Un nuovo capitolo della tragedia siriana (e della guerra mondiale che avanza)

La fulminea presa delle città di Aleppo e Hama da parte della formazione jihadista Hay’at Tahrir al-Sham (HTS, alla lettera: Organizzazione per la liberazione del Levante) ha aperto un’altra fase di caos e di guerra civile nella Siria già straziata da tredici anni di scontri armati e di pesantissime ingerenze delle grandi e medie potenze che se ne contendono il territorio (un territorio strategico) e le risorse.

Si tratti di un’iniziativa presa su spinta della Turchia, oppure sotto la spinta diretta degli Stati Uniti e di altri stati occidentali, o di un mix tra le due, fatto sta che la presa di Aleppo e di Hama (se sono del tutto vere) non potrà che moltiplicare il caos, lo spargimento di sangue e la miseria in una terra già devastata da una guerra di tutti contro tutti in cui, e con cui, è stata soffocata la grande sollevazione popolare del 2011-2012. Una guerra al di sotto, o al di sopra, della quale c’è lo scontro mondiale tra l’asse Stati Uniti-UE-Israele e l’asse Russia-Iran-Cina, con la Turchia attenta a lucrarne gli interessi, ponendosi a seconda dei casi da una parte o dall’altra.

La Siria di oggi

La Siria di oggi è un campo di battaglia sul quale sono presenti più di 20.000 militari e combattenti appartenenti agli eserciti regolari di Stati Uniti, Russia, Turchia, Iran e molteplici milizie, alcune filo-iraniane libanesi, irachene e afghane, altre affiliate invece agli imperialismi occidentali e alla Turchia. All’inizio del 2022 si contavano in Siria 479 basi e postazioni militari straniere: 131 appartenenti alle forze armate iraniane e alle milizie filo-iraniane, 116 a Hezbollah, 114 alla Turchia (e affiliati), 83 alla Russia, le restanti 35 agli Stati Uniti (e affiliati). Non un solo angolo dei confini siriani a nord, a sud, a ovest ed est è interamente sotto il controllo del governo di Damasco, che fino a qualche giorno fa controllava in qualche modo solo il 70% del territorio del paese.

La Siria di oggi è un paese poverissimo, con circa l’80% dei suoi abitanti in povertà (il 55% soffre di insicurezza alimentare, il 67% ha bisogno di un aiuto alimentare); 6 milioni di rifugiati sparsi per il Medio Oriente e il mondo, quasi 7 milioni di sfollati interni (su una popolazione totale, al 2011, di 24 milioni di abitanti); con perdite economiche nell’ultimo decennio pari a 530 miliardi di dollari (il PIL del 2019 era di 21,6 miliardi di dollari, un terzo di quello del 2011); un paese quasi totalmente dipendente dall’estero (Russia e Ucraina) per il fabbisogno di grano; con il 40% delle sue piccole e piccolissime imprese manifatturiere falciate dalla combinazione di guerra civile, crisi della produzione e le criminali sanzioni occidentali; con il valore della lira siriana che in un decennio è precipitato da 45 a 3.500 per 1 dollaro, un’inflazione e un indebitamento estero fuori controllo; una società devastata dalla violenza anche nelle relazioni interpersonali, con tassi record di abusi sessuali, divorzi e poligamia; con le grandi imprese russe e iraniane (Stroytrangaz, Ros Energostroy Levant, Mapna) leste a profittare della catastrofe imponendo, sulla base del cosiddetto partenariato pubblico-privato, contratti di tipo coloniale (quello per la gestione del porto di Tartus ha la durata di 49 anni) e il peggioramento delle condizioni di lavoro nelle miniere di fosfati e nei porti; con le società saudite pronte a fiondarsi come avvoltoi sugli affari della “ricostruzione” non appena ultimata la riappacificazione con Assad, e gli usurai occidentali ad usare le loro sanzioni per dettare contratti strangolatori, e così via.

La grande sollevazione popolare degli anni 2011-2012

A questa tragica situazione si è arrivati per effetto dello schiacciamento nel sangue della grande sollevazione popolare degli anni 2011-2012 da parte del regime di al-Assad (con il supporto decisivo di Russia, Iran e Hezbollah) e della sua frammentazione/degenerazione in senso confessionale e militarista favorite dalle petrolmonarchie del Golfo, dalla Turchia e dalle potenze occidentali.

Nel Dossier collegato a questo articolo, intitolato “Siria: la rivolta popolare stretta tra la brutalità del regime e i gangster della NATO”, chi legge potrà trovare un’analisi più in dettaglio di quei grandi avvenimenti, e della risposta contro-rivoluzionaria combinata dei due poli capitalisti-imperialisti contrapposti, ma uniti nell’obiettivo di impedire alle masse povere della Siria, proletarie, proletarizzate, contadine, di essere protagoniste del proprio destino.

La sollevazione popolare, partita il 15 marzo da Deraa, una città del sud della Siria sul confine con la Giordania, tradizionale roccaforte del partito Baath al potere, prendeva ispirazione dalle altrettanto grandi sollevazioni in Tunisia e in Egitto e dai loro successi nel liberarsi dei rispettivi regimi. La sua spontaneità e la sua ampiezza, specie nelle cinture urbane povere delle grandi città, sono dati fuori discussione. Così come il suo carattere democratico e non-confessionale: la rivendicazione di libertà giustizia sociale ed eguaglianza tra tutti i cittadini, il rispetto di tutte le confessioni religiose, lo slogan all’inizio onnipresente “Uno, uno, uno, il popolo siriano è uno”, ovvero “siamo tutti siriani, siamo tutti uniti”, “né curdi né arabi, i siriani sono uno”, “no al confessionalismo, sì all’unità nazionale”, hanno caratterizzato il primo biennio della sollevazione. All’inizio i toni delle dimostrazioni erano moderati, riformisti, perché ci si aspettava dall’élite dinastica al potere una apertura. Raro era, inizialmente, lo slogan dominante in Tunisia ed Egitto: “Ash’ab iurid isquat al-nizam” (il popolo vuole abbattere il regime). La brutalità prima, la efferata violenza poi, con cui il regime di Assad ha risposto a queste aspirazioni ha radicalizzato la rivolta spingendola allo scontro frontale con esso.

In questo passaggio cruciale la massiccia sollevazione ha mostrato le sue debolezze politiche. I 427 comitati o consigli locali formatisi sull’onda della rivolta, in grande maggioranza dalle caratteristiche popolari ed inclusive, sono stati capaci di darsi un organismo di coordinamento; ma questo è stato incapace di svolgere una funzione di direzione delle lotte e di restare totalmente autonomo dagli organismi di fuoriusciti che hanno preteso di rappresentare il movimento popolare, essendo però totalmente scollegati da esso e in vario grado dipendenti da potenze straniere. Del resto, nel corso di quarant’anni di governo autoritario la famiglia Assad aveva provveduto a desertificare, con la repressione da un lato, con forme di cooptazione dall’altro, il panorama delle forze politiche e sindacali. Particolarmente attivo in questo senso è stato proprio quel Bashar che qualche scervellato continua a ritenere un “leone anti-imperialista” (ma dai!) aprendo le porte della Siria, nel 2005, ad un processo di riforme neo-liberiste che, è noto, tollerano poco o nulla le organizzazioni dei lavoratori.

L’ingresso in Siria di Banca mondiale e FMI, la rapida crescita degli investimenti esteri (passati dai 120 milioni di dollari del 2002 ai 3,5 miliardi del 2011, in prima fila Turchia e petrolmonarchie), la creazione di banche private e compagnie d’assicurazione, la riapertura della borsa di Damasco nel 2009 (dopo 46 anni di chiusura), la liberalizzazione del commercio con l’estero, l’espansione dell’economia privata (anche nell’istruzione, nella sanità, nei mass media) ai danni delle imprese pubbliche e dei servizi pubblici, l’abbattimento delle imposte sui più ricchi dal 63% al 15-27%, hanno prodotto grandi benefici per gli strati borghesi superiori, in particolare per alcune famiglie strettamente legate, anche da vincoli familiari, agli Assad (Makhlouf, Sharabati, al-Akhras, Qalai, Anbouba, Hasan), ma hanno colpito la grande maggioranza dei lavoratori urbani e rurali con l’inflazione, la riduzione dei sussidi statali ai consumi essenziali e all’agricoltura, l’accresciuto dispotismo padronale sui luoghi di lavoro.

Un quadro, insomma, di crescente concentrazione della ricchezza sociale in poche, pochissime mani, a fronte di un processo di impoverimento su larghissima scala. Il colpo di grazia alla pace sociale l’hanno dato i tre anni di siccità (2007-2010) che hanno colpito duro 800.000 contadini e braccianti, molti dei quali costretti ad inurbarsi per ragioni di sopravvivenza. Quando poi è arrivato il carico da novanta dell’aumento dei prezzi del grano coincidente con la crescita delle importazioni agricole e il declino delle entrate petrolifere, l’aria si è fatta satura, ed è bastata una piccola scintilla scoccata a Deraa perché scoppiasse una rivolta di così ampie proporzioni – nel suo insieme diversi milioni di dimostranti, con una forte partecipazione giovanile e anche femminile.  

La classe dirigente siriana, contagiata dalla stessa folle frenesia “neo-liberista” che imperava in Occidente, con in testa il “grande progetto” di fare della Siria un centro fiorente di attività bancarie, turistiche, commerciali, fu colta di sorpresa dalla insorgenza di massa. La risposta del potere baathista è stata articolata e sapiente: ha puntato a rinsaldare i legami con tutti i capi religiosi e i più influenti uomini d’affari, nonché con i capi della comunità palestinese del campo di Yarmouk a Damasco, sotto il controllo del FPLP/Comando generale di Jibril, un fedelissimo da sempre; ha fatto il possibile per tenere in piedi nella capitale la struttura dei servizi sociali e dei dipendenti pubblici, spingendo le popolazioni a spostarsi nelle zone controllate dal governo; ha creato milizie speciali con uno status superiore a quello dei militari dell’esercito. Ma nello stesso tempo, fin dal primo momento, ha fatto ricorso ad una repressione che è poco definire brutale e, come arma sussidiaria, alla deviazione della rivolta in senso confessionale e settario favorendola con la scarcerazione di molti militanti islamisti. Alla fine del 2013 erano caduti sul terreno siriano già 130.000 persone, per lo più appartenenti agli strati sociali insorti. Le 60.000 defezioni dall’esercito, la successiva creazione dell’ESL (Esercito siriano libero) e di un gran numero di piccole e meno piccole formazioni jihadiste anti-regime spesso foraggiate dall’estero ha amplificato la mattanza fino a 500.000 morti (questa la stima fornita da varie associazioni).

A questa carneficina ha messo fine, ci si perdoni il paradosso, l’intervento massiccio russo, iraniano e libanese che ha permesso al regime di Bashar al-Asad di riconquistare nel 2015-2016 buona parte del territorio perduto – il momento di svolta è stato il ritorno delle forze fedeli ad Assad ad Aleppo Est nel dicembre 2016, la sola città di Damasco essendo rimasta sempre stabilmente nelle mani del governo, salvo la cintura esterna (Ghouta). Nel frattempo, però, usando i “buoni argomenti” della lotta al “terrorismo” del cosiddetto “stato islamico” e a quello dei ribelli curdi in Siria, nel paese si sono installati gli eserciti regolari turchi e statunitensi, nonché gli emissari di Qatar, Arabia saudita, Emirati che hanno favorito la proliferazione di gruppi jihadisti capaci di pratiche e di azioni non meno feroci di quelle del regime baathista.

Come si spiega la rapida avanzata di Hay’at Tahrir al-Sham?

Da dove sbuca l’HTS? L’attuale capo di HTS al-Jolani compare ufficialmente sulla scena siriana nel 2011, come inviato dello stato islamico in Irak, poi il 23 gennaio 2012 come fondatore di Jabhat al-Nusra, un gruppo che nasce con un forte proclama anti-occidentale e, al tempo stesso, orridamente confessionale “contro il nemico alawita” e i “suoi agenti sciiti”. Alla sua iniziale impopolarità questa formazione ha reagito moderando in qualche misura la propria ideologia e cercando di radicarsi nella cintura di Damasco. Ma in seguito alla guerra statunitense all’ISIS per la quale gli Stati Uniti hanno messo in piedi una coalizione di 60 stati che ha effettuato sulla città e l’area di Mosul migliaia e migliaia di bombardamenti (per l’85% statunitensi), e in seguito all’offensiva russa-iraniana in territorio siriano, al-Nusra si ritira progressivamente a nord del paese, prendendo il controllo della poverissima zona di Idlib, che amministra con criteri confessionali e nella quale – dopo aver rotto nel 2016 con al-Qaeda e la sua prospettiva di jihadismo globale – riorganizza le proprie forze. La sua nuova linea politica, è sempre meno anti-occidentale e sempre più focalizzata sulla Siria, che ora appare in parte, da Aleppo ad Hama, sotto il suo controllo.

Si fanno due ipotesi su quali potenze siano dietro l’iniziativa di HTS di prendere Aleppo e marciare verso Sud (in entrambi i casi Israele si frega le mani).

Per il momento in cui è stato lanciato l’attacco e per i legami che HTS ha con la Turchia, per alcuni dietro questa marcia militare (niente a che vedere con una rivolta popolare, eh!) c’è la Turchia che cerca di profittare dell’indebolimento della Siria e di Hezbollah, duramente colpito dall’offensiva di Israele, per accrescere la propria influenza nel paese e imporre a Bashar el-Assad la formazione di un governo che tuteli gli interessi turchi.

Per altri, invece, a spingere all’azione HTS e il suo capo Abu Mohammed al-Jolani sono gli Stati Uniti, Israele e alcuni paesi europei (la mente corre, immediatamente, alla Francia, la vecchia potenza coloniale a cui il famigerato accordo Sykes-Picot attribuì nel 1916 il controllo della zona sud-est della Turchia, la parte settentrionale dell’Iraq, la Siria e il Libano). E l’azione sarebbe finalizzata anche a mettere in difficoltà la Turchia, finora accreditata come lo sponsor n. 1 di HTS, nel suo tentativo di riappacificarsi con Assad e tessere buoni rapporti con la Russia. La fonte di questa analisi è il giornale turco Aydinlik, vicino ad Erdogan. Nella stessa direzione vanno le affermazioni ufficiali che arrivano da Damasco e da Teheran, secondo cui la “escalation terroristica” in corso “ha lo scopo di ridisegnare la mappa geografica secondo gli interessi dell’America e dell’Occidente”, ed è “il risultato della presenza degli Stati Uniti in Siria”. Filtrano, inoltre, notizie sulla presenza di droni e relativi istruttori venuti dall’Ucraina.

Un articolo del Wall Street Journal di tre giorni fa a firma Y. Trofimov fa un ritratto benevolo della conversione di al-Jolani da sostenitore della jihad globale diretta anche contro gli Stati Uniti e l’Occidente in un nazionalista siriano di matrice islamista con un’ideologia “più vicina a quella dei Talebani e di Hamas”: “invece della bandiera dell’islam, le truppe dell’HTS [che gli Stati Uniti considerano tuttora un’organizzazione terroristica] hanno scelto di combattere sotto la bandiera siriana appartenente alla repubblica che esisteva prima della rivoluzione guidata dal partito Baath che ha portato al potere la famiglia Assad”. Al momento al-Jolani, la cui famiglia è originaria del Golan, ed è stato per cinque anni in una prigione amerikana in Iraq, è presentato come un elemento divenuto poco ideologico, pragmatico,  imborghesito con gli anni, un amministratore abbastanza efficiente del territorio di Idlib, perfino tollerante verso le altre confessioni religiose e i curdi. L’articolo suona come un accreditamento da parte di Washington, seppur con qualche cauta riserva. Il New York Times di ieri, in un articolo di Hassan Hassan, va oltre, presentando l’HTS addirittura come un “fattore di stabilizzazione” (infatti: 280.000 nuovi sfollati in 4 giorni…), uno degli “attori politici” in grado di riempire il vuoto lasciato da uno “stato fallito” come quello siriano. Non essendo possibile avere in Siria un governo amico capace di governare l’intero paese – la cosa richiederebbe impiego di energie e costi oggi insostenibili -, i paesi occidentali devono, con realismo, accontentarsi di gruppi del genere. Quasi un’investitura, quindi.

Comunque sia, la spiegazione della travolgente avanzata di HTS – se le notizie sono vere – addirittura in direzione di Homs, non sta tanto nella sua forza e, meno ancora, nella sua popolarità, quanto nell’estrema debolezza del regime di Assad che ha riconquistato molto territorio con l’aiuto russo-iraniano, ma non ha certo riconquistato i cuori e le menti della propria popolazione. Al contrario, gli ultimi 7 anni, se hanno visto via via Bashar al-Assad riprendere legittimità nei consessi internazionali (la Lega araba lo ha riammesso con ogni onore nel maggio 2023), non gli hanno consentito invece di ristabilire una egemonia, sia pure passiva, sulla grande maggioranza della popolazione povera e sfollata interna. Questo perché il carattere patrimoniale e corrotto del suo regime si è negli ultimi anni radicalizzato, con un ulteriore allungamento delle distanze tra masse popolari e proletarie alle prese con la miseria, ed élite borghese che nuota nel lusso. L’eccezione rimane Damasco, dove la base sociale di Assad pare ancora ampia e relativamente solida tra i dipendenti dello stato, negli apparati militari e di sicurezza e nei ceti borghesi favoriti dalle riforme neo-liberiste. Il tracollo dell’esercito regolare si spiega con questa situazione ed anche, probabilmente, con il passaggio dall’esercito di leva all’esercito di “volontari” assoldati, deciso negli ultimi anni per cercare di alleggerire la pressione su tutti gli strati della popolazione, reclutando solo tra i più poveri dei poveri. I quali, a stare all’evidenza, non hanno gran voglia di morire per il loro governo e i profittatori di pace e di guerra che tuttora lo sostengono.

Ci pare però molto improbabile che l’avanzata di HTS possa continuare del tutto indisturbata, come pare sia avvenuto finora. Russia, Iran e, forse, la stessa Turchia dovranno reagire, seppure con modalità distinte, al rischio che l’intera Siria cada sotto il controllo di una formazione che appare sotto il patrocinio prevalente statunitense-europeo. E’ probabile che il ritiro delle forze regolari dell’esercito siriano sia tattico, per aver modo di organizzarsi meglio lungo un’ipotetica linea Maginot. Così come è probabile che gli Stati Uniti non resteranno a guardare se dall’Irak e dall’Iran si muoveranno verso la Siria gruppi jihadisti e truppe regolari – anzi, hanno già cominciato i loro bombardamenti demo-libertari. Nuove calamità, nuovi massacri si preparano in questo prolungamento dell’agonia della Siria, di cui non si vede la luce.

La sola via di uscita

“No ad un nuovo Talibanistan in Siria!”, è la presa di posizione dei compagni turchi del SEP, che giustamente e con coraggio denunciano l’ingerenza della Turchia di Erdogan e delle potenze imperialiste occidentali che spingono verso nuovi massacri etnici e settari e preparano nuovi scenari di sangue anche in Libano e Iraq. Tutto giusto: abbasso l’HTS e, a doppio, abbasso i piani imperialisti occidentali, sionisti e turchi volti ad attizzare di nuovo la guerra civile in Siria! Ma non c’è da preferire l’altrettanto sanguinario, anti-proletario, reazionario regime di Assad ed i suoi protettori, in pieno corresponsabili del martirio della popolazione siriana, già precipitata in pieno nella “guerra mondiale a pezzi”.

Per quanto possa apparire improbabile e lontana, c’è una sola via d’uscita, una sola possibilità di pace e di liberazione per le masse sfruttate e oppresse della Siria, che era stata anticipata dalla sollevazione del 2011-2012: insorgere insieme con gli sfruttati e gli oppressi di tutta l’area medio-orientale contro i propri regimi e i loro soprastanti d’Occidente e d’Oriente, raccogliendo l’esempio dell’indomita resistenza palestinese alla macchina di morte sionista. Perché la pace e la liberazione di questa popolazione non potrà essere assicurata da nessuno stato, da nessun protettore “benevolo”. L’apporto che possiamo e dobbiamo dare noi, qui, nel ventre della bestia, è denunciare e contrastare il nostro governo, l’UE, la NATO e le loro mire neo-coloniali in Siria, in Medio Oriente, nel mondo intero!

Giù le mani dalla Siria e dal Medio Oriente, assassini seriali!

Di seguito i link ad alcuni articoli sulla questione siriana pubblicati su pagine Marxiste dal 2014