
Non si può dare per scontato che il cessate il fuoco a Gaza e in Cisgiordania entrerà davvero in vigore domenica prossima alle ore 12.15, perché non è da escludere un sabotaggio sionista dell’ultimo momento. Ancora meno scontato è che l’accordo regga. Vedremo. Per ora due sole cose sono certe: 1) si festeggia a Gaza (nonostante la strage continui), non si festeggia in Israele (salvo i parenti dei prigionieri); 2) questa tregua non è l’anticamera della pace, e – tanto meno – di una pace giusta.
Si festeggia a Gaza, a Nablus, a Jenin, a Betlemme, a Hebron, a Ramallah, a Silwan, e in molte altre città dei paesi arabi e islamici fino a Londra ed ancor più lontano. E a ragione, perché era la resistenza palestinese a chiedere da tempo un cessate il fuoco, lo scambio di prigionieri, il ritorno dei profughi nella zona nord della striscia di Gaza, lo sblocco degli aiuti umanitari, il ritiro delle truppe sioniste da Gaza (che non sarà, tuttavia, quello desiderato).
Non è retorica attribuire questo risultato alla “eroica fermezza e perseveranza del popolo palestinese”, al coraggio e alla “forte volontà della resistenza”. “Il diluvio rende gloria”, “Il popolo di Gaza ha onorato il mondo [degli oppressi], ora lasciamo che il mondo [degli oppressi] onori noi”, si grida per le contrade e le strade distrutte di Gaza. Chi può essere così vile da disconoscere che le cose stanno effettivamente in questo modo?
Né le stragi, né la carestia, né il freddo, né le malattie, né i brutali abusi degli invasori hanno piegato la determinazione dei palestinesi di Gaza. Il fatto è questo: con la sua strapotenza militare Israele non è in grado di cancellare la resistenza, anzi la alimenta creando nuove reclute. “Mai prima nella storia del conflitto i combattenti e i civili palestinesi hanno mostrato un tale livello di resistenza”, ha sottolineato David Hearst su Middle East Eye. A suo dire, questo potrebbe essere un punto di svolta storico nella lotta anticoloniale del popolo palestinese perché in 15 mesi di guerra sterminista il suo antagonista, lo stato di Israele, ha subito una “perdita incalcolabile” di credito politico e di immagine non solo nel Sud globale, anche nei paesi occidentali.
In Israele, in effetti, si mastica amaro. Per Israele, il cessate il fuoco per avere indietro i prigionieri del 7 ottobre è uno smacco in quanto non è stato capace di liberarli da sé come aveva promesso. Prova a negarlo su Il Foglio un esponente di spicco del giornalismo sionista, Giuliano Ferrara, sostenendo che “Netanyahu ha vinto la seconda guerra mondiale, che non aveva mai combattuto per la propria esistenza così a lungo e su tanti fronti, (…) pagando costi politici altissimi in particolare sulla linea dell’ideologia umanitaria che ha assediato, con una esplosione di antisionismo e di antisemitismo anche in occidente, la devastante offensiva di Tsahal”. Ma è lui stesso a dissolvere questa rivendicazione di vittoria ammettendo che con la sua devastante offensiva Israele ha solo “comprato tempo”. E tale è il suo “destino”. Quasi che l’unica chance storica di questa macchina di occupazione e distruzione colonialista sia riuscire a durare ancora un po’, sebbene la circondino da tutti i lati popolazioni ostili.
Del resto, è lo stesso giornale a ipotizzare – sulla scia delle posizioni di Smotrich – “una fase due per sradicare Hamas”. Era questo l’obiettivo primario dichiarato dell’azione genocida, o no? Quindi: obiettivo fallito. In un’intervista-verità a Matti Friedman emerge il secondo aspetto del fallimento: non essere riusciti a liberare gli “ostaggi” manu militari. A seguire, il terzo: 15 mesi di guerra hanno stancato l’esercito israeliano, a cui ora serve la tregua: “siamo un esercito di riservisti, sono esausti, hanno famiglia e lavori. Israele può fare una guerra per un tempo limitato”. Per quanto si tenti di oscurarle, le perdite di soldati e ufficiali da parte di Israele sono ingenti, da ultimo nella durissima battaglia di Beit Hanoun. E l’economia è mezzo dissestata dal prolungato ed estremo sforzo bellico. Al passivo ci sono anche “i costi politici altissimi”. Con le franche parole di Matti Friedman: “Israele vive il suo momento più buio. Il credito morale che aveva dopo la Shoah di fatto è scomparso”.
Perfino in Occidente la frottola di Israele solo paese civile in un’oceano di incivili, è difficilmente presentabile. Sicché pure i più incalliti protettori dello stato sionista, a cominciare dai boia di Washington, debbono recitare la parte di quelli che hanno mediato cercando la “pace” lasciando volta a volta alla ultradestra sionista o a Netanyahu il ruolo di irriducibili assertori della guerra ad oltranza – ma badando sempre bene a non delegittimarli.
Per questi motivi la narrazione dei mass media occidentali è centrata sul “grande successo” del duo Biden-Trump presentati al pubblico come i veri artefici di questa tregua da amanti della pace quali sarebbero, laddove sono stati i primi sostenitori del boia Netanyahu, i difensori del diritto al genocidio di Israele in tutte le sedi diplomatiche, mentre il Pentagono è stato il retroterra decisivo delle operazioni dell’esercito sionista, a cui si è più volte affiancato. Questa recita “pacifista”, però, ha il fiato corto, se è vero che Trump ha subito messo in chiaro che farà di tutto per coinvolgere altri stati della regione, anzitutto l’Arabia saudita, nei cosiddetti “accordi di Abramo”, concepiti come la tomba in cui seppellire definitivamente la “questione palestinese”. A sua volta l’Unione europea si è affiancata in tutto e per tutto alla Casa Bianca, sì che ora i suoi singoli paesi, con l’Italia in testa al fianco della Polonia, sono impegnati a garantire a Netanyahu la completa libertà di circolazione – chi se ne frega della sentenza della Corte di giustizia dell’Aja! Il diritto internazionale siamo noi, che abbiamo la forza di sterminare i nostri nemici.
No, questa tregua non è assolutamente la fine della guerra coloniale sionista-occidentale in Medio Oriente tesa a spazzare via dalla loro terra, per sempre, i palestinesi. Netanyahu lo ha appena ribadito. E l’asse Stati Uniti-Europa-Israele, questa volta, non finge neppure di ritirare fuori dal cassetto la promessa, da sempre vuota, di uno “stato palestinese” accanto ad Israele. Al contrario già ci si domanda cosa c’è dietro l’accettazione della tregua da parte di Netanyahu, quali patti segreti con Washington. Circolano varie ipotesi che è prematuro commentare. In ogni caso si può dare per certo che la guerra della macchina di morte israeliana-occidentale al popolo palestinese e alla resistenza palestinese continuerà. E riprenderà forse prima del previsto.
Prevedibilmente riprenderà anche l’attacco israeliano-occidentale a chi nel Medio Oriente ha dato un contributo alla causa palestinese: gli Hezbollah in Libano, Ansar Allah nello Yemen, Harakat Hezbollah al-Nujaba in Iraq. Il fatto che tali movimenti siano scesi in campo fattivamente contro lo Stato sionista, tuttavia, non cancella le loro responsabilità storiche, prima fra tutte la cooperazione di Hezbollah con il regime di Assad nella sanguinosissima repressione della sollevazione popolare del 2011. La ristrutturazione degli assetti di potere in Libano e in Siria permetterà di analizzare meglio il riposizionamento di tali forze. Ma già adesso possiamo affermare che se è vero, com’è vero, che la causa palestinese è la causa di tutti gli oppressi; se è vero che essa potrà vincere solo nel quadro di una rivoluzione d’area capace di aggredire e smantellare, con lo Stato sionista, l’ordine neocoloniale del Medio Oriente, facendo avanzare per tale via la lotta anticapitalistica a scala mondiale; allora la strategia rivoluzionaria per la vittoria di tale rivoluzione deve mettere radicalmente in discussione tutte le “geometrie variabili” a cui il dominio imperialista ci ha abituati. Sostenere l’autodeterminazione palestinese, ma cooperare con i carnefici della sollevazione popolare siriana, non può essere la strada per la vittoria delle masse povere in Palestina o in altre regioni. La storia di ribellione e di lotta del popolo curdo, per non fare che un esempio, è particolarmente ricca di esempi che dimostrano il carattere esiziale di simili alleanze per la causa della rivoluzione democratica e della lotta agli imperialismi che si contendono il Medio Oriente.
Tornando alla tregua in Palestina, essa è un vitale momento di respiro per la popolazione di Gaza, un’occasione per le formazioni della resistenza di riorganizzare le proprie forze, anche grazie ai prigionieri che saranno rilasciati. Ma bisogna tenere presente che la situazione abitativa, sanitaria, dell’istruzione, ecologica a Gaza è catastrofica. E tale resterà per molti anni. Israele vi ha seminato malattie e atroci sofferenze – se tutto finisse qui – per almeno un’intera generazione. Secondo le stime dell’Onu (ferme però ad ottobre) ci sono a Gaza 42 milioni di tonnellate di macerie, e saranno necessari 14 anni per rimuoverle, con costi stratosferici. Sono stati cancellati quasi 200.000 edifici, sotto i quali ci sono migliaia o decine di migliaia di cadaveri e quantità di bombe inesplose. Le strade sono a pezzi, in molti punti cancellate, vanno ricreate. Così le fognature e le condutture delle acque. La sistematica distruzione degli alberi e delle colture praticata dall’esercito sionista è una ferita profonda che non può essere risanata in breve. Altrettanto lo sono le decine di migliaia di bambini orfani, di storpi, di malati cronici, di persone di ogni età devastate nella psiche per gli orrori e le brutalità che hanno dovuto fronteggiare. Ammesso, e assolutamente non concesso, che da domenica cessino del tutto i bombardamenti, per rendere di nuovo Gaza un minimo vivibile, sarebbe necessario uno sforzo titanico.
Israele e l’asse dello sterminismo democratico Usa-UE non possono cantare vittoria, è vero. Ma hanno inferto un colpo terribile all’esistenza e alla riproduzione sociale di questa popolazione. Ulteriori ne stanno preparando. E da avvoltoi mai sazi di carne umana e di guadagni quali sono, si apprestano a controllare, presiedere e lucrare su quel tanto di ricostruzione di Gaza che dovesse realmente esserci. Dobbiamo saperlo, come devono saperlo tutte/i coloro che in Italia e nel mondo hanno sostenuto l’epica battaglia dei guerriglieri e dei civili palestinesi di Gaza e di Cisgiordania. E renderci conto che abbiamo fatto troppo poco in Italia e in Occidente per impedire questo scempio. Per colpire gli interessi materiali e culturali sionisti in Italia e nel mondo. Per coinvolgere le masse lavoratrici nel sostegno alla causa palestinese, facendogli comprendere che è la causa di tutti gli sfruttati e gli oppressi del mondo. Abbiamo fatto troppo poco per intralciare la politica bellicista del governo Meloni. Abbiamo fatto troppo poco per delegittimare e demolire la narrazione sionista, per smontare le menzogne razziste della hasbara dominante nei mass media e nelle scuole.
Anche i militanti anti-imperialisti dei paesi arabi ed islamici sono chiamati a fare un bilancio critico del proprio apporto alla causa palestinese. Perché se è vero che dal 7 ottobre ad oggi le metropoli e un’infinità di città del Medio Oriente si sono riempite di folle sterminate di dimostranti, è innegabile che in Egitto sia stato sostanzialmente rispettato il codardo diktat di al-Sisi di non manifestare per la Palestina. Che in Giordania ci si è fermati sulle linee invalicabili fissate dal reame infeudato agli Stati Uniti. Che in Turchia non è stato smascherato davvero il doppio gioco di Erdogan. Che in Iran si è manifestato a comando delle autorità più che a sostegno dei fratelli di classe palestinesi. E che, in generale, ci si è troppo illusi sul possibile aiuto dai concorrenti dell’Occidente, Cina e Russia, che in questi 15 mesi non hanno modificato di una virgola i propri rapporti economici, politici, diplomatici con lo stato sionista; tutto ciò che hanno saputo fare è provare ad imporre ad Hamas e alle componenti più radicali della resistenza palestinese la riconciliazione con i brutti ceffi dell’Anp.
Più di cinquant’anni fa Ghassan Kanafani, svolgendo un’analisi di classe dei nemici e degli amici della causa palestinese, identificava nella classe operaia, nei contadini e nella masse povere del mondo arabo i primi alleati di una lotta che inquadrava come una lotta rivoluzionaria di area. Aggiornata agli svolgimenti successivi, e depurata da perduranti illusioni su “stati amici” presenti anche in quella mente di grande lucidità, questa visione del carattere internazionale e di classe dello scontro tra lo stato sionista e il popolo palestinese resta più vera che mai. Di nuovo, con un’urgenza e una radicalità che supera quella dei primi anni ‘70, la causa palestinese è la causa di tutte le masse oppresse e sfruttate del mondo. Mentre la “reazione araba”, le borghesie arabe concorrono tutte al soffocamento di questa guerra di liberazione nazionale dall’enorme potenziale sociale – essendo il popolo palestinese il più proletarizzato della terra, in Palestina e nella diaspora.
Ben venga, dunque, la tregua strappata con un terribile prezzo di sangue e di dolore dalla popolazione resistente di Gaza (e della Cisgiordania). Anche per consentirci di mettere a fuoco dove il nostro apporto alla sconfitta dello stato sionista e dei suoi protettori è stato carente. E rafforzarlo.