L’esplosione di rabbia delle folle musulmane ha cause molto lontane. Da troppo tempo la politica degli Stati Uniti ha seminato il disordine, praticando il ‘divide et impera’ a scala sia intercontinentale sia locale, mettendo sciiti contro sunniti, favorendo i settori più integralisti contro i governi laici. A ciò si sono aggiunti i bombardamenti e gli omicidi mirati. Sta avvenendo qualcosa di simile al fenomeno della stanchezza dei metalli: un oggetto, colpito violentemente innumerevoli volte, apparentemente non ne risente, finché un giorno basta un colpetto a mandarlo in frantumi. La misura è colma, l’odio accumulato per decenni trova un catalizzatore in una protesta religiosa contro un film provocatorio. Perché proprio su quel terreno oltre un miliardo di musulmani ha trovato l’intesa? Perché su questioni politiche, economiche e religiose specifiche sono divisi. Se, ad esempio, avessero insultato Khomeini sarebbero insorti solo gli sciiti, ma hanno toccato un personaggio su cui concordavano tutti i musulmani, il profeta. La provocazione – non necessariamente di tutta la classe dirigente americana, ma della destra, che aveva lo scopo di mettere in difficoltà Obama in un periodo preelettorale e di creare le condizioni psicologiche per la guerra all’Iran – si è rivelata un boomerang per l’imperialismo americano e per l’intero occidente. Il malcontento, quando non è accompagnato da un certo livello di coscienza politica, si esprime in forme religiose. Niente di nuovo, gli irlandesi fecero un vessillo della loro fede cattolica contro l’Inghilterra anglicana, e così i polacchi contro la Russia ortodossa. Le religioni non sono pure ideologie, ma potenti movimenti sociali, che possono, secondo le diverse epoche, essere rivoluzionarie (come il cristianesimo e l’islamismo primitivi), riformiste o reazionarie.
La politica americana e israeliana, tesa a favorire correnti islamiste contro i nazionalisti laici (Hamas contro Al Fatah, Sciiti contro Saddam…), non ha tenuto conto del fatto che le correnti islamiche hanno una presa più diretta sulle masse popolari, e quindi possono diventare avversarie più pericolose dei nazionalisti laici. La propaganda ossessiva sui “paesi canaglia” ha avuto il suo effetto: ora paesi canaglia, per gran parte dell’Asia e dell’Africa, sono proprio gli Stati Uniti, Israele, e i paesi della Nato, non ancora per i governi, ma certo per gran parte della popolazione. Complimenti alla Casa Bianca, alla CIA e al Mossad! La politica della “guerra al terrorismo” ha avuto pieno effetto, anche se opposto a quello calcolato.
L’America subirà gravi danni per i crescenti pericoli, non tanto per le ambasciate, che saranno blindate fino all’inverosimile, o per le spie, quanto per i propri cittadini presenti sul posto, commercianti, imprenditori, tecnici. Perderà, inoltre, una buona fetta di mercato, per i boicottaggi. Analoga sorte per tutti i paesi della Nato, come fa pensare l’assalto all’ambasciata tedesca in Sudan, e non hanno nessun effetto i tentativi di dissociazione dalla provocazione fatta dai vari governi.
L’ambasciatore Stevens, rimasto ucciso con alcuni funzionari, era uno dei protagonisti politici della guerra contro Gheddafi. Un apprendista stregone, travolto dalle forze che ha contribuito a scatenare. Poteva toccare anche alla Clinton, particolarmente esposta perché per il suo incarico deve visitare diversi paesi, soprattutto quelli musulmani. Dovrà viaggiare con una scorta paragonabile solo a quella di Fassino, quando va a parlare ai suoi “cari concittadini”. Si è detto che quasi sicuramente le armi impiegate per l’assalto di Bengasi erano le stesse fornite dagli occidentali, e si è pianto invano sull’abitudine degli USA di allevare serpi in seno. Chi sceglie di allearsi indiscriminatamente con fanatici, mercenari e avventurieri deve aspettarsi questo e altro. Ridicoli i tentativi del governo fantoccio di accusare i nostalgici di Gheddafi, altrettanto ridicolo il tentativo della Casa Bianca di spiegare il sommovimento internazionale, un vero tsunami, con la sola propaganda di Al Qaida.
Si stanno confrontando vari ipotesi, sul reale significato di questo film, che a detta degli attori parlava di un periodo precedente a Maometto, e poi sarebbe stato modificato, come dimostrerebbe la non corrispondenza tra i movimenti della bocca e le parole. L’elemento provocazione, come il false flag, c’è in ogni scontro politico, in ogni guerra, ma non è l’essenziale. Può rappresentare la scintilla, ma la casa non salta in aria se non è satura di gas. Ben vengano gli studi per cercare di smascherare le spiegazioni ufficiali, per scoprire cosa effettivamente è avvenuto a Bengasi, ma le cause dei grandi eventi storici sono ben più profonde. Gli storici, ad esempio, stanno ancora discutendo se Roosevelt era informato o meno dell’imminenza dell’attacco di Pearl Harbour. E’ importante saperlo, ma assai più determinante è il fatto che gli Stati Uniti avevano posto al Giappone condizioni che avrebbero annichilito la sua economia, e che per Tokio si trattava di una questione di vita o di morte. Gli Stati Uniti, dopo l’invasione giapponese dell’Indocina meridionale, dichiararono l’embargo su tutti i prodotti petroliferi, sui metalli e su altre merci strategiche ed il congelamento di tutti i beni giapponesi negli USA, e lo stesso fecero la Gran Bretagna e il governo olandese in esilio, precludendo alle navi giapponesi il passaggio attraverso il canale di Panama. Fu questa la vera dichiarazione di guerra. Negli anni precedenti, l’esercito nipponico poté impunemente invadere la Cina, e compiere giganteschi massacri, tra l’indifferenza e le proteste platoniche di America ed Europa. Alla fine, poiché una sola potenza poteva dominare il Pacifico, la guerra divenne inevitabile e le provocazioni e le trappole non fecero che anticiparla.
Tornando ai giorni nostri, gli Stati Uniti in questi giorni hanno perduto una battaglia, non ancora la guerra. Si tratta di un imperialismo in decadenza, ma, come la tigre ferita, è ancora più pericoloso. Può darsi che l’uccisione dell’ambasciatore modifichi temporaneamente i rapporti di alleanza degli USA con gli integralisti islamici, per esempio in Siria, ma alla fine, se alla finanza e all’industria statunitense converrà la guerra contro Siria e Iran, non saranno i cadaveri di alcuni diplomatici, né tantomeno le manifestazioni pacifiste a impedirla. Le armi si fermano con le armi, e potrebbe essere la stanchezza delle truppe, da troppi anni impegnate in attività belliche, con un altissimo livello di usura, soprattutto psicologica, a portare a una ribellione. Come avvenne – anche se pochi lo sanno – tra le truppe USA alla fine della II guerra mondiale.(1)
Michele Basso
15 settembre 2012
www.sottolebandieredelmarxismo.it
Note
1) Marco Sacchi, “Una storia sconosciuta: la rivolta delle truppe Usa dopo la seconda guerra mondiale” in SottoleBandieredelMarxismo.it