Boston Consulting Group agosto 2011
+ Citi GPS 130118
* Citi è una delle maggiori istituzioni finanziarie del mando, opera in tutti i maggiori paesi e in quelli emergenti
– Le previsioni della fine del manifatturiero americano si dimostrano ancora una volta errate:
– la produzione è 2 ½ quella del 1972 in $ costanti, l’occupazione è invece calata del 33%.
– Nel 1997-2008, nonostante la recente ondata di delocalizzazione in Cina, il valore della produzione manifatturiera Usa è aumentato di 1/3, a $1,65 trilioni, grazie al fortissimo aumento di produttività del settore industriale.
Nel 2010, la Cina contava per il 19,8% del valore aggiunto della manifattura mondiale, gli Usa per il 19,4%, quota calata solo leggermente negli scorsi 3 decenni. L’analisi prevede che fra 5 anni il costo complessivo di produzione per molti prodotti sarà inferiore solo del 10-15% nelle città cinesi della costa rispetto ad alcune aree sindacalmente più deboli nel Sud degli Usa, dove verranno facilmente costruite fabbriche.
Ci sono già fatti che dimostrano il ritorno della produzione negli Usa: … (citati alcuni gruppi)
Il forte vantaggio della Cina nel manifatturiero sta diminuendo velocemente a causa di: crescita dei salari cinesi, aumento della produttività negli Usa, dollaro più debole, e una serie di altri fattori, che sta riducendo il divario dei costi di produzione tra Cina e Usa, per diverse merci consumate in Nord America. Entro il 2015 per molte merci la produzione in alcune aree Usa sarà economica come in Cina.
– 1. i salari medi cinesi sono aumentati del 150% nel 1999-2006, nel 2000-2005 salari e benefit sono aumentati mediamente del 10% l’anno, e nel 2005-2010 del 19% l’anno, mentre il costo complessivo dei salariati Usa è aumentato solo del 4%, anche grazie a sindacati accomodanti (Citi).
Nel 2010 Foxconn International, 920 000 salariati solo in Cina, dopo forti scioperi e un’ondata di suicidi, ha raddoppiato i salari nell’enorme sito di Shenzen; in una fabbrica che rifornisce Honda con la lotta i lavoratori hanno ottenuto un aumento salariale del 47%. I salari minimi sono aumentati più del 20% in 20 regioni, e del 30% nel Sichuan.
In aumento del 15-20% annuo di salari e benefit nelle fabbriche cinesi, aggiustato con la maggiore produttività dei salariati Usa, faranno diminuire il vantaggio cinese sui salari Usa dal 55% attuale al 39% nel 2015. (anche se il costo del lavoro americano è tra i maggiori del mondo).
Nel delta dello Yangtze, che comprende Shanghai, e che ha la maggiore produzione industriale della Cina e con industrie altamente qualificate, BCC calcola un aumento del 18% medio annuo del costo salariale complessivo.
2. Produttività Con un aumento di circa il 10% l’anno, la produttività cinese potrebbe raggiungere il 40% della produttività Usa nel 2015.
Nell’ultimo decenio la produttività cinese per lavoratore è aumentata del 10% l’anno, 5 volte il ritmo di quella americana, ma anche con un aumento dell’8,5% l’anno, nei prossimi 5 anni la produzione per addetto aumenterà solo della metà rispetto ai salari.
È improbabile che l’aumento dell’automazione in Cina possa modificare l’equazione dei costi.
L’occupazione Usa è calata nello scorso decennio mentre è aumentata la produttività dei beni strumentali, segno della maggiore automazione e di risorse di produzione più efficienti. C’è spazio per la crescita dell’automazione, solo il 10% dei gruppi che potrebbero trarre vantaggio dall’automazione, hanno introdotto robot.
Dalla recessione negli Usa è continuata ad aumentare la domanda di beni capitali, e così anche la quota di reddito dei beni capitali.
Occorre tener conto anche del costo trasporti, dogane, rischi della catena di distribuzione, immobili industriali.
– 3. svalutazione del $ rispetto allo yuan rende gli Usa un’area competitiva per l’industria di esportazione; la forza dello yen giapponese spinge i gruppi giapponesi a spostare le fabbri che dal mercato cinese.
– 4. prospettive positive dal punto di vista energetico, il gas e petrolio da scisti, sfruttabile con le tecniche di fracking; il gas naturale costa ora 3-4 volte di più in Europa che negli Usa.
– 5. Utilizzo delle capacità produttive, in minimo è stato raggiunto nel giugno 2009 con il 67%; nel novembre 2012 è risalita al 785, inferiore alla media dell’80% prima della crisi finanziaria.
– Dal 2000 a oggi, la manifattura statunitense ha perso il 30% dei posti di lavoro e il 23% (fino al 2011) del valore aggiunto,
[1] valori che si iscrivono all’interno di un trend negativo del settore che risale a molto prima;
– la quota della manifattura nel valore aggiunto prodotto dal settore privato è passata dal 33% della metà degli anni Sessanta a circa il 15% attuale.
– Ma la fine del manifatturiero Made in Usa appare ancora lontana. Si comincia a tracciare un’inversione di tendenza; vi contribuiscono elementi diversi.
– possibile rientro in patria di numerose aziende, che dieci anni fa avevano iniziato a investire massicciamente in Cina; fattore centrale è il costo del lavoro:
– nel 2000 il salario medio cinese era pari a 0,72$ l’ora, 22 volte inferiore rispetto a quello americano;
– nell’ultimo decennio, è salito rapidamente ed è previsto che arrivi nel 2015 a circa 6,31$/h (quello americano a 24,81$/h).
– un costo può sembrare ancora un valore conveniente, ma la produttività cinese nel 2000 era nettamente inferiore a quella statunitense;
– nel 2015 resterà comunque al di sotto del corrispettivo americano (cresciuta a un ritmo maggiore che in precedenza negli ultimi dieci anni – Citi 2013
– Nel 2000 lo scarto salariale giustificava maggiori assunzioni a compensare la differenza di produttività;
– una volta che i salari cominciano a salire, i benefici di mantenere la produzione a livello locale diventano sempre più importanti e l’ago della bilancia pende meno verso l’espansione a est.
– riportare parte della produzione in America dà una serie di benefici:
– la catena del valore è geograficamente più circoscritta, quindi più semplice da gestire e potenzialmente più economica;
– minori i costi logistici e di trasporto;
– maggior controllo sulle varie fasi della realizzazione del prodotto;
– possibile creare un prodotto che risponda velocemente alle variazioni di gusto dei consumatori finali;
– più facile il quadro normativo nazionale e federale.
– Delle oltre 200 aziende intervistate, il 54% – il 3% in più rispetto al 2012 – di quelle con un fatturato superiore a 1 miliardo di dollari starebbe pianificando di riportare la produzione negli Stati Uniti.
– 7 settori per i quali, a partire dai prossimi anni, potrebbe essere conveniente produrre in America: computer ed elettronica, componenti elettriche, macchinari, mobili, metalli, prodotti di plastica e di gomma, produzione legata al settore dei trasporti.
– La dimensione globale rimane però essenziale; la Cina resta un punto di partenza interessante, sia in termini di investimenti in ricerca e sviluppo, sia per la vicinanza con gli utenti finali di un mercato destinato a ospitare un numero sempre maggiore di clienti.
– Occorre inoltre un numero congruo di anni per ammortizzare gli investimenti già fatti.
– Il costo del lavoro in Myanmar è ancora molto basso e le imprese potrebbero decidere di dirottare lì i propri investimenti, ma oltre al costo contenuto del lavoro, il valore aggiunto della Cina è stato determinato dalla presenza di infrastrutture di qualità e dalla forte spinta espansiva del paese, e negli altri paesi asiatici non si intravede un equivalente.
– Due elementi cruciali per il destino della manifattura statunitense:
– la questione energetica. Negli ultimi anni, gli Stati Uniti sono stati in grado di produrre ingenti quantità di energia (shale o tight oil – outlook) che hanno bilanciato la diminuzione delle risorse tradizionali;
– per i settori a forte intensità di energia (come l’alluminio) diventa conveniente localizzare la produzione negli Stati Uniti.
– l’avanzamento tecnologico (stampa in 3D) che prevede una progressiva meccanizzazione dei processi di produzione, che nel prossimo futuro richiederanno quindi un minor numero di lavoratori, e sempre più specializzati; cruciali la produttività e qualificazione dei lavoratori.
[1] Il valore aggiunto è il prodotto netto di un settore, ottenuto sommando tutti i prodotti e sottraendo quelli intermedi, senza detrazioni per l’ammortamento dei beni fabbricati o l’esaurimento e degrado delle risorse naturali.
Employment, Hours, and Earnings from the Current Employment Statistics survey (National)
Series Id: CES3000000001
Seasonally Adjusted (Aggiustato stagionalmente)
Super Sector: Manufacturing
NAICS Code: –
Data Type: ALL EMPLOYEES, THOUSANDS (tutti gli addetti, in migliaia)
Il settore manifatturiero Usa ha dovuto affrontare, ciclicamente, minacce esterne, superate sempre con successo:
Giappone, anni Settanta, conquistava spazio nel mercato mondiale grazie a una produzione snella e sostenuta da forti incentivi statali, + Tecnologie avanzate.
Gli Stati Uniti risposero con la Silicon Valley.
Poi Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan negli anni Novanta, manifattura dai ritmi sostenuti; prodotti altamente standardizzati; comparto finanziario in crescita, poi bolla, scoppiata qualche anno dopo.
– Alcuni giganti sono sopravvissuti (LG, Samsung), ma la maggior parte delle aziende si è fermata al livello intermedio, specializzandosi nella fornitura di semilavorati.
Cina, all’inizio degli anni Duemila; sfida complessa: lavoro a bassissimo costo, un mercato interno in vertiginosa espansione, un regime dittatoriale e una moneta dal corso controllato.
Complice lo shale gas e il costo crescente della manodopera cinese, le industrie statunitensi riportano in patria la produzione. Un’inversione di tendenza che ha dei precedenti. Qualità, formazione e flessibilità sono le chiavi del successo.
Rinascita, resurrezione o, semplicemente, ripresa della produzione manifatturiera. Se, in America, della portata del fenomeno si sta ancora discutendo – non solo a livello lessicale -, il consenso attorno alla crescita è ormai consolidato. Il settore, già provato all’inizio del decennio scorso dalla concorrenza cinese, ha scontato pesantemente gli effetti della recente crisi finanziaria. I numeri lo confermano.
Dal 2000 a oggi, la manifattura statunitense ha perso il 30% dei posti di lavoro e il 23% (fino al 2011) del valore aggiunto. Questi valori si iscrivono all’interno di un trend negativo del settore che risale a molto prima. Secondo quanto pubblicato in un rapporto di Citi (qui un articolo estratto), la quota della manifattura nel valore aggiunto prodotto dal settore privato è passata dal 33% della metà degli anni Sessanta a circa il 15% attuale.
Negli ultimi tre decenni, il settore manifatturiero ha dovuto affrontare, ciclicamente, minacce esterne, superate sempre con successo.
In principio fu il Giappone. Durante gli anni Settanta, il paese del Sol Levante conquistava spazio nel mercato mondiale grazie a una produzione snella e sostenuta da forti incentivi statali. Tecnologie avanzate permettevano esportazioni a prezzi competitivi, contribuendo in maniera determinate alla crescita dell’economia. Gli Stati Uniti, in un primo momento spiazzati, risposero con la Silicon Valley, cuore pulsante dell’evoluzione tecnologica e digitale dagli anni Ottanta in poi.
Quella di Hong Kong, Singapore, Corea del Sud e Taiwan negli anni Novanta sembrò una miscela vincente: una manifattura dai ritmi sostenuti produceva prodotti altamente standardizzati con una buona dose di copiacarbone, accompagnandosi a un comparto finanziario che cresceva all’interno di una bolla, destinata a scoppiare qualche anno dopo.
Alcuni giganti sono sopravvissuti (LG, Samsung), ma la maggior parte delle aziende si è fermata al livello intermedio, specializzandosi nella fornitura di semilavorati.
La qualità, la ricerca e la capacità di disegnare o modificare il prodotto a seconda delle necessità del cliente hanno rappresentato in questo caso la chiave di volta – o meglio, di svolta – degli Stati Uniti. Il valore aggiunto del Made in Usa derivava proprio da questi elementi, inclusi in un processo di produzione piuttosto articolato, di cui i semilavorati asiatici erano solo una componente.
Infine la Cina, all’inizio degli anni Duemila, ha concentrato ed espresso larga parte di tutto quello che l’Asia aveva ancora da dire. Questa volta la sfida era esponenzialmente complicata: lavoro a bassissimo costo, un mercato interno in vertiginosa espansione, un regime dittatoriale e una moneta dal corso controllato. Proprio mentre gli Stati Uniti prendevano le misure dell’emigrazione di massa delle imprese oltreoceano, sopraggiungeva la crisi – per la prima volta una minaccia interna – che rischiava di determinare il tracollo definitivo della manifattura nel paese.
Stando agli ultimi dati (Bloomberg) la fine del manifatturiero Made in Usa appare ancora lontana. Si comincia a tracciare un’inversione di tendenza, cui contribuiscono elementi diversi. Il primo riguarda certamente il possibile rientro in patria di numerose aziende, che dieci anni fa avevano iniziato a investire massicciamente in Cina.
Termine centrale di questo discorso è il costo del lavoro. Come rivela il rapporto del Boston Consulting Group (Bcg), nel 2000 il salario medio cinese era pari a 0.72$ l’ora, 22 volte inferiore rispetto a quello americano. Con l’espansione iperbolica della produzione e del mercato nell’ultima decade, questa cifra è salita rapidamente ed è previsto che arrivi nel 2015 a circa 6.31$/h (quello americano a 24.81$/h). In termini assoluti può sembrare ancora un valore conveniente, ma bisogna considerare un altro fattore chiave.
La produttività cinese nel 2000 era nettamente inferiore a quella statunitense e, anche se destinata a crescere, nel 2015 resterà comunque al di sotto del corrispettivo americano (cresciuto a un ritmo maggiore che in precedenza negli ultimi dieci anni – Citi 2013). Ora, nel 2000 lo scarto salariale giustificava maggiori assunzioni a compensare la differenza di produttività. In poche parole, pur impiegando più lavoratori cinesi per realizzare lo stesso lavoro, il risparmio generato era comunque consistente, dati i bassi costi. Tuttavia, una volta che i salari cominciano a salire, i benefici di mantenere la produzione a livello locale diventano sempre più importanti e l’ago della bilancia pende meno verso l’espansione a est.
Tenere o riportare parte della produzione in America comporta infatti una serie di benefici. In primo luogo, la catena del valore – che rappresenta la struttura delle diverse parti di un’azienda – diventa geograficamente più circoscritta, quindi più semplice da gestire e potenzialmente più economica. I costi logistici e di trasporto si riducono, il che determina un risparmio notevole, visto il prezzo crescente dei carburanti.
Allo stesso tempo, gestire la produzione all’interno del proprio territorio significa da un lato avere maggior controllo sulle varie fasi della realizzazione del prodotto e dall’altro avere la possibilità di creare un prodotto che risponda velocemente alle variazioni di gusto dei consumatori finali. Infine, le aziende saprebbero sicuramente muoversi meglio all’interno del quadro normativo nazionale e federale.
Secondo un sondaggio del Bcg, i numeri di questo rientro sarebbero promettenti. Delle oltre 200 aziende intervistate, il 54% – il 3% in più rispetto al 2012 – di quelle con un fatturato superiore a 1 miliardo di dollari starebbe pianificando di riportare la produzione negli Stati Uniti. La compagnia di consulting ha poi individuato 7 settori per i quali, a partire dai prossimi anni, potrebbe essere conveniente produrre in America: computer ed elettronica, componenti elettriche, macchinari, mobili, metalli, prodotti di plastica e di gomma, produzione legata al settore dei trasporti.
Ci sono dei caveat importanti. Il ritorno della manifattura negli Stati Uniti è da considerarsi graduale (Bloomberg) e non rappresenta in alcun modo la fine dell’epoca della globalizzazione. La dimensione globale rimane essenziale e, in questo contesto, la Cina resta un punto di partenza interessante, sia in termini di investimenti in ricerca e sviluppo, sia per la vicinanza con gli utenti finali di un mercato destinato a ospitare un numero sempre maggiore di clienti. Inoltre, le aziende che hanno puntato sul mercato asiatico dovranno comunque aspettare un numero congruo di anni per poter ammortizzare gli investimenti già fatti.
E se dopo la Cina ci fosse il Bangladesh? Il costo del lavoro in Myanmar è ancora molto basso e le imprese potrebbero decidere di dirottare lì i propri investimenti. A ben vedere, questa ipotesi appare remota, almeno per il momento. Oltre al costo contenuto del lavoro infatti, il valore aggiunto della Cina è stato determinato dalla presenza di infrastrutture di qualità e dalla forte spinta espansiva del paese, che ha favorito gli investimenti esteri. Per ora, negli altri paesi asiatici non si intravede un equivalente.
Al di là del rapporto con la Cina, bisogna considerare ancora due elementi cruciali per il destino della manifattura statunitense. In primo luogo, la questione energetica. Negli ultimi anni, gli Stati Uniti sono stati in grado di produrre ingenti quantità di energia (shale o tight oil – outlook) che hanno bilanciato la diminuzione delle risorse tradizionali. Per i settori che richiedono un uso intenso di energia (come l’alluminio) diventa allora conveniente localizzare la produzione negli Stati Uniti, dove il prezzo dell’elettricità è piuttosto competitivo.
Infine, l’avanzamento tecnologico (stampa in 3D) prevede una progressiva meccanizzazione dei processi di produzione, che nel prossimo futuro richiederanno quindi un minor numero di lavoratori, sempre più specializzati. Diventa allora cruciale il discorso di produttività e qualificazione dei lavoratori, che favorisce ancora una volta il mercato statunitense rispetto a quello asiatico.
A creare un clima favorevole alla produzione interna contribuirà anche l’impegno dell’amministrazione Obama, che a febbraio ha lanciato un programma di incentivi per la manifattura. Quattro i punti sull’agenda: la creazione di una rete di istituti per il rilancio e l’avanzamento della tecnologia manifatturiera, incentivi per rendere il settore più competitivo, attraverso una riforma fiscale, la protezione del mercato statunitense da pratiche di concorrenza sleale.
Il presidente può già vantare di aver generato oltre 500 mila nuovi posti di lavoro negli ultimi tre anni (o forse più?), ma la strada da percorrere è ancora lunga. Se la storia insegna qualcosa, possiamo aspettarci che, anche questa volta, gli Stati Uniti saranno capaci di rilanciare le proprie strutture produttive per affrontare un mercato in costante evoluzione, non senza una buona dose di fierezza e di orgoglio verso quell’etichetta che dice Made in Usa.
Citi GPS: Global Perspectives & Solutions 18 January 2013
by Deane M Dray, CFA
18 January 2013 – Whether it is called re-shoring, on-shoring, or the US manufacturing renaissance, there most certainly has been a notable influx of high-profile capital goods companies investing in US manufacturing facilities in the past several years. While the media has trumpeted this trend as a resurgence of US manufacturing, our analysis indicates that the motivations behind these investment decisions are broad-ranging and more often company-specific. They encompass geo-economic factors, a bullish US energy outlook, supply chain management, tax incentives, more accommodative labor unions, advances in automation, some typical late-cycle demand, and escalating wage inflation in emerging markets that is narrowing the labor cost gap.
When these factors are viewed as a whole, the global implication is that there could be a growing flow of manufacturing activity back onto US shores, tipping the scales to a degree away from the emerging market investment paradigms that have predominated the past decade. The comparative weaknesses that sapped the vitality of US manufacturing in the 1990s have moderated, and what remains is a sector primed for some rebound. The question is whether the US can attain the competitive advantages that would make its manufacturing sector a more attractive investment opportunity than developing markets and China. What are the drivers of the resurgence in US manufacturing?
We believe there are multiple dimensions and factors supporting the reports of a so-called US manufacturing renaissance. These include:
Capital goods investment – In just the past two years, there has been a jump in the number of new manufacturing facilities/ expansions by global industrial companies in the US. The announcement of nearly 30 new or expanded manufacturing facilities being made mostly in traditionally weaker union[e] regions in the southern US illustrates the theme of a global flow of capital into the US sector. These new facilities have not only increased the activities of multinational companies within the US, but have also added thousands of manufacturing jobs in the country. The decline in the US dollar versus the Chinese yuan is likely to increase the attractiveness of the US as a competitive location for export manufacturing, and strength in the Japanese yen is also pushing the decision for Japanese companies to actively shift their facilities away from the Chinese market.
Bullish US energy outlook – Thanks to advances in hydraulic fracturing and drilling techniques, shale gas discoveries in the US have created substantially lower natural gas prices and input costs for energy-intensive processes. As a reference, natural gas now costs 3–4 times more in Europe than it does in the US, thanks to the US domestic shale gas boom. The natural gas boom should benefit companies that have high exposure to the US oil & gas, petrochemicals, steel and fertilizer sectors.
Capacity utilization – After hitting an all-time low of 67% in June of 2009 — effectively an indicator of the health of the manufacturing economy — has experienced a rapid rebound. Its recently recorded value of 78% in November 2012 reflects its continuing upward climb, even though it remains below the average rate of 80% observed prior to the financial crisis, signifying further growth in US factory utilization.
Wage inflation in emerging markets – Many manufacturing decisions are driven by the idea that production has essentially become a commodity to be sourced at the lowest cost. The US remains one of the most expensive countries in terms of labor cost, with hourly wages several times higher than emerging market competitors. However, wage inflation in developing countries like China is beginning to erode their cost advantage, though it will likely be a decade or more before wages in these regions reach the levels of develop country counterparts. Wage inflation has been particularly high in China, with a compound annual growth rate of 14% observed over the past eight years.
Time to market – The drawbacks to an international supply chain — extended supply chains, higher inventory and working capital costs as more goods are in transit and slower delivery times — are not new, and we do not see any factors that will make these detriments more meaningful in the near future. However, these complications and costs are part of the decision-making process as companies develop their global sourcing strategies. Recent natural disasters have encouraged companies to re-think supply chains while oil price increases have led to higher transportation costs that are beginning to outweigh the savings from cheaper labor abroad.
Productivity – Despite changes in economic output profile, the US is still leading the world in terms of manufacturing productivity. When adjusted for inflation, the productivity level of the US labor force is considerably above the global average, and this differential has only widened over time. As developing countries see their labor costs rise from wage inflation, global manufacturers could begin seeking more efficient and productive workers, a trend that could prove advantageous to the US labor pool. Products that require more capital and less labor input can be more effectively manufacturing in an environment like the US, which boasts a large population of educated workers, as opposed to low-skill, but high labor-content tasks like circuit-board assembly, which has been the most exposed to outsourcing.
Automation advances – While US manufacturing jobs have been on the decline over the past decade, productivity of capital equipment has gradually risen, signaling increased automation and more efficient production resources. The Robotic Industries Associates (RIA) estimates that only ~10% of US companies that could benefit from automated production have installed any robots so far, supporting the idea that there is opportunity for continued investments in this space. This notable and broad-based growth in robotic equipment could further increase US manufacturing productivity, though it could come at the expense of manufacturing jobs as more production becomes automated.
Tax incentives – Local tax concessions can play an important role in luring production back to the US. These concessions typically offer a near-term incentive to relocate, but only temporarily offset the higher costs of operation that are incurred in a mature economy like the US. Tax credits could also mitigate the cost of doing business in the US, leading companies to keep their factory production onshore, thereby incentivizing them to invest in US manufacturing.
Potential bumps in the on-shoring road ahead
– One of the biggest impediments to manufacturing investment in the US is that high corporate tax rates limit the profitability of US manufacturing. The US has the second-highest corporate tax rate in the world (behind Japan) at 35%, making domestic operations less attractive than international expansion for corporates. That said, in recent months there has been renewed talk of tax reform to boost US economic growth and employment, including the possibility of lowering the statutory tax rate. In addition, easing the policy of taxing foreign earnings at the US rate upon repatriation would encourage US multi-industry companies to bring cash back to the US, increasing the amount of US-based cash for domestic M&A or capital spending.
The uptick in US manufacturing is a broad-based thematic trend. US demand for capital goods has steadily increased since the recession, and revenues from North America as a percentage of the overall capital goods sector have been steadily rising since its trough in 2009. A shift toward US-based manufacturing would likely accelerate demand for capital goods in the region, benefiting companies that build machinery, process controls, and other automation technologies used in production facilities. The long-term impact of a manufacturing recovery could include a boost to the US economy, as jobs are re-shored and the domestic sector is revitalized; as such, US demand and GDP growth could rise substantially. While the full long-term implications are complex and still unidentified, we believe there could also be a positive read-across for global companies that have high exposure to North America.
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