Solo il 23 luglio sapremo chi sarà primo ministro del Regno Unito al posto di Teresa May.
A quella data sarà reso noto il referendum postale fra i 160 mila iscritti del Partito conservatore, in cui dovranno scegliere fra i due “finalisti”: Boris Johnson e Jeremy Hunt.
Coetanei (55 anni il primo e 53 il secondo), Hunt è diventato Ministro degli Esteri del Regno Unito in seguito alle dimissioni di Boris Johnson il 9 luglio 2018, è un mediatore, una sorta di fotocopia maschile della May.
Perciò secondo tutti i commentatori il ballottaggio è una formalità, vincerà Johnson, beniamino dei 17 milioni di leavers che il 23 giugno di tre anni fa votarono al referendum per uscire dal Regno Unito, sponsorizzato da Steve Bannon e Donald Trump.
Una prima osservazione va fatta. Il nuovo primo ministro sarà un conservatore perché in base al complicato sistema elettorale questo partito vinse risicatamente le elezioni politiche del giugno 2017, un anno dopo il fatidico Referendum in cui aveva vinto la Brexit. Molti commentatori hanno considerato i risultati delle Elezioni Europee una riconferma della volontà degli inglesi di uscire dall’Europa.
A parte l’aspetto farsesco di un paese che vota per una Istituzione da cui dice di voler uscire quattro mesi dopo, se esaminiamo l’esito vediamo che effettivamente il primo partito risulta essere il Brexit Party di Farage col 30, 53% dei voti, seguito dai Liberal Democratici (19,58%) i Laburisti (13,65%) i Verdi 11,76% e i Conservatori (8,79%).
Per la cronaca alle politiche del 2017 l’Ukip senza Farage aveva preso l’1,8% dei voti, i Conservatori il 42,3% e i Laburisti il 40%. Un bel tonfo per gli ultimi due, certamente una “punizione” da parte degli elettori da un lato per l’incapacità come premier della May, dall’altro per l’ambiguità di Corbin sulla Brexit.
Ma se vogliamo andare alla sostanza in GB per le elezioni europee ha votato solo il 37% degli aventi diritto al voto. Quindi i 5, 249 milioni di voti raccolti da Farage, rispetto ai 46,5 milioni di aventi diritto al voto pesano solo per l’11,9% e sono comunque meno di un terzo di quanti votarono per la Brexit nel 2016 (17 milioni circa).
E che dire del fatto che il futuro della GB debba essere deciso da un Partito, quello conservatore, che nelle ultime europee ha raccolto in realtà il consenso del 3,2% degli elettori??! Effetti perversi della democrazia borghese si potrebbe dire.
Fatte queste riflessioni, la domanda che tutti si pongono è “Uscirà il Regno Unito dalla UE entro il 31 ottobre”?
Hunt l’ha definita una data irrealistica, Johnson la considera irrinunciabile, anche a costo di un no-deal..
I fatti sono questi:
Il Parlamento attuale non ha mai votato l’accordo siglato con la UE da May.
Solo nuove elezioni potrebbero modificare gli equilibri attuali del Parlamento.
Ma visti i dati precedenti nuove elezioni sono viste come fumo negli occhi sia dai conservatori che dai laburisti che rappresentano governo e opposizione nel Parlamento attuale.
Juncker ha dichiarato a nome della UE che non ci sono margini per ulteriori trattative. Naturalmente adesso il Parlamento europeo ha un nuovo assetto, la UE avrà nuovi leaders.
Sia Johnson che Hunt dichiarano che rinegozieranno la questione del confine fra le due Irlande ma anche il cosiddetto “accordo di recesso” (Withdrawal Agreement) previsto per un paese in caso di ritiro dalla UE. Ma niente fa pensare che i nuovi leaders europei, chiunque siano, vorranno rinegoziarli, anche se Johnson è sicuro di poter imporre un nuovo compromesso.
Quindi resterebbe la spada di Damocle dell’Irlanda se non si mette un confine interno si rimane, di fatto, nel mercato unico e si svuota la Brexit, se si rimettono dogane e posti di blocco si può fare la Brexit come concepita dai leavers, ma con il rischio di veder tornare gli attentati terroristici.
Qualcuno ipotizza che Johnson, una volta eletto, proporrà il no-deal, facendo cadere il nuovo governo per andare ad elezioni subito. Infatti potrebbe raccogliere l’offerta di Nigel Farage di fare un patto elettorale per andare a elezioni insieme e realizzare la Brexit con un nuovo mandato, insieme.
L’alleanza, compatibile con il sistema elettorale, fattibile per la convergenza di opinioni dei due presunti alleati, vedrebbe, però, probabilmente Farage stracciare i conservatori, ma Johnson, istrionico narcisista come Farage, potrebbe anche optare per questo rischio.
In ogni caso, anche se il “matrimonio” portasse ad avere in Parlamento i numeri per un no-deal, non risolverebbe il boomerang irlandese.
Quanto ai problemi economici derivanti da un no-deal, Johnson fa l’ipotesi di continuare ad avere scambi commerciali con la UE senza dazi e tariffe mentre viene negoziata una nuova intesa commerciale, “sulla base all’articolo 24 del Gatt”. E’ questa dichiarazione che potrebbe far vincere Johnson fra gli iscritti, anche se gli esperti UE, quelli del WTO, il governatore della Banca d’Inghilterra Mark Carney e l’attuale ministro del Commercio Estero Liam Fox hanno detto che non è possibile.
Commerciare con l’Ue, secondo le regole dell’OMC, penalizzerebbe, comunque, gli esportatori britannici (e il governo dovrebbe sovvenzionarli almeno in parte), ma penalizzerebbe anche quei paesi europei che esportano nel UK (ad es. la Germania per quanto riguarda le auto), quindi forse questo porterebbe la UE a più miti consigli.
Nel caso comunque Johnson riuscisse a traghettare la GB fuori dall’UE, potrà davvero contare sull’alleanza con Trump, che ha ufficialmente esibito il suo “endorsement” durante la sua visita in GB agli inizi di giugno, promettendo “relazioni transatlantiche favolose” in caso di Brexit? Il dubbio è legittimo perché certamente Trump ha interesse a scompigliare ulteriormente lo sgangherato fronte europeo.
A suo tempo individuammo la Brexit come l’obiettivo di alcune frazioni borghesi non come un’alternativa per i lavoratori, il cui crescente disagio dopo la crisi del 2008 è stato cavalcato da Farage, impugnando, da buon populista il tema dell’orgoglio nazionale e la paura verso gli immigrati. In ogni caso pur considerando sia l’IN che l’OUT due schieramenti borghesi, sottolineavamo che la libertà di movimento e la parità di diritti delle persone, dei lavoratori in particolare è uno dei diritti fondamentali da difendere. Lo stesso dicasi per tutta quella legislazione sociale e sindacale migliorativa che è stata introdotta grazie all’appartenenza alla UE. Aspetti che comunque sono difesi in primis dalla capacità di lotta e di autoorganizzazione dei lavoratori stessi e non dai rapporti di forza fra i partiti politici borghesi o dal numero di voti che questi possono raccogliere.