Nel rompicapo del sommovimento mediorientale, la Turchia si offre come risposta
– La Turchia, divenuta assertiva, a volte arrogante nel mondo arabo, ha spostato l’attenzione della propria politica estera alla questione di Cipro alla questione complessiva degli assetti mediorientali, ha saputo proporsi come sostenitrice del cambiamento delle rivolte arabe, considerata una grande opportunità per il Medio Oriente,
o e ciò mentre gli Usa sembrano in ritirata nel mondo arabo, l’Europa inconcludente, Israele e Iran irresoluti.
– La nuova politica mediorientale della Turchia elaborata dal ministro Esteri Ahmet Davutoglu (teorico del ritorno alla sfera ottomana), una specie di precoce versione di UE per il Medio Oriente, con integrazione economica e coordinamento politico, e un minimo di cooperazione militare.
o Davutoglu ha parlato di un asse Egitto-Turchia, due dei paesi più potenti e popolosi della regione, che ne sosterrebbe un nuovo ordine,
o con Israele marginalizzata fino a che non si rappacificherà con i suoi vicini.
o Oltre alla alleanza con l’Egitto, appoggio alle rivolte, specialmente in Siria, la maggiore sfida per la Turchia.
o La Turchia può contribuire all’integrazione della regione grazie alla propria economia, che ha quasi triplicato l’export dalla salita al potere nel 2002 del partito di Erdogan, Giustizia e Sviluppo.
– L’ambizione del progetto di Davutoglu: “un’appartenenza regionale, non turca, araba, iraniana”, che già si è scontrato con dure realtà regionali:
o crescente crisi sui diritti per l’estrazione del gas al largo di Cipro, ancora divisa tra turchi e greci;
o crollo delle relazioni con Israele dopo l’uccisone di nove turchi della flottiglia che nel 2010 cercò di rompere il blocco a Gaza.
o Il concorrente Iran è irritato per la decisione della Turchia di ospitare una stazione radar per il sistema di difesa missilistica Nato.
o Chiuso il dialogo con i leader siriani.
o Al proprio interno rimane irrisolta la questione curda nel Sud-est.
– L’assurgere di potenza e influenza della Turchia è visto dal nazionalismo turco come ritorno al mondo arabo dominato per oltre 4 secoli.
– Tre le visite simboliche, definite “inizio di una nuova era nella nostra regione” da un giornale filo-governativo turco, del primo ministro turco, Tayyp Erdogan, in settembre: Tunisia, Egitto e Libia,
o dove si è presentato, populisticamente, come leader musulmano di un paese democratico e ricco, che ha dichiarato il proprio sostegno alle rivolte e ai diritti dei palestinesi, questione che risveglia la solidarietà degli arabi.
o Un giornale egiziano ha apprezzato le “qualità di leader” di Erdogan;
– Dopo aver per molto tempo trattato con sufficienza il mondo arabo –Turchia ed Israele erano alleati strategici negli anni Novanta – Ankara ha poi coltivato le relazioni con la Libia di Gheddafi e la Siria di Bashar al-Assad. Oltre 25 000 i lavoratori turchi in Libia, e la Siria era vista come accesso al MO economicamente integrato.
– La Turchia si è opposta all’intervento Nato in Libia; fino al mese scorso ha sperato che Assad potesse guidare una transizione in Siria.
– Egitto: Erdogan ha sì chiesto presto le dimissioni di Mubarak, ma tra i due non c’era un buon rapporto; l’Egitto non vedeva bene la crescita di profilo della Turchia.
– Continua in Turchia il dibattito sugli obiettivi di lungo termine della nuova linea mediorientale:
o i funzionari del partito di Erdogan legati all’islam politico, simpatizzano per i movimenti islamisti che cercano una posizione politica di primo piano, come la Fratellanza musulmana in Egitto e il partito Nahda in Tunisia;
o al contempo rimangono buone le relazioni con gli Usa, anche se qualche funzionario turco teme possano essere guastate dalla crisi con Israele;
o altri pensano che la Turchia finirà col sostituire Israele come alleato degli Usa in Medo Oriente.
L’antico sospetto del mondo arabo verso la Turchia è svanito grazie anche ai serial della TV turca e al carisma di Erdogan, ma alti funzionari riconoscono la possibilità di un contraccolpo in una regione avversa all’intervento straniero; gli islamisti egiziani, colpiti dalla presa di posizione di Erdogan per la laicità dello Stato egiziano, l’hanno avvertito di non interferire negli affari loro.
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La Turchia può avvicinarsi all’Europa rimanendo legata al mondo musulmano? La risposta dipende in gran parte da un uomo: il ministro degli esteri turco, influente accademico e teorico del ritorno alla sfera ottomana.
– In un contesto in cui la sua opinione pubblica è sempre meno favorevole all’adesione all’Unione Europea, la Turchia ha nominato un nuovo ministro degli esteri, un uomo che non proviene dalla politica: Ahmet Davutoglu, un professore universitario di cinquant’anni, diventato prima diplomatico e poi consigliere di politica estera del primo ministro Tayyp Recep Erdogan.
– Davutoglu gode di una certa considerazione tra i politici e gli accademici turchi grazie al suo libro Stratejik Derinlik ("Profondità strategica", 2001), in cui parte dalla valutazione positiva del passato imperiale del paese. Il libro tenta di dimostrare che tale passato non costituisce un peso per la Turchia, ma al contrario un punto di forza per accrescere la sua importanza regionale e mondiale. La concezione geopolitica di Davutoglu – che lui chiama "l’autostima della nazione" e gli altri "neo-ottomanismo" – è uno sforzo intellettuale di fermare il declino in cui a suo parere è caduto il paese a partire dal ventesimo secolo. Nella sua visione la Turchia dovrebbe trarre vantaggio dalla fine della Guerra fredda e della contrapposizione est-ovest, dal suo particolare profilo culturale e politico – uno stato musulmano laico e democratico – e soprattutto dalla sua posizione geo-strategica unica – un ponte tra il mondo occidentale e quello islamico e un passaggio obbligato sulla rotta degli idrocarburi verso l’Europa.
– Il cambiamento al ministero degli affari esteri è un messaggio abbastanza chiaro. Il predecessore di Davutoglu era l’euro-ottimista Ali Babacan; il professore ha invece subito fatto sapere che continuerà la tradizionale politica turca di "nessun problema con i vicini", ma che l’applicherà nel senso di "massima cooperazione con tutti i paesi interessati". Nei fatti si tratta di un cambiamento di paradigma: la Turchia, stanca dei continui tentennamenti di Parigi e di Berlino sul suo ingresso nell’Unione, e assai contrariata dall’adesione di Cipro nel 2004, torna a una politica regionale decisamente più attenta al vicino mondo musulmano (dai Balcani al Medio oriente, entro il raggio del vecchio Impero ottomano).
– Il primo incontro ufficiale da ministro di Davutoglu è stato simbolico: il 4 maggio 2009 ha ricevuto il viceministro degli esteri dell’Azerbaigian. Insieme a Erdogan, Davutoglu sta lavorando per porre fine al conflitto diplomatico con l’Armenia. La durezza nei confronti di Israele ha assicurato alla Turchia un ampio margine di manovra nel mondo musulmano. Ankara ha teso la mano all’Afghanistan e al Pakistan, alla Cina e al Montenegro. Ma il nuovo ministro degli esteri turco ha manifestato il suo interesse per tutti i paesi vicini: Libano, Russia, Romania, Iraq, Georgia, Iran e Siria.
Oggi è difficile per i 72,5 milioni di turchi stabilire se l’idea tradizionale di uno sviluppo laico e filoccidentale è compatibile con la ricerca di un ruolo più importante nella regione e nel mondo musulmano. Ahmet Davutoglu è forse uno dei pochi ad avere le idee chiare. (nv)
September 26, 2011
In Riddle of Mideast Upheaval, Turkey Offers Itself as an Answer
– ISTANBUL — Not so long ago, the foreign policy of Turkey revolved around a single issue: the divided island of Cyprus. These days, its prime minister may be the most popular figure in the Middle East, its foreign minister envisions a new order there and its officials have managed to do what the Obama administration has so far failed to: position themselves firmly on the side of change in the Arab revolts and revolutions.
– No one is ready to declare a Pax Turkana in the Middle East, and indeed, its foreign policy is strewn this year with missteps, crises and gains that feel largely rhetorical. It even lacks enough diplomats. But in an Arab world where the United States seems in retreat, Europe ineffectual and powers like Israel and Iran unsettled and unsure, officials of an assertive, occasionally brash Turkey have offered a vision for what may emerge from turmoil across two continents that has upended decades of assumptions.
Not unexpectedly, the vision’s center is Turkey.
– “Turkey is the only country that has a sense of where things are going, and it has the wind blowing on its sails,” said Soli Ozel, a professor of international relations at Istanbul Bilgi University.
– The country’s foreign policy seized the attention of many in the Middle East and beyond after Prime Minister Recep Tayyip Erdogan’s tour this month of three Arab countries that have witnessed revolutions: Tunisia, Egypt and Libya. Even Mr. Erdogan’s critics were impressed with the symbolism of the trip.
– Though many criticize his streak of authoritarianism at home, the public abroad seemed taken by a prime minister who portrayed himself as the proudly Muslim leader of a democratic and prosperous country that has come out forcefully on the side of revolution and in defense of Palestinian rights.
– One Turkish newspaper, supportive of Mr. Erdogan, called the visits the beginning “of a new era in our region.” An Egyptian columnist praised what he called Mr. Erdogan’s “leadership qualities.” And days later, Foreign Minister Ahmet Davutoglu spoke boldly of an axis between Egypt and Turkey, two of the region’s most populous and militarily powerful countries, that would underpin a new order in the region, one in which Israel would stay on the margins until it made peace with its neighbors.
– “What’s happening in the Middle East is a big opportunity, a golden opportunity,” a senior Turkish official said in Ankara, the capital. He called Turkey “the new kid on the block.”
The trip marked a pivot after what many had viewed as a series of setbacks for a country that, like most of the world, utterly failed to predict the revolts in the region.
– After long treating the Arab world with a measure of disdain — Israel and Turkey were strategic allies in the 1990s — Turkey had spent years cultivating ties with Col. Muammar el-Qaddafi in Libya and President Bashar al-Assad in Syria. More than 25,000 Turks worked in Libya, and Syria was seen as the gateway to Turkey’s ambitions to economically integrate part of the Middle East.
– Even after the uprisings erupted, Turkey opposed NATO’s intervention in Libya. Until last month, it held out hope that Mr. Assad, despite evidence to the contrary, could oversee a transition in Syria.
– Though Mr. Erdogan came out early in demanding that President Hosni Mubarak step down in Egypt — at the very time American officials were trying to devise ways for him to serve out his term — that stance came with little cost. Mr. Mubarak and Mr. Erdogan were not fond of each other, and Egyptian officials resented Turkey’s growing profile.
“The old policy collapsed, and a new policy is required now toward the Middle East,” said Ersin Kalaycioglu, a professor of political science at Sabanci University in Istanbul.
– In an interview, Mr. Davutoglu, viewed by many as the architect of Turkey’s engagement with the region, laid out that new policy. In addition to a proposed alliance with Egypt, he said Turkey would position itself on the side of the revolts, especially in neighboring Syria, which represents Turkey’s biggest challenge. He insisted that Turkey could help integrate the region by virtue of its economy, with its near tripling of exports since Mr. Erdogan’s Justice and Development Party took power in 2002.
– The outline suggested an early version of the European Union[e] for the Middle East — economic integration and political coordination — and Mr. Davutoglu said such an arrangement would eventually require at least a degree of military cooperation.
– “There should be regional ownership,” he said. “Not Turkish, not Arab, not Iranian, but a regional ownership.”
– The vision is admittedly ambitious, and Mr. Davutoglu’s earlier prescription of “zero problems” with neighbors has run up against the hard realities of the region.
o Turkey faces a growing crisis over rights to gas in the sea off Cyprus, still divided between Greek and Turkish regions and still a foreign policy mess for Turkey. Relations with Israel collapsed after Israeli troops killed nine people on board a Turkish flotilla trying to break the blockade of Gaza last year.
– Iran, Turkey’s neighbor to the east and competitor in the region, is bitter over a Turkish decision to accede to American pressure and host a radar station as part of a NATO missile defense system.
– Syrian and Turkish leaders no longer talk with one another.
– But the sense of rising Turkish power and influence is so pronounced in the country these days that it sometimes borders on jingoism. It has touched on the country’s deep current of nationalism, and perhaps a hint of romanticism, harbored by the more religious, for Turkey’s return to an Arab world it ruled for more than four centuries.
– “We’re not out there to recreate the Ottoman Empire, but we are out there to make the most of the influence we have in a region that is embracing our leadership,” said Suat Kiniklioglu, deputy chairman of external affairs for Mr. Erdogan’s party.
– Even those who bristle at what they see as Mr. Erdogan’s arrogance acknowledge that he represents a phenomenon, at home and abroad. He brought his populism to the Arab world, where he displayed an intuitive sense of the resonance that the Palestinian issue still commands, in contrast to American officials who have misunderstood it, failed to appreciate it or tried to wish it away. In speeches, he catered to the West and his domestic critics by embracing a secular state, even as he prayed in suit and tie in Tripoli, the Libyan capital.
– For a region long stirred with anger at seemingly impotent leaders, submissive to American and Israeli demands, Mr. Erdogan came across as independent and forceful.
Cengiz Candar, a Turkish columnist with a résumé in the Arab world dating from the early 1970s, called it Mr. Erdogan’s “animal-like political intuitions.”
He added: “And these intuitions tell him, apart from the emotions, that you’re on the right track. As along as you take these steps, Turkey is consolidating its stature as a regional power more and more and you will be an actor on the international stage.”
– There remains a debate in Turkey over the long-term aims of the engagement. No one doubts that officials with his party — deeply pious, with roots in political Islam — sympathize with Islamist movements seeking to enter mainstream Arab politics, namely the Muslim Brotherhood in Egypt and, more so, the Nahda Party in Tunisia. Mr. Candar calls them “kinsmen.” “They speak a common dialect,” he said.
– But relations remain good with the United States, even if American officials accuse Mr. Erdogan of overconfidence. Some Turkish officials worry that the crisis with Israel will end up hurting the relationship with Washington; others believe that Turkey is bent on supplanting Israel as the junior partner of the United States in the Middle East.
– The bigger challenges seem to be within Turkey. Although Turkey has opened new embassies across Africa and Latin America, its diplomatic staff remains small, and the Foreign Ministry is trying to hire 100 new employees per year. Mr. Kiniklioglu, the party official, estimated that no more than 20 people were devising foreign policy.
– The exuberance of Turkish officials runs the risk of backlash, too. The Arab world’s long-held suspicion toward Turkey has faded, helped by the soft power of popular Turkish television serials and Mr. Erdogan’s appeal. Yet senior officials acknowledge the potential for an Arab backlash in a region long allergic to any hint of foreign intervention. Somewhat reflexively, Egyptian Islamists, piqued last week by Mr. Erdogan’s comments about a secular state, warned him against interfering in their affairs.
And across the spectrum in Turkey, still wrestling with its own Kurdish insurgency in the southeast, critics and admirers acknowledge that the vision of a Turkish-led region, prosperous and stable, remains mostly a fleeting promise amid all the turmoil. “The image is good,” said Mr. Kalaycioglu, the professor. “Whether it’s bearing any fruit is anyone’s guess. Nothing so far seems to be happening beyond that image.”
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