L’Asia emergente non vuol essere trattata come l’Africa – Danilo Taino

I paesi asiatici non accolgono bene l’idea di una moratoria sul debito: temono condizionamenti esteri e temono di perdere credibilità per prestiti futuri. Molto più bisognosa di moratorie sul debito è l’AFRICA.LONDRA – Quando, verso la fine degli Anni Novanta, l’Uganda entrò in un programma di parziale moratoria del debito estero, i creditori le chiesero la costituzione di un fondo finalizzato alla lotta alla povertà pari all’ammontare del sollievo finanziario apportato dalla moratoria stessa; e di avere accesso ai libri contabili per controllare l’operazione. «Imposizioni» a fin di bene ma comunque difficili da accettare per qualsiasi governo: altri che dettano le politiche e per di più fanno gli esattori. Sottostare alle condizioni del Club di Parigi (il comitato dei creditori che si occupa dei debiti bilaterali tra nazioni), della Banca Mondiale e del Fondo monetario internazionale non è mai un’esperienza piacevole. Ed è per questo che quelle per la cancellazione o per la moratoria sull’indebitamento sono trattative difficili.
Sarà così anche per i Paesi asiatici: non è detto, anzi, che vogliano affrontare trattative del genere. Ed è probabilmente per questa ragione che, ieri, i Paesi ricchi del G7, tutti in diversa misura creditori, non hanno lanciato un’offerta strutturata di moratoria (cioè di congelamento del pagamento delle rate) ma si sono limitati a dire che non chiederanno i denari dovuti fino a quando Fmi e Banca Mondiale non avranno accertato le esigenze dei Paesi colpiti dalla tragedia del 26 dicembre.
Fino a questo momento, dai Paesi sconvolti dalla catastrofe non sono arrivati applausi calorosi all’idea di moratoria. Un po’ perché il timore di avere qualcuno che mette il naso negli affari interni non è gradito: ieri, per dire qual è il clima, Andrei Macintyre, un professore di relazioni tra Asia e Pacifico alla Australian National University, ha invitato i governi dell’area a leggere bene le clausole scritte in caratteri minuscoli che arrivano assieme agli aiuti, perché, dice, i governi «che danno denaro non sono mai disinteressati». E l’India, che nei giorni scorsi era stata criticata per avere snobbato le offerte di solidarietà, ha fatto sapere di non rifiutarle ma di voler mantenere il controllo delle ampie operazioni che sta conducendo.
Soprattutto, però, India, Indonesia, Thailandia, Malaysia non hanno intenzione di finire nel girone delle nazioni eleggibili alla cancellazione o alla moratoria del debito estero.
Per loro, anzi, onorare gli obblighi finanziari internazionali è un punto fondamentale della strategia finanziaria: sanno che le loro prospettive di sviluppo sono in gran parte legate alla capacità di attrarre investimenti dall’estero e per questo dimostrare affidabilità è essenziale: finire al fianco dei Paesi africani più poveri, per i quali le campagne di cancellazione del debito sono state lanciate, per loro potrebbe essere negativo. Non solo: congelare la restituzione del debito significa appesantire gli obblighi futuri e non rispettare i tempi programmati di rientro, qualcosa che potrebbe spingere le agenzie di rating a declassare i Paesi stessi e quindi a rendere più difficile la loro presenza sui mercati dei capitali.
Non è detto, dunque, che un piano formalizzato di moratoria del debito sia lo strumento migliore per aiutare Paesi che nel ventennio passato hanno fatto passi avanti significativi in campo economico e sociale e non vogliono uscire dal flusso della globalizzazione che ha permesso loro tassi di crescita spesso superiori al 5% annuo. Le campagne che da qualche anno chiedono la cancellazione del debito, d’altra parte, sono riferite ai Paesi più poveri, quelli dell’Africa sub-sahariana, in particolare, per i quali l’onere della restituzione è spesso un peso che impedisce lo sviluppo economico. Ed è qui, semmai, che le cose non vanno avanti. Finora, esempi di moratoria e di cancellazione positivi ci sono stati, anche legati a catastrofi naturali: l’Italia, per esempio, ha cancellato 20 milioni di dollari di debito del Vietnam quando il Paese è stato colpito da inondazioni, all’inizio del decennio. In generale, però, non si sta facendo gran che: finora sono stati cancellati in tutto 36 miliardi di dollari, solo il 10% di quello che sarebbe possibile nei Paesi più poveri.
Quello che la catastrofe del Sud dell’Asia ha messo in luce, piuttosto, è l’assoluta inadeguatezza del sistema internazionale degli aiuti. Il mondo ha realizzato ancora una volta che non esiste alcun organismo in grado di intervenire efficacemente in queste situazioni: tutto è lasciato alla buona volontà dei governi e dei cittadini, che nel caso asiatico è stata eccezionale ma inevitabilmente concentrata sull’emergenza. «Manca un sistema per affrontare le crisi debitorie – dice Luca De Fraia, dell’organizzazione Action Aid International – Nel 2001 l’Fmi aveva avanzato proposte, ma sono rimaste tali». In questa situazione il rischio è che il mondo sia colpito da una crisi di «affaticamento» a causa della quale, dopo il grande sforzo, non restano più energie e risorse per altre aree di crisi o per la ricostruzione di lungo periodo.
Come succede sempre, il grande perdente sarebbe l’Africa. Collins Magalasi, dell’Economic Justice Network del Malawi, ha per esempio invitato ieri i Paesi ricchi a essere aggressivi nei loro interventi in Africa come lo sono ora in Asia: «Quando abbiamo sofferto una crisi alimentare tre anni fa, nessuno ha parlato di moratoria del debito». In Africa ogni 18 giorni muoiono, di solo Aids, tante persone quante ne sono morte nel terremoto e nello tsunami asiatici. Il luogo dove ha davvero senso parlare di cancellazione del debito è quello.

Leave a Reply