ITALIA, PROTEZIONISMO
CORRIERE Mer. 22/3/2006
TOMMASO PADOA-SCHIOPPA
Lo spirito di comunità e la difesa dei privilegi
Patriottismo non è chiudere i mercati col
protezionismo, ma permettere l’accesso a merci più economiche riducendo i
prezzi a vantaggio di tutta la collettività.
«Il patriottismo economico va eliminato dagli Stati, ma
ciò è possibile solo se lo si ricostituisce a livello europeo». Me lo dice un
capo d’industria parigino a commento di vicende recenti:
una legge francese
protegge dieci settori industriali da scalate straniere; Bnp-Paribas acquista
Bnl; Électricité de France acquista Edison; Enel concupisce Suez; il suo
governo fonde questa con Gaz de France. Il mio interlocutore ha forti
convinzioni europee, nella linea di Jean Monnet e Jacques Delors. Condivido
il suo auspicio di un patriottismo europeo, ma non lo seguo nel condannare
quello nazionale. Su questo tema proprio il Corriere aveva aperto,
poco più di un anno fa, un ampio dibattito (Tremonti, Scaroni, La Malfa,
Nardozzi, Ostellino, oltre a chi scrive) che, riletto oggi, appare più attuale
di ieri.
In linea generale direi: patriottismo sì, protezionismo no. Spirito di corpo
e ambizione collettiva non sono mali da condannare; se bene instradati, sono
l’indispensabile lievito del successo, anche economico, di ogni comunità, sia
essa regionale, nazionale o europea. Non basta certo il talento di un
imprenditore a creare ricchezza, se tribunali, scuola e servizi pubblici non
funzionano. Non basta certo la guardia di finanza a far pagare le tasse, né i
netturbini a tener pulite le strade. Ma senso civico e buon governo
richiedono un grado di patriottismo. Senza questo è impossibile creare le
condizioni generali che ogni successo richiede, collettivo o individuale. E
perché lo spirito di comunità dovrebbe esprimersi solo nel calcio?
Ma quando il patriottismo ricorre al protezionismo esso sbaglia la scelta
dei mezzi: invece di promuovere il benessere di tutti, crea il privilegio di
alcuni.
A chi giova il protezionismo? Certo non alla generalità di quelli che
giungono con fatica alla fine del mese e preferirebbero, per lo stesso prezzo,
acquistare beni o servizi più abbondanti e migliori.
Si obietta che se quei beni sono importati, chi li produce in Italia perderà il
lavoro. È vero, il protezionismo, almeno per qualche tempo, protegge loro; ma
non la comunità nazionale nel suo insieme, non il sistema economico, non la sua
capacità di competere nel mondo. Moltissimi consumatori sovvenzionano pochi
produttori acquistando beni e servizi più cari di quelli che potrebbero
ottenere altrimenti. Dunque, contrapposizione non tra italiani e
stranieri ma tra italiani e altri italiani. Spetta alla politica, applicata
all’economia, dirimerla.
Che lo Stato soccorra chi perde il lavoro è ormai scritto nel nostro
contratto sociale, un principio che rafforza il senso di appartenenza alla
società e cementa il patriottismo. L’Europa può andare fiera di avere aggiunto
la solidarietà alla pace, alla libertà, alla giustizia nella lista dei valori
perseguiti nel governo della collettività; indica una via agli altri Paesi del
mondo.
Ma il soccorso può prendere diverse forme, più o meno costose in termini di
risorse, più o meno eque in termini sociali; ed è qui che le strade del
patriottismo e del protezionismo si dividono. Il soccorso può tenere
artificiosamente in vita imprese o settori che altrimenti chiuderebbero; oppure
aiutare ad apprendere e trovare un nuovo lavoro, assicurando un sussidio nella
fase di passaggio. Spreco e ingiustizia nel primo caso; vera solidarietà nel
secondo.
Proprio perché privo di giustificazione economica il protezionismo cerca la
giustificazione patriottica. Ma usurpa l’argomento. È patriottismo soccorrere
il bisognoso, non infliggere all’intera economia un costo inutile. È difficile
che una cattiva economia faccia una buona politica.