ITALIA, IRAQ, POLITICA
REPUBBLICA Ven. 28/4/2006 CLAUDIA FUSANI
Ottobre dovrebbe
essere la data limite per il disimpegno in Iraq: dovrebbero restare in 600
Minniti: "Il piano di
rientro già nel decreto con cui a giugno il Parlamento dovrà rinnovare le
missioni all´estero, tra cui Bagdad"
La sinistra radicale contraria alla missione mista civile-militare. La neo
senatrice pacifista Pisa: segnare la discontinuità tra le due operazioni
Le “exit strategy” di Polo e Ulivo differiscono poco
nei tempi; entrambi ipotizzano di mantenere una presenza militare di scorta a tecnici
civili.
ROMA – Ottobre. Potrebbero cadere in autunno i
tempi tecnici necessari all´Italia per chiudere Antica Babilonia e ritirare il
contingente militare, 3.300 uomini di tutte le forze armate che dal luglio 2003
hanno presidiato e ricostruito Nassiriya e la regione del Dhi Qar sotto il
comando alleato inglese. Una missione di pace che è costata la vita a 29
militari e sette civili, un bilancio pesante, il terzo per numero di vittime
tra tutti i paesi della coalizione.
La via d´uscita dall´inferno iracheno. Come, quando e, soprattutto, cosa
succederà dopo? E i rapporti con Bush e Blair? E gli aiuti al governo iracheno?
Ieri nessuno nel centro sinistra ha voluto parlare ufficialmente di exit
strategy ma la questione irachena sarà una delle prime a dover essere risolta
dal nuovo governo. «Il piano di rientro sarà affrontato e scandito già nel
decreto con cui a giugno il Parlamento dovrà rinnovare le missioni all´estero
tra cui quella irachena» precisa il diessino Marco Minniti. Uno dei primi
atti del nuovo governo, dunque, come promesso durante i mesi della campagna
elettorale.
Il fatto è che anche l´exit strategy decisa dal centro destra e annunciata a
gennaio dal ministro Antonio Martino non è molto diversa. Almeno nei tempi. Da
settembre dell´anno scorso al prossimo giugno la missione sarà dimezzata: dei
3.300 iniziali, oggi sono impiegati a Nassiriya 2.600 militari che a giugno
saranno "tagliati" di altre mille unità. Poi, come spiegò lo stesso
Martino, «entro la fine del 2006 è prevista la fine della missione e il
contestuale inizio di quella nuova, mista militare e civile».
Ora, spiega un esperto di cose militari del centro-sinistra, «l´Unione,
ammesso anche che voglia accelerare al massimo il rientro, non può
realisticamente chiudere la partita prima della fine dell´estate o dei primi
mesi dell´autunno». In una missione militare all´estero, in un contesto di
rischio e complesso come quello iracheno, «dove fino all´ultimo uomo che resta
laggiù deve essere garantita protezione e copertura logistica e di mezzi», i
tempi tecnici del ritiro «non possono essere compressi più di due mesi». Tempi,
quindi, non troppo differenti rispetto a quelli già decisi dalla Cdl. Lo
stesso Prodi ieri ha detto: «La nostra posizione non è nemmeno lontana da
quella che oggi sta esprimendo il governo italiano quando dichiara di ritirarsi
entro la fine del 2006».
Mese più mese meno, il problema vero non è tanto quando finisce la missione ma
cosa succede un secondo dopo. Un problema soprattutto per le tante anime
dell´Unione. Il programma, da questo punto di vista, è una coperta che
accontenta tutti ma volutamente non chiarisce. A pagine 104 nel capitolo
"Noi e gli altri", nel sotto capitolo dedicato all´Iraq, si legge:
«Se vinceremo le elezioni, immediatamente proporremo al Parlamento italiano il
conseguente rientro dei nostri soldati nei tempi tecnicamente necessari
definendone, anche in consultazione con le autorità irachene, le modalità
affinchè le condizioni di sicurezza siano garantite». E poi la scommessa più
difficile: «Il rientro sarà accompagnato da una forte iniziativa politica in
modo da sostenere nel migliore dei modi la transizione democratica dell´Iraq».
Ieri tutti i leader del centro sinistra hanno rinviato al programma, hanno
promesso che il terrorismo non sposta di una virgola la politica estera del
governo e hanno freddato sul nascere le "speranze" di chi, dopo le
nuove vittime di Nassiriya, ha immaginato un effetto-Zapatero, il ritiro su due
piedi delle truppe italiane.
«Cosa significherà cambiare il profilo della missione da militare a civile
con lo scudo di una piccola aliquota militare, è questione da concordare con il
governo di Bagdad» insiste Minniti. Poco prima di Pasqua una fonte
diplomatica ipotizzò a Repubblica una missione civile (Provincial reconstruction
team) con una scorta di 600 militari, probabilmente carabinieri, per quello che
in gergo è definito il «necessario quadro di sicurezza». Oggi si fa notare che
seicento equivale a due reggimenti, «un numero decisamente al di là delle
inderogabili esigenze di protezione e sicurezza». Silvana Pisa,
diessina, neo senatrice, è una delle parlamentari che hanno dato vita al Forum
dei parlamentari pacifisti. Settembre o novembre, dice, «cambia poco. La
vera questione è separare nettamente le due missioni e come gli iracheni
percepiscono la discontinuità tra la missione militare e quella civile». Le
divisioni nasceranno esattamente in questo punto. «Autodeterminazione del
popolo iracheno» dice la sinistra radicale. «Aiuti, ricostruzioni, missione
mista» insiste l´Ulivo. Ci sarebbe poi il capitolo soldi. Che spesa di bilancio
può ancora sopportare l´Italia per l´Iraq?