Verso la due giorni di lotta del 29-30 novembre: il nostro punto di vista – Tendenza internazionalista rivoluzionaria, Laboratorio politico Iskra

La tendenza alla guerra è sempre meno una tendenza e sempre più una realtà concreta. A 1000 giorni dall’inizio della guerra in Ucraina e a più di un anno dall’acuirsi del genocidio in Palestina, l’elezione di Trump ha portato una nuova accelerazione su più fronti alla scala globale. Proprio in questi giorni, la Russia ha testato nuove tecnologie missilistiche in risposta all’utilizzo di armi Nato sul suolo russo. Contemporaneamente, viene emesso un mandato d’arresto da parte della Corte Penale Internazionale nei confronti del criminale sionista Netanyahu. Gli scenari di scontro si aggravano, e rischiano di moltiplicarsi.

Nel corso dell’autunno, si sono sviluppate in Italia numerose mobilitazioni, sia al fianco della resistenza palestinese e libanese che contro la guerra e il DDL 1660. Da più parti, giunge una genuina richiesta di portare queste mobilitazioni all’unità. Una richiesta più che comprensibile da parte delle migliaia di persone che si sono attivate in questi mesi e in quest’anno su queste questioni. Questa richiesta deve fare i conti, però, con la complessità delle vicende in campo, con le contraddizioni reali e profonde sia tra (e dentro) gli organismi che portano avanti queste iniziative, sia tra i rispettivi riferimenti internazionali.

Per essere più duratura di un singolo istante o di un singolo corteo, l’unità delle lotte deve poggiarsi su fondamenta solide: è questa la direzione verso la quale vogliamo andare. In particolare con tutti quegli organismi di classe che sono stati in prima linea nella lotta alle guerre del capitale e contro il governo Meloni.

Rispetto alle giornate del 29 e del 30 novembre e alla mobilitazione contro il DDL 1660 ci sembra indispensabile, perciò, intervenire per fare chiarezza sul dibattito politico in corso. Infatti, se da un lato si è estesa l’agitazione nei confronti del governo, dall’altro è aumentata la confusione riguardo agli orizzonti di questa lotta sociale e politica.

Nella lotta contro il DDL1660 e a sostegno della resistenza palestinese, contro le guerre del capitale, sono emerse impostazioni politiche differenti, tra chi, come noi, vede queste campagne come movimenti “dal basso”, che vanno a scontrarsi con le istituzioni dello Stato (compresi il PD e i suoi alleati di sinistra, che hanno contribuito a produrre i precedenti decreti sicurezza e non sono meno guerrafondai di altri), e chi invece punta a convogliare il movimento verso sbocchi parlamentari-elettorali, e sulla questione palestinese verso mediazioni governative con l’ANP, o verso soluzioni campiste.

Le questioni da trattare sono due, distinte, ma strettamente intrecciate: la solidarietà al popolo palestinese e la mobilitazione contro il DDL 1660 e il governo Meloni, che affrontiamo di seguito.

La solidarietà al popolo palestinese

L’escalation dello stato sionista in Palestina dura oramai da più di un anno, e a partire dal 7 ottobre 2023, ha conosciuto varie fasi: inizialmente la risposta di Israele è stata durissima, con il massacro compiuto su Gaza ridotta a un cumulo di macerie; Israele ha poi successivamente rifiutato ogni possibile accordo di pace, spingendo la popolazione gazawi sempre più a Sud. Nel frattempo, ha cominciato a colpire le forze, per primi gli Hezbollah libanesi, che hanno manifestato, con le loro azioni, una concreta solidarietà al popolo palestinese. In questo anno e più di intensificazione del conflitto tra stato coloniale e popolazione autoctona della Palestina (conflitto che, ricordiamo, dura da 76 anni), il popolo palestinese ha subito violenze di ogni tipo, ma la sua resistenza, nelle varie forme in cui si declina, non si è mai fermata. Ancora oggi, da Gaza alla Cisgiordania fino al sud del Libano, le organizzazioni della resistenza infliggono duri colpi all’esercito israeliano.

Anche la solidarietà internazionale nei confronti della resistenza palestinese ha assunto in questi mesi varie forme, a seconda dell’andamento del conflitto. In una fase iniziale ha avuto un aspetto largamente umanitarista, di condanna dei massacri operati dall’esercito sionista e di sostegno al popolo palestinese in quanto bombardato e invaso. A partire dai primi mesi del 2024, questo genere di sostegno si è andato via via indebolendo in un processo di “normalizzazione del genocidio”, mentre è aumentata la radicalizzazione della lotta al fianco della resistenza palestinese, seguendo 3 assi fondamentali:

– la lotta di liberazione anti-coloniale del popolo palestinese non nasce ora, ma proviene da 76 anni di occupazione;

– la guerra in Palestina fa parte della tendenza alla guerra globale, che inasprisce le forme del dominio imperialistico sulle aree periferiche del sistema;

– Hamas o meno, la resistenza palestinese è una sola, come affermato dalle stesse organizzazioni palestinesi.

In Italia questa fase ha visto in campo iniziative di denuncia e di lotta aperta contro il governo Meloni, la Rai, la Leonardo, la Mekorot, i porti di Genova e Salerno, le complicità delle università italiane con quelle israeliane, culminata nelle giornate di mobilitazione del 23 e del 24 febbraio che hanno visto lo sciopero generale del sindacalismo di base e la manifestazione nazionale a Milano con decine di migliaia di partecipanti quale uno dei momenti più avanzati di questa lotta di solidarietà.

Nel corso di questo processo, come organizzazioni politiche, ed in collegamento con altri gruppi politici, movimenti sociali e sindacali (anzitutto il SI Cobas), abbiamo stretto un legame saldo con le organizzazioni palestinesi che hanno assunto in Italia le posizioni più avanzate e militanti: i Giovani Palestinesi e l’UDAP. Rispetto alle altre, queste due organizzazioni si sono distinte per una critica ferma al legame tra l’imperialismo italiano e lo stato sionista, in particolare dei rapporti commerciali e militari tra loro intessuti; per la rivendicazione integrale della resistenza palestinese allo stato sionista; per l’affermazione del diritto al ritorno per il popolo Palestinese e la fine dello stato sionista come unica possibile soluzione al conflitto e all’occupazione israeliana; per la denuncia senza appello della parola d’ordine fallimentare e truffaldina dei “due popoli, due Stati”; per la costante richiesta di azioni concrete di lotta e boicottaggio degli interessi sionisti in Italia.

Questa linea di condotta, chiara ed esplicita, ha avuto la sua sintesi nella convocazione della manifestazione del 5 ottobre a Roma. Intorno alla decisione di tenere ferma la manifestazione del 5 ottobre nonostante il divieto del governo, alle modalità di convocazione, ai contenuti espressi e alle scaramucce finali con la polizia, è avvenuta una prima divisione politica perché queste realtà sono state giudicate come troppo radicali e difficilmente comprensibili alle nostre latitudini. E non a caso, in alternativa alla manifestazione del giorno 5, si è provveduto ad organizzare il successivo sabato 12, sempre a Roma: una manifestazione con contenuti politici nettamente differenti in quanto improntati al dialogo con il governo Meloni e con le istituzioni europee, storici protettori e complici di tutti i crimini sionisti – privilegiando quella parte delle organizzazioni palestinesi che, sconfessando l’impegno preso, aveva rotto l’unità a seguito del divieto di Piantedosi&Co. Si tratta di chi in Italia rappresenta la cd. “Autorità Nazionale Palestinese”, che è un apparato borghese di collaborazione con lo stato sionista per conto del quale spia, controlla, arresta, consegna al nemico e talvolta uccide i combattenti per la liberazione della Palestina, una collaborazione col nemico sionista che rimanda inevitabilmente ad una collaborazione complementare con gli apparati di potere nostrani. A dimostrazione di ciò, la divisione in atto tra il 5 e il 12 ottobre non si è tenuta dentro assemblee ed incontri, ma è stata poi pubblicizzata a mezzo stampa con tanto di dichiarazioni della questura di Roma circa un confronto aperto con “una parte degli organizzatori” della manifestazione del 5.

Per noi il sostegno alla lotta di liberazione nazionale e sociale delle masse oppresse palestinesi è un dovere internazionalista primario, perché è la macchina di distruzione, di morte e di discriminazione razzista dell’imperialismo italiano e occidentale che opprime i palestinesi in Palestina e nel mondo. Questo sostegno comporta di necessità il confronto diretto con le organizzazioni palestinesi presenti in Palestina e in occidente: si tratta di una forma di rispetto nei confronti di chi subisce direttamente una determinata forma di oppressione – che attuiamo sulla base di una nostra autonoma posizione di principio e politica, ribadita di recente insieme ad altre organizzazioni di diversi paesi del mondo (1). Per questo siamo stati materialmente al fianco delle organizzazioni palestinesi (GPI e Udap, appunto) che hanno finora espresso e sintetizzato al meglio le necessità della lotta di resistenza dei palestinesi in Palestina. Frutto di questo confronto è stata anche la scelta di orientare su 3 fronti la lotta in sostegno alla resistenza palestinese qui: il ricorso allo sciopero per il blocco delle forniture di armi, della produzione bellica e dei flussi commerciali con Israele; la lotta alla complicità mediatica e a quella accademica; la denuncia del governo Meloni.

Solidarietà alla resistenza palestinese o alle “borghesie non-allineate”?

Abbiamo quindi spinto per cercare di saldare le rivendicazioni palestinesi a quelle di chi lotta contro l’imperialismo di “casa propria” in questa fase di enorme spinta alla guerra globale. Per noi questa saldatura sta in due aspetti.

Il primo, l’opposizione complessiva alle guerre del capitale in quanto tali, e in quanto espressione – al fondo – dei conflitti inter-imperialisti tra blocchi contrapposti, e perciò il rifiuto di ogni forma di campismo, aperto o mascherato. Questo elemento è fondamentale perché la soluzione positiva alla lotta di liberazione del popolo palestinese non può venire ad opera di qualche paese “non-allineato” o dalla capacità geopolitica di qualche imperialismo “buono”. Non è successo quest’anno, come non è successo nei 76 anni precedenti (2), né succederà in futuro, perché tutti gli stati che hanno conflitti con gli Stati Uniti, l’UE e la NATO – senza eccezione alcuna – hanno l’unico interesse di inserirsi nella situazione medio-orientale per propri fini economici, strategici, energetici e commerciali: a nessuno di essi interessa realmente la liberazione del popolo palestinese. Del resto, tanto la Cina quanto la Russia, a massacro in corso, hanno esercitato forti pressioni su tutte le forze attive della resistenza palestinese perché si “riappacificassero” con i rappresentanti dell’Anp, ed è stata così perfetta la protezione iraniana verso Hamas da consentire a Israele di ammazzarne il capo Hanyieh proprio a Teheran! Il campismo, aperto o mascherato, è una forma di solidarietà non alla causa della liberazione dei palestinesi ma al rafforzamento del ruolo degli stati capitalistici che giocano sulla pelle dei palestinesi, mentre continuano a fornire a Israele carburante per il genocidio, apparecchi per il controllo dei palestinesi, senza aver fatto neppure per finta la mossa di rompere le relazioni diplomatiche con Israele, per non parlare di quelle economiche! Quanto vale per Russia e Cina vale anche, con un’ovvia differenza di scala, per i regimi arabi legati all’uno o all’altro schieramento imperialistico.

Per noi, l’unica forza che può fermare il massacro dello stato sionista è la strenua resistenza dei palestinesi, che è dell’intera popolazione, non dei soli combattenti, che esiste oggi e durerà fino alla fine dell’occupazione come dura da oltre un secolo, l’aiuto militante delle masse oppresse e sfruttate del mondo arabo e islamico, e la capacità delle organizzazioni anti-capitaliste, in occidente, di inceppare l’ingranaggio bellicista (materiale e propagandistico) dei propri paesi, stimolando sempre più una reale solidarietà internazionalista su basi di classe. Questa non è una mera aspirazione ideale: è l’unico fattore che può ribaltare i rapporti di forza attuali sfavorevoli alla vittoria del popolo palestinese, e fare in modo che i governi occidentali, per timore dei propri conflitti interni, debbano indietreggiare dall’attuale totale sostegno ai piani genocidi di Israele, che nulla potrebbe fare senza avere gli arsenali pieni e le spalle coperte grazie agli Stati Uniti e all’UE. La nostra linea d’azione punta a rafforzare la resistenza e a spingerla oltre la dimensione nazionalista o islamista, cosa possibile solo se riusciremo a spezzare del tutto l’isolamento in cui tuttora si trova.

La lotta contro il DDL 1660

Il secondo aspetto su cui insistiamo è lo stretto legame tra la guerra esterna portata avanti dai paesi imperialisti e dai loro governi, di cui è parte integrante il governo Meloni, e la guerra interna, condotta contro le condizioni di vita e di lavoro della classe lavoratrice, che sta avendo in questi mesi un’accelerazione con l’acuirsi della spinta repressiva nei confronti delle lotte politiche e sociali. Guerra esterna e guerra interna sono indissolubilmente legate: la seconda è funzionale alla prima perché permette la prosecuzione dei piani bellicisti, la crescita della produzione e del commercio di armi e l’attivismo sui fronti di guerra esterni, attuali e potenziali (l’Italia ha decine di missioni militari all’estero, con più di 11.000 soldati). Per un paese votato alla guerra e obbligato perciò ad instaurare una economia di guerra, com’è oggi l’Italia di Meloni&Schlein, c’è bisogno di pace sociale interna, e per far questo, data la situazione economica in cui si trova l’Italia, c’è la necessità di affilare in modo speciale le armi della repressione. È quello che il governo sta facendo con il DDL 1660, motivo per il quale la lotta per fermare questo DDL è diventata, per noi, la lotta principale da portare avanti in questa fase.

Nel mese di luglio, quando il disegno di legge era ancora in discussione alla Camera, insieme con il Movimento di lotta “Disoccupati/e 7 Novembre”, abbiamo lanciato un appello a tutte le realtà e organizzazioni disponibili a battersi contro questa legge liberticida, tracciando le coordinate essenziali del relativo percorso unitario di lotta. Ne è nata, ad inizio settembre, la Rete Libere/i di lottare, che ha dato impulso a questa battaglia sulla base di un Manifesto, elaborato collettivamente, che ha fissato alcune discriminanti fondamentali: ritenere il DDL 1660 non riformabile, né emendabile; essere in modo inequivoco contro le guerre in corso e l’economia di guerra, da cui il DDL nasce; impegnare le proprie forze per lo sviluppo di una mobilitazione unitaria, in autunno e oltre l’autunno, con il ricorso a tutti i mezzi di lotta necessari, inclusi quelli che il DDL 1660 vuole interdire, senza alcuna illusione nelle opposizioni parlamentari. Questa Rete ha subito raccolto una larga adesione di organismi sindacali, sociali, ambientalisti, femministi, contro la repressione, e – tra i primi – l’adesione dei GPI e dell’Udap.

Fin dall’inizio abbiamo insistito sulla necessità di unire le forze perché siamo consapevoli che per fermare davvero il salto di qualità e di quantità della repressione statale incarnato dal DDL 1660 e da altri strumenti legali (il DDL Valditara, il DDL 1004) è assolutamente indispensabile, visto lo stato di debolezza e frammentazione dell’opposizione di classe, costituire un fronte unico delle lotte contro la guerra e il governo Meloni. Il 5 ottobre è stato di fatto il primo banco di prova di questo possibile fronte, in quanto in quella giornata vi è stata una sorta di applicazione preventiva della logica del DDL 1660, ed esattamente per questo il punto più alto di saldatura tra l’opposizione di classe al Ddl sicurezza e la mobilitazione a sostegno della resistenza palestinese, saldatura che si è ulteriormente sviluppata nell’assemblea di Napoli del 27 ottobre. Ma proprio a partire dalla valutazione del giorno 5 ottobre sono emerse prospettive divergenti sia sul movimento di solidarietà al popolo palestinese, sia sulla lotta contro il DDL-sicurezza.

L’iniziativa dell’area Potere al Popolo-Rete dei comunisti

Nelle settimane successive al 5 ottobre, infatti, abbiamo assistito alla manifestazione del 12 ottobre, che si è posta in aperta contrapposizione al 5, su iniziativa di chi ha accettato i divieti di Piantedosi e continua a vedere come principale interlocutore della solidarietà al popolo palestinese gli ambienti legati all’ANP. Si sostiene che la scelta di scendere in piazza in entrambe le giornate è legata alla volontà di mantenere unito il fronte palestinese, ma il comunicato che la Redazione di Contropiano ha fatto il giorno dopo il 5 Ottobre va nella direzione esattamente opposta: legittima il tentativo di dividere le manifestazioni e i manifestanti “buoni” da quelli “cattivi”, i palestinesi “buoni” da quelli “cattivi”, privilegiando nettamente quelli più legati alle istituzioni dello stato italiano.

A seguito di questa giornata c’è stata la convocazione di un’assemblea per il 9 novembre a Roma, chiamata dall’area PaP-Rete dei Comunisti insieme ai referenti della ANP in Italia e a soggetti come l’Arci e le associazioni pacifiste che da sempre sono ostili ad esprimere sostegno alla resistenza.

Non è perciò un caso che nell’appello di convocazione manchi la stessa parola “resistenza”: tutti i colpi sono concentrati sullo stato di Israele fino quasi a presentare l’Italia e l’UE come succubi di Israele, mentre sono i suoi grandi protettori e sponsor, dopo e con gli Stati Uniti. L’Italia è già in guerra a Gaza contro i palestinesi, come lo è sul fronte ucraino contro i proletari ucraini e russi. Il “nostro” governo non è un servo sciocco che non si avvede dei possibili contraccolpi della sua azione, è un attore a pieno titolo della corsa alla guerra, e l’economia di guerra è già in via di instaurazione in Italia. Per questo il governo Meloni dovrebbe essere il primo bersaglio dell’azione contro la guerra qui, ma nell’indizione non lo si nomina neppure (3).

Peraltro, anche al netto delle pur rilevantissime divergenze in atto rispetto alla Palestina e all’interno delle comunità palestinesi e arabe (che qualche promotore dell’assemblea del 9 vorrebbe ipocritamente imputare a una sorta di pianificazione operata dai compagni italiani), nell’assemblea del 9 è stato pressoché assente il tema della “guerra interna” che il governo Meloni sta portando contro i  proletari e contro chiunque osi opporsi alle sue politiche di guerra e macelleria sociale: ci riferiamo non solo all’attacco reazionario che ha nel Ddl 1660 il suo perno centrale, ma anche al Ddl lavoro, alle controriforme di scuola e università, a una finanziaria che prepara nuovi tagli alla spesa sociale e nuove regalie ai padroni. Quel che emerge, quindi, è un oggettivo tentativo di dividere la mobilitazione per la Palestina dal resto delle lotte in corso sul “fronte interno”: un’operazione che va nei fatti nella direzione opposta rispetto al lavoro che come Rete LdL abbiamo portato avanti in questi mesi assieme a GPI ed Udap.

Viene da chiedersi: a chi giova oggi, di fronte a un incrudimento dell’offensiva reazionaria da parte del governo, tenere la questione palestinese sotto una campana di vetro, “al riparo” dal sostegno di quelle forze che si stanno mobilitando nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle università contro un governo complice del genocidio a Gaza? Che senso ha parlare di “escalation” quando siamo già in guerra? Che scopo si prefiggono realmente formule ambigue come quelle richiamate nell’assemblea del 9 sul tenere il “nostro paese” fuori dalla contesa? Perché l’USB, il sindacato di riferimento di questa area, si è rifiutato di scioperare il 29 novembre, uno dei rarissimi giorni in cui entreranno in sciopero – sebbene su piattaforme e prospettive estremamente differenti – sia CGIL e UIL, sia la quasi totalità del sindacalismo di base?

Nonostante questo, abbiamo fatto in modo che la Rete Liberi/e di Lottare intervenisse dentro l’assemblea nazionale del 9 Novembre, convinti che tutti questi aspetti di criticità debbano sempre più essere messi al centro del confronto e del dibattito politico, anche aspro e duro. Nonostante questo, e nonostante che nell’assemblea tenuta dalla Rete LdL il 27 Ottobre a Napoli siano intervenuti liberamente organismi appartenenti anche a questo campo, il nostro intervento è stato ridotto al massimo, interrotto e infine fermato, così come avvenuto nei confronti di GPI e Udap. Il che dà la misura della mancanza di volontà di confrontarsi per davvero con le posizioni differenti, di una condotta incentrata sulla logica “prendere o lasciare”.

Siamo consapevoli che questa linea di condotta non rappresenta la totalità dei compagni di PaP, o che fanno riferimento a PaP, una parte dei/delle quali è stata in piazza il 5 ottobre e ha contribuito alle manifestazioni di questi mesi. Siamo altrettanto consapevoli del fatto che all’interno di quell’area politica esiste una dialettica interna tra posizioni differenti. Ma notiamo, e lo diciamo con la franchezza che ci contraddistingue, che l’operazione politica messa in piedi il 9 novembre, pur essendo condita dal richiamo all’unità, ha finalità tutt’altro che unitarie: non solo perché separa la lotta alla guerra interna da quella alla guerra esterna, ma perché si propone di marginalizzare le forze ritenute più radicali e internazionaliste, nel mentre prova a rimettere in sella e dare centralità a soggetti da sempre legati alla sinistra borghese, il cui peso deriva più dalla loro prossimità politica alle istituzioni e all’opposizione parlamentare, che non da una reale capacità di lotta e di mobilitazione.

Contro il DDL 1660 a braccetto con il “campo largo” del centro sinistra?

Questo nodo del rapporto con le forze istituzionali del “campo largo” si ripropone, ulteriormente aggravato, anche nel caso della Rete “A pieno regime/No DDL sicurezza”, che ha promosso sabato 16 novembre un’assemblea nazionale a Roma rivendicandosi come “prima Rete” nata in Italia contro il DDL 1660 (una rivendicazione che più farlocca di così non potrebbe essere).

Abbiamo guardato comunque anche a questa iniziativa con lo scopo di alimentare un allargamento della mobilitazione, ma prendiamo atto che essa appare sempre più come una passerella elettorale di una nuova alleanza di forze riformiste, capitanata da alcuni settori della CGIL, che vede in AVS il nuovo riferimento politico-elettorale. E questo mina alla radice la possibilità di costruire una autentica mobilitazione libera dalla cappa di una “sinistra” che ha prodotto tanti disastri per i lavoratori e per lo stesso movimento contro la guerra.

Alleanza Verdi e Sinistra è quello stesso cartello elettorale che per bocca di Angelo Bonelli ha etichettato come “disgustosi” i promotori della manifestazione del 5 ottobre a Roma; che è parte del gruppo parlamentare europeo della sedicente “sinistra” al cui interno numerosi membri hanno  votato anche di recente a favore dell’invio di armi a Kiev dirette contro il territorio russo (su tutti l’eroina-pacifinta Carola Rakete, e gli esponenti de La France Insoumise di Mélenchon, per anni presentati come numi tutelari della “vera” sinistra anche da Potere al Popolo). AVS rappresenta dalla sua nascita ed a ogni livello istituzionale la ruota di scorta del PD guerrafondaio, sionista, nonché principale comitato d’affari del grande capitale industriale e finanziario.

Le forze del centro-sinistra sono state negli anni complici o addirittura promotrici delle peggiori leggi repressive oggi in vigore. Il PD è il creatore della Turco-Napolitano e dei centri di detenzione amministrativa per gli immigrati; ha varato con Minniti i decreti con cui è stata normalizzata la deportazione degli immigrati privi di permesso di soggiorno; è l’artefice del Jobs Act e di una lunga stagione di controriforme che hanno garantito ai padroni le forme più spinte di precarietà e di sfruttamento del lavoro salariato; è oggi in prima fila nel sostegno all’Ucraina, a Israele e alla NATO con posizioni forse più oltranziste delle destre al governo nel sostenere i piani di guerra. Partiti come Sinistra Italiana e l’attuale coalizione AVS ne sono complici, sia in quanto parte integrante del governo Conte II, sia in quanto alleati di governo in numerose regioni e città.

Lo stesso dicasi delle dirigenze di CGIL e FIOM, che da decenni fungono da “garanti di ultima istanza della pace sociale” quando al governo c’è il PD, per poi risvegliarsi (in maniera sempre più blanda) solo quando la destra arriva al potere per completare e radicalizzare l’opera dei loro predecessori di centrosinistra. Oltre alle responsabilità storiche sulle quali sarebbe troppo lungo entrare in poche pagine, va detto che il “più grande sindacato del paese” è stato finora completamente fermo e silente rispetto alle conseguenze della guerra sulla classe lavoratrice in Italia, e non ha mosso un dito contro il genocidio a Gaza, in perfetta continuità con i tempi della direzione Cofferati, che definì la guerra coloniale della NATO per fare a pezzi la Jugoslavia una “contingente necessità”.

Vedere nella “rottura del patto sociale” un rischio, come queste forze politiche e sindacali fanno, è paradossale, dal momento che se un patto del genere c’è mai stato, è servito solo ad imbrigliare le forze del movimento operaio e subordinarle sempre più alle esigenze del capitalismo nazionale attraverso l’indottrinamento liberista e la sostanziale pace sociale da molto tempo vigente in Italia. Proprio questa pace sociale, instaurata grazie anche ai sindacati confederali e a tutte le forze del centro-sinistra, ha incoraggiato Meloni&Co. ad andare all’attacco, l’una dopo l’altra, delle libertà, o agibilità, democratiche. Ed è per questo che va rotta!

Una vera lotta contro il DDL 1660 implica perciò la battaglia contro il governo Meloni e contro qualunque ipotesi di ritorno alla “concertazione” con il fronte padronale. Una vera lotta contro il DDL 1660 è tutt’altra cosa dalle manovre a sfondo elettorale della sinistra istituzionale. Basta con il circo che vediamo ogni qual volta c’è al governo la destra, in particolare se della peggior specie come quella attuale, con un po’ di amplificazione mediatica delle lotte sociali e l’espressione verbale di solidarietà verso le lotte o verso chi viene represso dalla polizia. Tutti aspetti che scompaiono quando al potere arrivano gli alleati del centro-sinistra, che sono stati negli scorsi decenni i primi artefici delle politiche lacrime e sangue per la classe lavoratrice e sfruttata.

L’assemblea del giorno 16 Novembre non ha certo espresso la determinazione di aprire una vera lotta contro il DDL 1660, e tanto meno contro la sua causa prima: la tendenza generale alla guerra e la instaurazione dell’economia di guerra. Meno ancora si è sentita in quella assemblea la denuncia del genocidio in corso in Palestina ed una qualsiasi espressione di solidarietà con l’indomita resistenza palestinese. A suggello di questa caratteristica largamente elettoralista dell’assemblea vi è stato il non far intervenire la delegazione della Rete Libere/i di lottare contro il DDL 1660, che avrebbe martellato proprio su questi punti. Cosa del resto naturale, per forze che negli ultimi decenni hanno agito per isolare e chiudere nell’angolo ogni percorso di mobilitazione sociale radicale e di massa.

Per noi intensificare una vera lotta contro il DDL 1660 è invece fondamentale. Quel tanto di allargamento dell’agitazione contro di esso che è avvenuto in questi mesi, ha creato qualche difficoltà al governo. Tra l’altro, sono emerse riserve anche in alcune aree sociali di riferimento delle destre (agricoltori, tassisti), e c’è stato lo sciopero delle camere penali, per quanto silenziato dalla stampa. Sono contraddizioni che stanno dando un po’ di tempo in più alla nostra iniziativa.

Da Napoli (27 ottobre) il rilancio dell’iniziativa per la Palestina e contro il DDL 1660

Comunque sia, il tempo stringe, ed è per questo che nell’assemblea di Napoli della Rete Libere/i di lottare del 27 ottobre, abbiamo rilanciato l’iniziativa proponendo – dal momento che fermare il genocidio a Gaza è di un’urgenza ancor più impellente – di replicare quanto già accaduto nelle giornate del 23-24 febbraio scorso.

L’appello emerso da quell’assemblea, che alleghiamo*, si rivolge a tutte/i coloro che in queste settimane si sono mobilitate/i con lo scopo di mettersi di traverso alla nuova macchina repressiva che il governo Meloni, per esigenze belliche, ha apprestato, invitando a convergere unitariamente in una giornata di mobilitazione. La convocazione da parte delle realtà palestinesi di una mobilitazione nazionale a Roma per il prossimo 30 novembre contro il genocidio a Gaza, la corsa alla guerra e lo stesso DDL 1660, ci dà la possibilità di rimettere in campo una forza unitaria piuttosto consistente; in caso contrario, andrà sprecata anche l’occasione favorevole di interagire con quella vasta area di operai/e e salariati/e che potrà essere coinvolta nello sciopero generale proclamato per il prossimo 29 novembre da CGIL-UIL – nonostante le gravissime responsabilità che questi apparati hanno per la situazione nella quale ci troviamo – e da CUB-SGB su una piattaforma che invece ingloba (anche se marginalmente) il rifiuto del DDL sicurezza.

Dopo questo appello allo sciopero hanno deciso di aderire anche il SI Cobas e altri sindacati di base (ma non l’USB), rafforzando in questo modo la possibilità di fare del 29-30 novembre due grandi giornate di lotta unitaria contro il governo della guerra, il DDL 1660, il genocidio a Gaza.

Per noi questo appello all’unità è un appello alla lotta, a svincolarsi dai lacci posti tanto dalle strutture delle confederazioni sindacali e dalle opposizioni parlamentari complici della corsa verso la guerra e l’intensificazione della repressione, quanto dai particolarismi “identitari”, dai localismi, dal moderatismo e dall’opportunismo diffusi anche in quella che ama definirsi “opposizione di classe”. E’ un appello a riconquistare l’autonomia di classe e a riscoprire l’internazionalismo che riguarda sì le giornate di lotta del 29 e del 30, ma va al di là di esse.

Le differenze che abbiamo fin qui rilevato non sono esclusivamente frutto di divergenze di impostazione politica tra organismi e prospettive di lotta qui in Italia o in occidente, sono lo specchio di uno scontro politico in corso da anni in Palestina (e in tutto il mondo). Gli accordi di Oslo del ‘93 hanno segnato uno spartiacque, politico e anche generazionale, per la resistenza palestinese. Oggi più che mai, è chiaro che chi li ha sostenuti, ponendosi alla guida di presunti governi palestinesi, ha minato la crescita della resistenza come unica possibilità di liberazione nazionale e sociale delle masse oppresse della Palestina. Quello che raccontano soprattutto le nuove generazioni in Palestina è che il ruolo svolto dalla ANP è stato distruttivo, e via via sempre più repressivo, spingendo migliaia di giovani a radicalizzare il proprio impegno politico e resistente necessariamente fuori dal perimetro dell’ANP. Il 7 ottobre è stato uno spartiacque perché ha fatto emergere in superficie questa radicalizzazione, frutto anche dell’impossibilità di sopravvivere a Gaza per l’effetto di oltre 15 anni di assedio spietato. Per cui ora non è più possibile restare nell’ambiguità: o si sta con la resistenza, o la si tradisce; o la si considera l’unica strada per la liberazione del popolo palestinese, o si accreditano la strategia e le tattiche messe in atto da chi ha sostenuto gli accordi di Oslo, di cui ha beneficiato solo l’occupazione sionista. La sola vera solidarietà con la causa palestinese è sviluppare la lotta di classe in Italia e dentro l’occidente, in un processo di liberazione comune dall’imperialismo e dal capitalismo, lungo e difficile, ma l’unico possibile.

La resistenza palestinese ha aperto nuove possibilità per le lotte in tutto il mondo, sollecitando una solidarietà internazionale e, nel sentimento di fondo almeno, internazionalista quale non si vedeva in campo da molti anni. La crisi endemica del modo di produzione capitalista e la crisi dell’egemonia occidentale, sono ulteriori elementi che indicano la necessità sempre più forte di serrare le fila di quanti/e si stanno convincendo che di nuovo, come e più di un secolo fa, l’alternativa è tra la rivoluzione sociale anti-capitalista e la barbarie “civilizzata” del capitalismo in putrefazione. Di fronte agli scenari di guerra diffusa, abbiamo il dovere di intensificare la nostra lotta, mettendo al centro una prospettiva internazionalista, oggi più che mai necessaria. Non c’è spazio per le ambiguità: sarà sempre più importante la lotta contro ogni forma di opportunismo, che sfuma i contrasti tra le classi, ripropone soluzioni intermedie già bruciate dalla storia e nel “migliore” dei casi mette una distanza abissale tra il dire e il fare. È una battaglia politica che riteniamo fondamentale, per uscire dal pantano, per la nascita di un nuovo percorso politico-organizzativo, di una nuova soggettività rivoluzionaria, di classe, internazionalista. Un percorso che deve esprimere una prospettiva chiara anche verso la resistenza palestinese, che è la resistenza di tutti gli oppressi del mondo!

Laboratorio politico Iskra – Tendenza internazionalista rivoluzionaria

(2) Il piano di spartizione della Palestina elaborato dall’ONU nel 1947 e il successivo riconoscimento internazionale di Israele da parte degli Stati imperialisti avvenne con l’aperto sostegno dell’URSS di Stalin al colonialismo sionista, che aveva anche potuto contare su ingenti forniture belliche dalla Cecoslovacchia, armamenti che aiutarono l’opera di pulizia etnica che fece da base alla fondazione dello Stato sionista.

(3) https://contropiano.org/news/politica-news/2024/10/28/il-genocidio-a-gaza-e-lescalation-di-israele-vanno-fermati-il-9-novembre-assemblea-nazionale-a-roma-0176995