I risultati delle elezioni inglesi del 7 maggio 2015 sono state oggetti di un dibattito in Italia tutto in funzione dell’Italicum e della recente riforma del sistema elettorale in Italia. In realtà i risultati inglesi devono inevitabilmente essere analizzati con due chiavi di lettura: la prima, pragmatica, è quella dei seggi vinti e perduti, quindi dell’assetto di potere dei prossimi cinque anni nel Regno Unito, la seconda quella delle percentuali di voto, che talvolta ha poco a che fare con la prima, ma che è la spia degli orientamenti sociali, politici e locali degli elettori.
Esecutivo stabile ma più contraddizioni
Il sistema maggioritario uninominale inglese, il cosiddetto ‘first-past-the-post’, divide il territorio in 650 circoscrizioni elettorali raggruppate secondo le macro aree storiche : l’Inghilterra con 533 seggi, Scozia con 59, Galles con 40,Irlanda del Nord con 18.
Esso premia i candidati più forti localmente a danno di chi è rappresentato con medie percentuali più basse, ma su tutto in territorio nazionale. Il risultato è che Verdi e Ukip (U.K. Indipendent Party) sono profondamente sottorappresentati nella Camera dei Comuni, i Conservatori incassano il premio di maggioranza, paei al 15%, e i piccoli partiti a base regionale risultano sovrarappresentati.
Un deputato del DUP (Partito Democratico Unionista d’Irlanda) viene eletto mediamente da 23 mila elettori, uno del SNP (Scottish National Party) con 26 mila. I Verdi e l’UKIP hanno un deputato ciascuno pur avendo raccolto i primi circa 1,2 milioni di voti e il secondo 3,88 milioni (per una analisi accurata del voto inglese cfr il sito della BBC).
In particolare nel 2015 il sistema maggioritario ha garantito contro ogni previsione un esecutivo operativo da subito (i conservatori hanno 331 seggi, sopra la maggioranza assoluta che è di 326 seggi), ma rischia di esasperare le contraddizioni. Il conservatore Telegraph sottolinea il sollievo della Borsa e degli ambienti degli affari, che avranno a breve un governo in carica compatto, non di coalizione e quindi senza le temute settimane di contrattazioni fra partiti.
Ma nel contempo c’è molta preoccupazione perché aumenta il rischio secessionista, in primis della Scozia, che attribuisce 56 seggi su 59 allo SNP, lo Scottish National Party, dichiaratamente indipendentista. Inoltre si conferma l’ipotesi del referendum sull’Europa nel 2017, che potrebbe concretizzare il Brexit, l’uscita del UK dall’Europa, come auspica il terzo partito per numero di voti, l’UKIP, ma anche buona parte dei conservatori, oltre a fette significative dell’elettorato di sinistra. Infine il deficit incombe ed è prevedibile che Cameron continuerà sulla strada dei tagli del welfare (si parla di 30 miliardi di sterline in 5 anni), che potrebbero cancellare i piccoli benefici della ripresa economica per ampi strati della popolazione, radicalizzando le proteste. Particolarmente odiosi sembrano i tagli sui disabili e la cosiddetta “bedroom tax”, che stabilisce un taglio ai sussidi per la casa per le famiglie che hanno una stanza in più rispetto alle loro necessità, anche se comprendono un disabile.
Un Regno disunito all’italiana?
Tutti i media hanno sottolineato l’anomalia dell’unico dibattito televisivo precedente le elezioni: nel paese del bipartitismo perfetto sette leaders in corsa. Il “Fatto Quotidiano” si è spinto fino a parlare di “italianizzazione” della politica inglese.
In realtà fin dagli anni ’80 un terzo partito, quello Liberale, raccoglieva circa un quinto della percentuale di voto, e i suoi seggi sono stati necessari per formare il governo Cameron nel 2010.
Oggi quel partito è fortemente ridimensionato al 7,8% dei voti, mentre l’UKIP quadruplica la percentuale del 2010, arrivando al 12,3. Una frammentazione quindi è in atto. Fino al 2005. esclusi i tre partiti maggiori, gli altri partiti non raggiungevano il 2% dei voti. La tendenza si è modificata nel 2010, quando l’UKIP raggiunse il 3,1%. Nella tornata elettorale attuale oltre ai quattro partiti citati, abbiamo lo SNP che balza al 4,7% a livello nazionale e i Verdi che si collocano sul 3,8%.
Questo ragionamento riguarda però solo l’analisi delle intenzioni degli elettori perché sul piano fattuale, dal punto di vista dei seggi, il terzo partito che conta è lo SNP, ma con scarsa possibilità di incidere, salvo proponga un nuovo referendum secessionista; diverso sarebbe stato lo scenario se ci fosse stato il testa a testa fra Labour e Tories.
Un terremoto per gli addetti ai lavori
Una elezione dominata dall’incertezza fino all’ultimo, seguita col cardiopalma dagli addetti ai lavori, ma non dagli elettori. Il cui tasso di partecipazione al voto è stato di poco superiore a quella del 2010 (66,1% dei 46 milioni e mezzo di elettori contro il 65,1 del 2010). Il punto in più a livello nazionale dipende principalmente dalla Scozia (+6,3%), segno del grande interesse con cui la campagna dello SNP è stata seguita.
Non esistono statistiche sulla partecipazione al voto, distinto per età, ma sappiamo che nel 2010 nella fascia 18-24 anni votò solo il 44%; e nelle intenzioni di voto 2015 su cento giovani il 30% era deciso ad astenersi, il 18% deciso a votare, gli altri incerti. Indice comunque di uno scollamento fra politica e elettori maggiore per i giovani. Colpisce che, invece, al referendum secessionista scozzese del 2014 abbia votato l’80% della fascia di età 18-24 anni.
I risultati elettorali, non previsti da nessuno, hanno scatenato un terremoto nell’establishment politico: tre segretari di partito dimissionari (Ed Milliband per i Laburisti, Nick Clegg per i LiberalDemocratici, Nigel Farage per l’UKIP) e una serie di politici di lungo corso, prevalentemente del Labour o dei LiberalDemocratici, rimandati a casa, a favore di giovani alla loro prima prova. E non essendoci il sistema dei resti, come in Italia, la condanna è per ciascuno definitiva. Fra i big licenziati alti papaveri del partito laburista come Ed Balls, tesoriere e portavoce, Douglas Alexander, che ha orchestrato la campagna elettorale, Jim Murphy, leader del labour scozzese. Lo stesso è avvenuto a molti leaders di punta dei Liberal Democratici.
L’analisi della sconfitta dei Liberal Democratici è abbastanza semplice: sono stati cannibalizzati dai Conservatori, di cui erano gli junior partner al governo e sulle cui scelte si sono appiattiti. Il loro è anche un tracollo percentuale significativo.
Più complesso analizzare la sconfitta del Labour, che ha comunque migliorato di poco la sua performance percentuale (+1,5%). Il nodo della sconfitta è che migliora in Galles e Inghilterra, ma è estromesso brutalmente dalla Scozia (-17,7% di voti, 40 seggi persi). Tutto il gruppo Murdoch ha fatto campagna per lo SNP in Scozia, con lo scopo di indebolire il Labour. In Scozia i laburisti si erano impegnati a fondo per far fallire il referendum secessionista e certamente questo ha pesato, ma soprattutto non si sono smarcati con decisione dalla politica di austerity di Camerun. In più sono europeisti convinti, Al contrario lo SNP ha fatto una campagna decisa contro l’austerità praticata dal governo Cameron, per mantenere il Servizio sanitario nazionale, l’istruzione inferiore e università completamente gratuiti. Sono per le energie alternative, fanno opposizione al programma nucleare britannico . Insomma lo SNP ha fatto proprio il programma del Labour com’era prima di Blair, e gli ha scippato il voto dei lavoratori e dei giovani. Se ancora in questa campagna elettorale il Labour ha potuto contare sul sostegno delle Trade Unions, proprio sul terreno dei lavoratori è stato eroso da Ukip e Tories. Puntando a conquistare i voti della classe media centrista, i leader labouristi hanno trascurato il loro elettorato tradizionale, ma non hanno neanche convinto la classe media.
L’Ukip, che si è stabilmente impiantato nel Galles e in Inghilterra (rispettivamente col 13,6 e il 14,1%), in aree precedentemente dominate dai Laburisti, in particolare nei quartieri dove ci sono lavoratori a basso reddito, pensionati o disoccupati, attirati dalla propaganda secondo cui la loro condizione economica migliorerebbe, se si impedisse l’arrivo di altri immigrati o li si escludesse dallo welfare.
Cameron ha conservato di fatto il suo elettorato (+8% percentuale), migliorando però in Inghilterra. Una serie di fattori ha permesso a Cameron di non perdere voti nonostante il taglio sulle spese sociali: prima di tutto una ripresa economica più robusta di quella europea, proprio perché, essendo fuori dall’euro ha avuto più libertà di manovra finanziaria, portando il deficit pubblico al 5% e quello estero al 5,5%. La disoccupazione è ai minimi storici (5,9%). Dai tagli allo welfare sono stati abbastanza protetti i pensionati che, come in tutti i paesi europei, hanno un peso elettorale di tutto rilievo. la politica fiscale è stata “progressiva” con un aumento delle tasse per il 10% più ricco, mentre i lavoratori con salario minimo pagano un terzo delle tasse rispetto al 2010.
Naturalmente c’è stato uno scotto da pagare per i lavoratori: un milione di licenziati dal settore pubblico e una stretta sulle condizioni di lavoro di chi è rimasto; un abbassamento medio dei salari reali (per il meccanismo salari fermi, inflazione che prosegue) e un aumento del numero dei lavoratori a salario minimo (6,7 £ all’ora, pari a 9,2 € lordi, ma le tasse in Inghilterra sono più basse).
La lezione delle elezioni inglesi
Chi da sinistra si attarda a lamentare che il sistema elettorale inglese non è democratico perde tempo. E’ improbabile che il Parlamento a guida Tory cambi le regole che lo hanno avvantaggiato. Nè interessa alla borghesia, per la quale le elezioni sono un modo non violento di trovare un equilibrio fra le componenti borghesi; lo scopo non è “far contare la volontà popolare”, ma di indirizzarla secondo gli interessi di chi nella campagna elettorale investe; campagna nella quale vincono i candidati meglio finanziati che vengono piazzati sul mercato elettorale esattamente come un detersivo. Nel caso attuale, fra l’altro, la democrazia formale vorrebbe che l’Ukip avesse un sacco di seggi, con cui potrebbe appoggiare Cameron, che intende rinegoziare con l’Europa l’accesso al welfare degli immigrati per ridurlo e porre un limite significativo all’accoglienza dei rifugiati. Non un gran guadagno dal punto di vista degli sfruttati.
Più importante è chiedersi quanto amaro sarà il risveglio dei lavoratori scozzesi che oggi vedono nello SNP un baluardo contro la politica neoliberista di Camerun.
Nel gennaio 2015 il governo inglese aveva varato lo Scottish Bill, stabilendo che diventasse legge dopo le elezioni. Esso prevede la cessione al nuovo Parlamento scozzese di una parte delle tasse, ma anche la gestione del welfare; se l’SNP rifiuterà di tagliare lo welfare in Scozia dovrà pagarne la spesa, imponendo tasse in proprio. E’ quindi del tutto prevedibile il ridimensionamento delle promesse dello SNP, sia che decida di negoziare con Cameron, che di proseguire sulla via dell’indipendenza e a pagarne le spese saranno i soliti noti.
In generale si può dire sono i lavoratori che stanno pagando di più la ripresa in Gran Bretagna, ma la ricetta proposta dai due partiti maggiori non era poi così diversa e quindi hanno dato fiducia a chi era già al governo. Dal nostro punto di vista il dato preoccupante è la crescita di appeal da parte dell’UKIP, con la sua ricetta xenofoba, simile a quelle di Marine Le Pen o di un Salvini, tesa a dividere i lavoratori.