L’Italia in Iraq: da “Morire per Nassirya” a bombardare l’ISIS

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Negli ultimi giorni lo scoop del Corriere della Sera, titolato “L’Italia bombarderà l’ISIS” rilancia l’ipotesi si una partecipazione “attiva” del contingente italiano in Iraq contro l’ISIS. Pinotti e Gentiloni smentiscono e ridimensionano (“è una ipotesi” “da valutare con gli alleati” se sarà il caso “il parlamento ovviamente sarà coinvolto”). Renzi cancella un viaggio in Libano, Pinotti incontra il segretario alla Difesa USA Ash Carter a Sigonella.

E’ evidente che una parte del capitalismo italiano di cui si fa portavoce il Corriere preme per l’intervento, ma una parte frena, preoccupato per i costi (vedi proposta del ministro Padoan di ridurre del 3% i fondi delle Forze Armate). Inevitabile pensare ai precedenti.

Antica Babilonia
Il precedente intervento italiano in Iraq, (2003-2006, partecipazione alla seconda guerra del Golfo, quella che rovesciò il regime di Saddam), è stato un esempio di raro insuccesso rispetto agli obiettivi dal punto di vista della borghesia italiana.
L’Italia schierò più di tremila uomini, lascio sul terreno 35 morti e spese 1534,6 milioni di € (di cui solo 32 per operazioni umanitarie, genere gestione ospedali ecc.). Lo scopo non dichiarato ma tutti presente era salvaguardare gli interessi italiani a Nassiriya, dove si trovavano giacimenti concessi sulla parola all’Italia da Saddam prima dello scoppio della guerra; il governo italiano pensava di far pesare la sua presenza militare in loco per ottenerne lo sfruttamento a guerra finita. Ma nel dicembre 2006 quando il contingente italiano si ritira, i giacimenti di Nassiriya passano alla Nippon Oil, che poi li cede alla compagnia irachena, South Oil Company. A parziale risarcimento per la perdita dei campi petroliferi di Nassiriya, nell’ottobre 2009 l’ENI ottiene in concessione un grande campo petrolifero nell’estremo sud dell’Iraq, Zubair, in cui l’Italia è capofila col 32%.
Zubair è un premio di consolazione poco vantaggioso, perché il contratto non prevede una partecipazione agli utili, ma solo 2 $ al barile pagato all’ENI in cambio del lavoro svolto. In più il deplorevole stato delle infrastrutture porta ENI e autorità irachene a concordare una riduzione della produzione giornaliera (febbraio 2015). Nel 2012 l’allora amministratore delegato Scaroni torna alla carica con il presidente Al Maliki per riottenere una concessione a Nassirya. Addirittura l’ENI rinuncia alla possibilità di investire del petrolio curdo a nord, per non irritare al Maliki, ma nel 2014 il quadro politico cambia, al Maliki viene sostituito, gli accordi verbali con lui sono quindi carta straccia e d’altronde Nassyria si trova nell’area di controllo dell’ISIS dall’estate 2014.

I “volonteros” del ‘14
E’ in questo contesto che si colloca l’invio, il 20 agosto 2014, nell’ambito della partecipazione alla coalizione internazionale contro Daesh-ISIS, di 2 Predator, un velivolo da rifornimento in volo KC 767 e 4 Tornado con missione di semplice ricognizione. Dei 530 uomini del contingente italiano, 200 sono personale dell’aeronautica stanziati in tre aeroporti del Kuwait, 50 a Bagdad istruiscono ufficiali iracheni, gli altri addestrano 2500 peshmerga curdi a Erbil in territorio iracheno. E’ già previsto che in settembre si aggiungano agli istruttori 110 carabinieri. E siccome siamo un paese colto l’intera impresa si chiama “Prima Parthica” e sta diventando il secondo contingente all’estero per consistenza (dopo i 1.100 caschi blu dislocati in Libano) e nei primi nove mesi è costata 135 milioni di € (l’equivalente libanese 120 milioni)
A questi peshmerga è stata fornita anche “una consistente quantità di armi”.

L’Italia non combatte, ma fa affari: col Kuwait, con l’Arabia Saudita, con gli Emirati e si è ben collocata anche con un eventuale stato kurdo indipendente. Perché gli “istruttori italiani” sono esperti in anti-terrorismo, ma anche in “contro-insurrezione”, addestrano cioè questi uomini non per combattere una guerra contro un nemico esterno, ma per fungere da polizia e da braccio armato contro tutte le forme di opposizione, anche sociale, al servizio del governo in carica (cfr. Analisi di Difesa 18 sett.2015), compreso quello curdo, che ha l’ambizione di gestire in proprio le risorse petrolifere del nord iracheno (e potrebbe farne grazioso omaggio anche all’ENI). L’Italia prosegue la rivista on line semiufficiale delle Forze Armate, prepara i peshmerga “a garantire la stabilità del paese e quindi anche i duraturi vantaggi dei nostri investimenti”.
L’ambizione dei nostri businessmen è di tornare al 2006 quando l’Italia era il primo partner commerciale dell’Iraq, davanti anche alla Germania, e l’attuale amministratore delegato dell’ENI Paolo De Scalzi ha incontrato più volte il ministro del petrolio iraniano Bijan Zanganeh.

Nel frattempo è Finmeccanica che fa i migliori affari. Il Kuwait è un partner dal 2012 per addestramenti bilaterali di personale aeronautico e gli alti papaveri del paese mediorientale sono frequentemente ospiti di centri militari italiani e di aziende Finmeccanica. Non contenti di questo, approfittando del Natale, il 30° gruppo navale della Marina Militare con la portaerei “Cavour”, l’unità rifornitrice “Etna”, la fregata lanciamissili “Bergamini” e il pattugliatore d’altura “Borsini” hanno fatto tappa in Kuwait durante il lungo tour promozionale in Africa e Medio Oriente pro sistemi d’arma Made in Italy, naturalmente con la copertura di “salutare i nostri ragazzi”. Poco dopo
Selex ES, azienda del gruppo Finmeccanica produttrice di sistemi radar, sorveglianza, intelligence, ecc ha aperto una filiale a Kuwait City in joint venture con la locale al-Safwa Security and Defence Systems. Finmeccanica-Alenia Aermacchi si è aggiudicata la fornitura di 28 Eurofighter, da produrre in Italia, per il Kuwai per 2 miliardi di €, cui si aggiungono contratti per 4 miliardi per formazione, logistica e ricambi (quest’ultima commessa con forti ricadute sull’indotto)

Iraq e dintorni oggi
Quello che è evidente è che l’Italia interverrebbe oggi in Iraq ma non in Siria, motivo ufficiale: “il governo iracheno ci ha chiesto di intervenire e anche di bombardare, mentre il governo siriano, piaccia o non piaccia, ha rivolto questa richiesta soltanto alla Russia.”
Renzi ha ufficialmente deplorato i bombardamenti della Francia in Siria, aggiungendo, confermando che in Medio Oriente ogni stato europeo fa per sé.

In Siria lo stato italiano non vuole intervenire militarmente perché si riserva o si illude di giocare un ruolo di mediazione fra i paesi Nato, in primis gli Usa, e la Russia, pregiandosi di buoni rapporti con entrambe le parti. Senza contare che nel ginepraio del tutti contro tutti si rischia di pestare i piedi a qualcuno con cui si stanno facendo buoni affari, siano la Turchia o il Qatar.
Secondo Analisi di Difesa (7 ottobre 2014), il contributo bellico dei Tornado “non muterebbe la situazione militare in Iraq”, tuttavia avrebbe un significato simbolico e una conseguenza politica, cioè potrebbe essere barattato con il supporto degli Stati Uniti a una leadership italiana in una eventuale missione dell’Onu in Libia, per ora improbabile perché nessuna fazione libica è disposta ad accettare la presenza militare straniera sul terreno. L’Italia in Iraq avrebbe poco da guadagnare (ma sicuramente di più che in Siria, dove non c’è né petrolio né petrodollari), mentre in Libia sì che finalmente avremmo “un intervento bellico davvero all’insegna dei nostri interessi nazionali”. Analisi di Difesa dà un giudizio positivo dell’intervento russo in Siria, perché contribuisce al “superamento di una fase di stallo”, fa “ripartire il processo politico, compensando la sterilità mostrata sinora dall’impegno statunitense ed europeo in Siria e Iraq”, purché naturalmente i russi siano pronti a promuovere una “reale transizione”. Al contrario “l’irrilevanza dell’Europa è da considerarsi un dato consolidato.”
I militari, per lo meno, parlano chiaro.

Ma confermano che mentre taglia le vaccinazioni ai bambini il governo “di sinistra” è disposto ad allargare i cordoni della borsa per l’ennesima avventura oltremare: Il fatto che gli obiettivi possano essere velleitari non la rende meno imperialista e meno pericolosa. Sotto un altro altisonante nome latino nasconderemo il ruolo internazionale di venditori di strumenti di morte e di creatori di profughi.