Rivolta nel Cpr di Gradisca in Friuli. Pestaggi e lacrimogeni contro gli immigrati

Riceviamo dall’Osservatorio repressione e subito rilanciamo la notizia di una rivolta in atto nel CPR di Gradisca d’Isonzo, già tristemente noto alle cronache per le infami condizioni di detenzione, per la morte (il 18 gennaio 2020) dell’immigrato georgiano Vakhtang Enukidze, per il suicidio di un immigrato pakistano nel settembre 2022, per la tentata fuga dal lager, pochi giorni fa, di un giovane tunisino precipitato poi dal tetto di un padiglione e feritosi in modo grave.

Abbiamo solo mutato la parola “migranti” – parola imposta da più di vent’anni dalla mafia degli “studiosi” che fa capo al FMI, al WTO, alla BM, etc., e acriticamente ribiascicata da quasi tutti, purtroppo anche da questi compagni – con la parola immigrati. Per chi voglia saperne qualcosa in più su questa disputa che è solo in apparenza linguistica (la lingua conta!), vedi sotto – (Red.)

Sono giorni di rivolta dentro alle mura del carcere per migranti di Gradisca d’Isonzo, il Cpr in Friuli Venezia-Giulia al confine con la Slovenia, dove sono stipate in vere e proprie gabbie (vedi foto) e in condizioni degradanti decine di persone in attesa di rimpatrio.

Negli ultimi dieci giorni, di fatto ogni notte, si verificano tensioni, proteste, incendi e scontri con le forze dell’ordine. Nonostante cariche, manganellate, pestaggi, spray al peperoncino e lacrimogeni i migranti continuano a denunciare le condizioni inumane a cui sono sottoposti e l’assenza di informazioni sul loro destino.

Nelle ultime ore sono iniziati anche gli arresti e le deportazioni punitive, come a Macomer, in Sardegna, che al pari di Gradisca e via Corelli a Milano ha in comune la gestione, quella della cooperativa sociale Ekene.

Ne parla ai microfoni di Radio Onda d’Urto Teresa Florio, della rete Mai Più Lager – No Cpr. Ascolta o scarica.

Perché chiamarli migranti, se sono emigranti e immigrati?

Migranti, migranti, migranti… questo termine iper-inflazionato non ci piace affatto. Per ragioni molto serie. Eccole. Anche altri termini assai diffusi andrebbero messi in discussione. Perché la lingua conta.

Fino a pochi anni fa si parlava abitualmente di emigrazione immigrazione. Ancora oggi gli italiani che sono stati costretti (e lo sono tuttora, benché in numero inferiore rispetto ad altri periodi) ad andar all’estero a cercare “fortuna” sono detti emigrati o emigranti, e la loro esperienza, emigrazione (v. foto). Questi termini sono invece quasi vietati quando si parla degli attuali emigranti in cammino dall’Africa o dal Medio Oriente verso l’Italia e l’Europa. Loro sono migranti. Punto. Migranti di qua, migranti di là, è sempre più raro sentirli chiamare per ciò che realmente sono: emigrati e immigrati. Gli è stata espropriata la e e poi anche la im.

Come mai?

Chi ne ha decretato l’abolizione?

E che significato ha questo cambio di linguaggio?

La svolta linguistica è il risultato di un lungo lavorìo dei “think thank” (pensatoi) neo-liberisti iniziato alla fine degli anni ’80 per imporre un “nuovo paradigma” delle migrazioni internazionali centrato sulle migrazioni temporanee e circolari – in opposizione al “vecchio paradigma” centrato sul carattere definitivo delle migrazioni. La consacrazione di questo lavorìo è avvenuta nel 2005 quando la Global Commission on International Migration istituita dall’ONU (nel 2003) ha chiuso la sua attività. Da allora in poi una serie di testi della Banca mondiale, della Commissione europea, della WTO, del FMI, dell’OIM (Organizzazione mondiale delle migrazioni), delle associazioni padronali, dei governi occidentali, hanno martellato il seguente mantra: le migrazioni circolari sono la soluzione finalmente trovata per produrre benefici a tutti, ai paesi di origine degli emigranti, ai paesi di destinazione e ai… migranti. La formula truffaldina creata per l’occasione è stata: Win, Win, Win – Triple Win. Guai a chi ne dubita. Come canne al vento, gli studiosi delle migrazioni si sono piegati e, salvo poche eccezioni, hanno riconvertito disciplinatamente il loro linguaggio.

Così dal 2005-2007 in poi è diventato normativo trasformare nel discorso pubblico gli emigranti in migranti. Perché? Perché questa parola bene rispecchia l’obiettivo delle istituzioni internazionali del capitale: trasformare le migrazioni internazionali in migrazioni circolari. Ovvero: trasformare i/le lavoratori/trici immigrati/e in lavoratori circolari, da utilizzare finché servono per poi rispedirli indietro quando non sono più necessari, salvo poterli richiamare all’occorrenza – lavoratori/trici just in time. È un aspetto delle politiche dominanti negli ultimi quattro decenni, che hanno prodotto una violenta coazione sulla forza-lavoro alla “flessibilità”, a subordinarsi incondizionatamente alle esigenze delle imprese e degli stati; un aspetto della svalorizzazione della forza-lavoro e della compressione dei diritti elementari e dei bisogni vitali di quanti/e sono costretti/e ad emigrare. Infatti tutto è la migrazione circolare fuorché una soluzione triple win. È la soluzione ideale (o quasi) soltanto per i paesi che utilizzano la forza di lavoro immigrata, perché ne minimizza i costi d’impiego e ne massimizza i benefici. Più gli immigrati si stanziano nei paesi di immigrazione, più il vantaggio differenziale che dà il ricorso allo sfruttamento della loro forza-lavoro diminuisce. C. Caldwell l’ha confessato: per le imprese e gli stati europei l’ideale sarebbe avere a disposizione solo immigrati “clandestini e di passaggio”. Ma sfortunatamente

«gli immigrati non restano per sempre in quelle condizioni. Una volta inseriti legalmente nel tessuto sociale (…), acquisiscono diritti e aspettative di ogni tipo. Diventano europei e quindi, per definizione, non sono più disposti a fare i lavori che nessun europeo è disposto a fare.».

Dunque: bisogna incentivare la “circolarità” e scoraggiare lo stanziamento. Da qui deriva, tra tante altre cose, il crescente ricorso, ormai quasi-monopolistico, al termine migrante per nominare le nuove immigrazioni. Tagliare quella costituisce una doppia amputazione ai danni dei lavoratori e delle lavoratrici immigranti. Gli anzitutto toglie il luogo, il territorio di partenza, come se essi provenissero dal nulla, da nessun luogo, e non invece da una precisa terra, nazione, continente, da date tradizioni culturali e linguistiche, etc. Ed è chiaro che questa cancellazione delle loro “radici” è un’operazione politicadi classe che serve a inferiorizzare questi lavoratori/trici davanti agli altri e davanti a sé stessi.

La seconda amputazione consiste nel togliere ai lavoratori immigrati anche la im, e cioè la (magra) dignità di essere definiti tali, negando nel discorso pubblico la loro aspirazione a stanziarsi qui in Europa e in Italia (dati i disastri che hanno sconvolto le loro nazioni di nascita). Si nega il loro diritto storico, sociale, materialissimo ad avere qui una nuova terra in cui radicarsi. Li si rappresenta come gente di passaggio ma la realtà passata e presente delle migrazioni internazionali dice, invece, che la grande maggioranza degli emigrati/emigranti non intende affatto essere di passaggio, non è stata, non è di passaggio. Non lo è anche quando, inizialmente, programma di esserlo. Non lo è perché non può esserlo. Il termine della lingua (razzista) di stato ‘migranti’ serve anche a questo: a mettere in discussione, a negare in modo sub-liminale il diritto dei nuovi immigranti a stanziarsi qui “da noi”. Esattamente come il vecchio termine tedesco gastarbeiter, lavoratore temporaneamente ospite, o il guest worker proprio di alcuni programmi statunitensi. Senonché anche in Germania, i lavoratori immigrati nel secondo dopoguerra non hanno accettato di farsi dare una pedata nel sedere e tornare zitti e muti a “casa loro” dopo aver prodotto il “miracolo economico” del dopoguerra. La gran parte di loro ha messo radici lì, sicché oggi la Germania (il paese della ex-“purezza razziale”) si trova a essere il grande paese più multinazionale e “meticcio” di Europa, con almeno il 25% della propria popolazione che fa uno “sfondo” migratorio.

Le parole, a volte, sono pietre. Questo è un caso. Rifiutandosi di considerarli emigranti-immigrati, gli stati e i mass media intendono cancellare la storia, le ragioni economiche, sociali, politiche della loro emigrazione e insieme le più profonde aspettative, aspirazioni di quanti approdano sul territorio europeo, che non sono quelle di “circolare liberamente” senza mai trovare un posto dove stanziarsi, di andare e venire all’infinito dai loro paesi ai “nostri” e viceversa – questo, almeno per la grande maggioranza di loro. Ancora una volta fa scuola, anche nella lingua, la dottrina economica neo-classica per la quale gli emigranti non sono esseri umani, sono “financial assets” (poste, attività finanziarie), fonti di plusvalore e di rimesse, che non debbono gravare sul welfare dei paesi di “accoglienza”. Quindi, niente ricongiungimenti familiari, niente figli, niente sogni di stanzialità. Circolare, circolare…! Ecco perché noi rifiutiamo il termine migranti: perché rifiutiamo il sogno e la prassi ipercapitalista-ipercolonialista di un’immigrazione just in time a costo zero e zero diritti.

Un’accezione romantica del termine “migranti”?

E tuttavia migrante è un termine assunto e rivendicato con convinzione pure da circuiti di compagni e di militanti attivi contro le politiche di “chiusura delle frontiere” italiane ed europee, ad esempio i collettivi No Border. La logica in cui è assunto è quella dell’esaltazione della “soggettività” degli emigranti. In questa logica le migrazioni sono viste come “il risultato di un gran numero di scelte individuali“, la “somma di innumerevoli storie individuali” (Dal Lago). E la dimensione soggettiva dei processi migratoriè ridotta, in chiave soggettivista, alla “individualità, l’irriducibile signolarità  degli uomini e delle donne che delle migrazioni sono protagonisti” (Mezzadra). È una visione  alquanto romantica delle migrazioni internazionali, molto lontana dalla realtà, che presenta le/gli emigranti come fossero una speciale tipologia di individui, nomadi per vocazione, che lasciano le loro terre di nascita di loro libera volontà, semplicemente perché desiderosi di girare il mondo (senza fermarsi in nessun posto), eterni, instancabili nomadi. Le migrazioni, però, sono qualcosa di molto, molto, molto diverso.

Le migrazioni internazionali sono un fenomeno sociale, storicamente e socialmente determinato. Non a casosi dirigono sempre più da Sud a Nord, dalle zone povere del mondo verso i paesi più ricchi (che sono ormai anche fuori dal perimetro dell’Occidente: i paesi del Golfo, ad esempio). Emigrare è quasi sempre una “scelta” forzata, imposta da macro-fattori che determinano (che non equivale a cancellano) la volontà dei singoli individui. Le disuguaglianze di sviluppo ereditate dal colonialismo, debito estero, guerre, disastri ecologici, la trasformazione capitalistica dell’agricoltura e l’agri-business, etc.: questi fattori potentissimi comandano a decine di milioni di lavoratori e lavoratrici di emigrare in paesi e continenti diversi da quelli di nascita. Certo, i singoli lavoratori e le singole lavoratrici “scelgono” di emigrare, ma è una scelta obbligata perché non hanno, nella quasi totalità dei casi, nessun’altra alternativa preferibile. E quasi sempre, per non dire sempre, la scelta di emigrare è presa in collettivo, si tratti (raramente) della famiglia ristretta, di quella allargata o del clan, oppure del villaggio, etc. Emigrare costa, in tutti i sensi e a tutti i livelli. Per questo ci si pensa infinite volte, insieme, prima di intraprendere il cammino dell’emigrazione, specie in un contesto di frontiere (parzialmente) blindate come l’attuale. Tutte le storie di vita e i documentari girati in questi anni dimostrano le terribili sofferenze dell’emigrazione al giorno d’oggi, sofferenze e sciagure che sono conosciute anche nei paesi di emigrazione, e come! Nessuno/a si sottoporrebbe a queste sofferenze se non fosse costretto/a ad affrontarle da forze più potenti di sé (mercati, stati, relazioni neo-coloniali, etc.). A questa concatenazione di fattori sfugge soltanto un piccolo numero di emigranti privilegiati/e, tali per nascita o per altre circostanze non comuni (l’affiliazione a potenti ong, o alla Chiesa cattolica, per esempio) che possono spianare la strada a un’emigrazione protetta.

Ecco perché è fondata sul vuoto ed è fonte di equivoci la pretesa di poter usare il termine migrante imposto oggi dalle istituzioni internazionali del capitale, in un senso rovesciato. Senza nulla togliere alla “soggettività” degli/delle emigranti che è anzitutto collettiva e si esprime al meglio nelle lotte.

Riquadro

Contro la lingua di stato

Non è solo il termine emigrante da mettere in discussione. Ce ne sono altri, anch’essi forgiati dalla lingua di stato (e di mercato).

Ad esempio: flussi, onde, ondate o, addirittura, sciami migratori, invece che movimenti migratori. I flussi sono “movimenti unidirezionali di materia o di energia” regolati da leggi che sono del tutto indipendenti dai singoli atomi o dalle singole particelle. Lo stesso vale per le onde (o le ondate): masse di acqua che alternativamente si alzano e si abbassano sul livello di quiete della superficie del mare o di un altro specchio d’acqua per effetto del vento o di altre cause. Gli sciami, poi, sono i folti gruppi di api “operaie” che lasciano un alvere al seguito di una nuova ape regina perché è diventato troppo affollato, per andare a fondarne uno nuovo… Flussi, onde, ondate, sciami sono, insomma, nomi di processi e fenomeni naturalistici, propri della natura non umana, che sono inadeguati ad esprimere processi e fenomeni umani come quelli migratori che, per quanto siano effetto di cause indipendenti dalla volontà dei singoli individui, hanno tra le loro cause anche le aspettative e la volontà di riscatto di intere popolazioni oppresse per secoli dalla dominazione coloniale europea, in particolare delle classi sfruttate di queste popolazioni. E in questo contesto, chiamano in cause anche le decisioni individuali.

Un’altra parola che a noi non piace è badante/badanti. Perché, come le precedenti, è declassificante – in questo caso declassifica una attività estremamente complessa, faticosa e delicata quale è il prendersi cura di persone non auto-sufficienti (anziani, malati) per consentire loro un’esistenza il più possibile dignitosa. Curiosamente (ma non troppo) il termine è stato coniato quando questi compiti di cura sono stati assunti da persone immigrate. Qualifichiamo in modo corretto la loro attività: sono lavoratrici di cura. Sono esagerate tre parole? Allora: curanti, curatrici, non badanti. Curanti lo si dice ancora dei medici; perché non anche di queste lavoratrici che spesso si ammalano per il peso della loro attività di cura (a differenza dei medici di oggi)?

Neppure ci piace il termine clandestino/i in quanto, ricorriamo ancora una volta al vocabolario, significa: fatto di nascosto, di segreto, perché vietato dalla legge. In materia di immigrazione è usato, invece, per indicare la condizione di chi non ha affatto deciso di nascondersi, anzi: vorrebbe uscire allo scoperto, vivere una vita “normale”, in regola, ma non può perché è proprio la legge di stato che glielo impedisce, che lo clandestinizza. L’espressione francese sans papier o l’inglese undocumented sono meno colpevolizzanti, più “oggettivi”, ma fino a un certo punto perché non indicano qual è il soggetto (lo stato) che li tiene senza documenti. Dunque, a rigore, si dovrebbe dire: clandestinizzati o irregolarizzati, e in qualche pubblicazione tedesca abbiamo in effetti trovato il termine corretto: illegalisierte. Non è dunque impossibile adottare una lingua che rispecchi davvero le condizioni sociali per quelle che sono. Basta volerlo davvero.

Né l’elenco dei termini per noi da cassare o da mettere in discussione si ferma qui: “accoglienza“, ad esempio, è un termine inutilizzabile, da mettere sempre tra virgolette, vista la realtà di centri di detenzione o di contenzione a cui si riferisce, tutto fuorché accoglienti. Anche la parola stranieri, ovvia nel campo del diritto (borghese), assai meno ovvia nella lingua di chi, come noi, ritiene che i proletari non hanno patria, e che il vero estraneo minaccioso da combattere è il capitale in mano ai pescecani della “nostra” e di tutte le altre nazionalità.

E dunque: attenti alla lingua che usiamo.

Abbasso la lingua di stato!

P.S.

Anche la parola razza andrebbe discussa attentamente. È banale, per noi, che ci sia una sola specie umana, e speriamo che nessuno/a sia così sciocchino/a da volercelo ricordare solo perché talvolta usiamo il termine razza in modo polemico, dal momento che, ci piaccia o no, a noi non piace affatto, la razza è tuttora una solida realtà sociale, psicologica, ideologica, politica, e “funziona” – tant’è che siamo costretti a combattere frontalmente il razzismo di stato, istituzionale, e a intervenire tra i lavoratori per contrastare la sua presa – oggi piuttosto forte – a livello popolare.