazionale e una militare. Israele non vuole l’Unifil per non avere testimoni dei suoi combattimenti [leggi: crimini stragisti], ad esempio dell’uso di armi chimiche vietate come il fosforo bianco (già denunciato dall’ONU) (…). Il secondo motivo è tattico. Commando e riservisti stanno penetrando in territorio libanese soprattutto dalle fattorie Shebaa che sono al limite di nord-est del Libano meridionale. Se Unifil si ritirasse, si aprirebbe un corridoio lungo la costa, a sud-ovest dell’area contesa. Gli israeliani potrebbero così realizzare una classica manovra a tenaglia con le unità provenienti dalle fattorie. I combattenti di Hezbollah sarebbero in trappola. Come in Afghanistan, se la comunità internazionale scappasse e permettesse un’operazione del genere, la credibilità dell’intero sistema delle relazioni diplomatiche ne uscirebbe moralmente a pezzi.”

Staremo a vedere se ai verbali appelli di Stati Uniti & Co. a “fermarsi”, corrisponderanno i fatti, oppure se Israele sarà libero, com’è stato finora, salvo la strenua resistenza di Hezbollah, di applicare anche in Libano, indisturbato, il “metodo Gaza”. Per intanto sgombriamo il terreno da un equivoco possibile. Finora le truppe Unifil hanno collaborato sistematicamente, seppure con la necessaria circospezione, con Israele. Prova ne sia il ringraziamento che il comando dell’esercito sionista ha ritenuto di dare loro prima di iniziare il suo fuoco intimidatorio: ci avete aiutato finora con le vostre operazioni di controllo e spionaggio, ma da ora in poi provvediamo al massacro da soli.

Nel baccano si sono sentite, inevitabilmente, anche voci italiane, dal momento che nel mirino della banda Netanyahu, degna erede delle bande Stern, Irgun e dell’Haganah, ci sono anche i 1.200 soldati italiani. Crosetto s’è lasciato sfuggire addirittura l’espressione “sospetto di crimini di guerra”. Nooo! Davvero? Per qualche telecamera mandata in frantumi, e un paio di feriti? Le decine di migliaia di palestinesi massacrati in un anno e le centinaia (o migliaia?) di libanesi non possono meritare questo sospetto, trattandosi – come sionismo vuole – di “non umani”, o “sub-umani”, mentre le telecamere, se usate dall’esercito italiano, acquistano dai loro utilizzatori – per la proprietà transitiva – sostanza umana, ed è crimine contro l’umanità, o almeno contro il diritto internazionale, toccarle. A proposito: cosa ci stanno a fare lì i 1.200 soldati italiani? Nel momento in cui stampa e tv fanno montare l’ansia per le loro vite (l’uomo della strada direbbe che dopotutto sono militari di mestiere, assoldati a 130€ al giorno più vitto e alloggio), uno sguardo retrospettivo su questo storico interventismo italiano in Libano di chiara matrice imperialista non è affatto superfluo.

Italia e Libano: denuncia di un interventismo storico

Unifil con partecipazione italiana iniziò nel 1979 (Israele aveva invaso il Libano l’anno prima). L’Italia fornì 4 elicotteri e 50 uomini, con compiti di ricognizione, ricerca e soccorso, trasporto sanitario e collegamento. Un’azione di supporto a Francia e Usa che erano i responsabili della missione.

Il salto “di qualità” dal punto di vista dell’imperialismo italiano avvenne nell’82, quando l’intervento fu “alla pari” con gli Usa e la Francia, nella Forza multinazionale “di pace”. Si trattava di scortare Arafat e gli uomini dell’Olp fuori dal Libano verso la Tunisia – cioè di dare esecuzione alla decisione israeliana (e occidentale) di cacciare il comando dell’Olp dal territorio libanese, allontanandolo il più possibile dalla Palestina e dai campi profughi palestinesi. i Accanto a questa funzione politica, l’intervento militare mirava ad inserirsi nell’economia del paese, importante allora, assai più di oggi, perché era la cassaforte e la porta del Medio Oriente, un po’ come lo è (con dimensioni e ruolo ovviamente diversi) Hong Kong rispetto alla Cina. Lì si firmavano i contratti più interessanti con tutti i paesi mediorientali, si spartivano i pozzi, si contrattava sui riciclaggi nelle ospitali banche libanesi. Venne ripescata l’oleografica immagine degli italiani “brava gente”, amati dalle popolazioni cui corrono in soccorso (basterebbe ricordare Nasiriya…). Nei fatti i 600 militari italiani rimasero consegnati sulle navi dall’11 al 26 settembre, mentre i falangisti libanesi, col silenzio-assenso dell’esercito israeliano, massacravano i palestinesi a Sabra e Chatila. A massacro consumato i militari italiani tornarono in forze e ci rimasero fino all’’84. Già allora, a chi ha gli occhi per vedere, fu chiaro che di “umanitario” quelle spedizioni non avevano nulla. La spedizione fu una passerella per il lancio pubblicitario delle navi da guerra italiane.

Nel 2006 Israele, col pieno favore degli Usa e dell’Unione europea, invase ancora una volta il sud del Libano – si tratta di una lunghissima tradizione – tra il 1949 e il 1964 ci sono state 140 aggressioni israeliane, tra il 1968 e il 1974 addirittura 3.000, e durante la guerra del 1967, a cui il Libano non prese parte, lo spazio aereo libanese fu violato sistematicamente per i bombardamenti sulla Siria. Come ricordano W. Charara e F. Domont nel loro Hezbollah. Storia del partito di Dio e geopolitica del Medio Oriente (DeriveApprodi, 2006, pp. 16), è dal 1919 che il capo del movimento sionista Weizmann, poi primo presidente dello stato di Israele, scriveva a Lloyd George quanto segue: “Riteniamo che sia essenziale che la frontiera settentrionale della Palestina includa la valle del Litani fino a quasi 25 miglia (40,5 km circa) a monte del gomito, nonché i versanti ovest e sud del monte Hermon”. Una pretesa ribadita in seguito un’infinità di volte, con parole e soprattutto azioni.

Nel 2006 Israele si scontrò con Hezbollah, subendo quella che è unanimemente considerata una cocente sconfitta, ma la invasione provocò comunque più di 800 mila sfollati, diverse migliaia di morti fra i civili libanesi e una distruzione sistematica di case e infrastrutture. Dopo 34 giorni di guerra, Israele accettò un cessate il fuoco di compromesso, proposto dall’Onu, cioè un ritiro parzialeii e il coinvolgimento di forze di interposizione internazionali.

In questo contesto fu varata UNIFIL2, a cui l’Italia ovviamente partecipò in forze, forte del suo significativo radicamento economico e diplomatico nel paese. Il governo Prodi vara la seconda spedizione italiana in Libano, sempre sotto “l’egida dell’Onu”, nell’agosto 2006. All’epoca Prodi, per ingraziarsi l’ambiente, si spinse fino a riconoscere l’evidenza, e cioè che Hezbollah era “l’alfiere dell’indipendenza nazionale libanese”, ed anche un difensore dei palestinesi contro il Moloch israeliano – ben s’intende, senza minimamente mettere in discussione la “storica amicizia” con lo stato sionista. Il comando della missione andò alla Francia di Chirac, ma nel marzo 2007 passò all’Italia. iii

Fu l’inizio di un condominio franco-italiano; sotto traccia una rivalità senza esclusione di colpi, perché entrambi i paesi vogliono difendere i rispettivi, e non coincidenti, interessi in Libano. L’Italia si caricò dei rischi e dei costi del 40% della spedizione, ma l’investimento è stato redditizio visto che oggi l’Italia è il secondo partner economico del Libano, dopo gli Usa, grazie a un “lavoro di squadra fra militari, addetti commerciali, ambasciata”.

Questo intervento è diventato ancora più prezioso per l’imperialismo italiano nel dicembre 2017, con la scoperta del petrolio davanti alle coste di Gaza e del Libano meridionale. Il premier Hariri concesse all’italiana Eni, alla francese Total e alla russa Novatek i diritti di esplorazione per due dei cinque blocchi offshore di sicura competenza libanese dei giacimenti posti a metà fra Libano e Israele (chiamati Tamar e Leviathan). v

Con Unifil 2 l’Italia aveva l’incarico di controllare che l’esercito libanese bloccasse i carichi di armi diretti verso le postazioni e gli arsenali dei miliziani sciiti a sud del Litani – giusto per avere chiaro da che parte sta, e a cosa è servita quella missione oggi contestata, per esaurita funzione, da Netanyahu e soci.

Oggi la borghesia italiana appare incerta sul da farsi: chi dice di ritirare i soldati, tanto lì non hanno niente da fare; chi dice, invece, che occorre cambiare le regole di ingaggio e trasformare il contingente (1.200 uomini) in un vero e proprio strumento di intervento militare con compiti di combattimento. v Dopotutto, “ci abbiamo speso un sacco di soldi!”. Solo l’anno scorso 160 milioni di €. Non esistono cifre ufficiali per i 18 anni complessivi, si stima siano 3,5-4 miliardi; comunque una delle più costose.

Naturalmente il “noi” precedente è virtuale. I lavoratori italiani pagano con le loro tasse (direttamente e tramite la specifica accisa sulla benzina per Unifil) la spedizione. La borghesia italiana calcola come sfruttare l’investimento sia in vista delle nuove estrazioni petrolifere sia in generale in termini di penetrazione economico militare nel paese e nella regione, e di appoggio al suo alleato storico Israele. Con la benedizione del governo americano si intende, sia questo di Biden sia il prossimo di Harris o Trump. Quando si tratta di Israele infatti non ci sono grosse diversità.vi

Per Israele non è in gioco solo il controllo di coste e retroterra ricchi di petrolio, ma in primo luogo la piena realizzazione dello storico progetto della “Grande Israele”, che vuol dire conquista territoriale illimitata al fine di espiantare dalla Palestina storica, e oltre, fino all’ultimo palestinese, fino all’ultima opposizione ai suoi piani di colonizzazione e sterminio, e in questo trova la solida alleanza del suo sostenitore numero uno, gli Usa.

Scrivevamo nel n. 14 di Pagine marxiste (agosto-ottobre 2006): “Non saranno le forze Unifil, espresse da due imperialismi europei, a impedire la ripresa delle ostilità… Perdenti saranno il proletariato libanese, quello palestinese e anche quello israeliano….”.

Oggi a Gaza e in Libano sono sotto gli occhi di tutti le distruzioni e i morti (mai così tanti anche i bambini) e come le chiacchiere diplomatiche coprano la complicità di chi dicendo di volere la pace, prepara la guerra.

E’ nostro dovere denunciare innanzitutto le responsabilità del “nostro imperialismo” sottovalutato e tenuto in ombra da sovranisti e da campisti di varia taratura (anche nel campo della cosiddetta sinistra extra-parlamentale). In quanto difensori degli “interessi nazionali”, costoro contribuiscono a occultare che, qualsiasi decisione l’Italia prenda a proposito dell’Unifil, non sarà certo a vantaggio delle masse dei palestinesi e dei libanesi, ma dei profitti recenti e futuri delle classi dominanti. Ai lavoratori, al massimo, toccherà il ruolo di carnefici e carne da cannone (in qualche caso, magari, anche da “fuoco amico”).

Per questo il 5 ottobre siamo scesi in piazza per la Palestina e per il Libano, contro il DDL 1660, con cui si tenta una stretta repressiva anche rispetto alla denuncia del genocidio in corso a Gaza e della nuova invasione del Libano, per agevolare le crescenti spinte guerrafondaie dell’Italia che “ripudia la guerra”…

Note

iL’Italia fornì 2 incrociatori, due caccia d’altura 4 fregate e varie navi di sostegno. Una media di 600 soldati presenti che ruotavano.

ii Israele mantenne l’occupazione di alcune aree nel sud del Libano fino al 2000.

iii Per le notizie di fonte governativa della spedizione del 2006 Cfr https://documenti.camera.it/leg18/dossier/Testi/DI0124.htm

iv Si stima che il primo possegga riserve pari a 238 miliardi di metri cubi di gas mentre il secondo ne contenga circa 535 miliardi. Ovviamente infuriano le contese per definire gli esatti confini territoriali fra Libano e Israele e la ricerca di appoggi internazionali per sostenere l’una o l’altra capitale.
Israele ha intensificato la pressione su Gaza anche per ribadire il suo controllo sul mare antistante e sul tesoro di idrocarburi che contiene. Contemporaneamente si è aperta la disputa con il Libano per definire la spartizione. Ma se riuscisse a svuotare Gaza e rioccupare il sud del Libano azzerando Hezbollah, non ci sarebbe nessun bisogno di spartizione.

v Per uno sguardo complessivo sulle spedizioni italiane (numero di uomini, peso della spedizione nell’ambito del totale degli interventi italiani cfr https://documenti.camera.it/leg18/dossier/Testi/DI0286.htm

vi Il 28 settembre, il presidente della Camera Usa, il repubblicano Mike Johnson ha esortato l’amministrazione Biden “a porre fine alle sue controproducenti richieste di cessate il fuoco”, mentre secondo il genero di Donald Trump – e suo responsabile per la politica in Medio Oriente – Jared Kushner “La mossa giusta per l’America ora sarebbe dire a Israele di finire il lavoro”.

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