L’Italia entra in guerra. Mentre gli imperialismi francese e britannico già hanno messo gli scarponi sul territorio libico, l’Italia ha concesso la base di Sigonella ai droni americani per intervenire in Libia e si prepara a partecipare a un intervento diretto con forze speciali.
Dopo mesi di false trattative di pace per la formazione di un governo unitario, dalle cancellerie europee esce la proposta di dividere la Libia in tre: Tripolitania all’Italia, Cirenaica alla Gran Bretagna, Fezzan alla Francia!
Questo progetto di spartizione imperialista e neocoloniale, di dubbia fattibilità perché deve fare i conti con Stati Uniti, Russia, Cina e con le potenze mediorientali, non potrà comunque essere attuato senza un massiccio intervento militare e decine di migliaia di morti.
Le stesse classi dominanti che conducono la guerra esterna sono le stesse che stanno conducendo la guerra interna contro i lavoratori, per sottometterli al potere sfrenato del capitale, a lavorare sempre di più per sempre meno, sotto il ricatto della disoccupazione (Jobs Act).
È ora che in Italia e nelle altre metropoli imperialiste si levi una opposizione internazionalista e di classe contro la guerra e contro l’imperialismo di casa nostra in particolare!
Organizziamo iniziative contro la guerra in tutte le città!
Partecipiamo ai cortei in occasione dello sciopero generale del 18 marzo, con al primo punto l’opposizione alla guerra!
Il Medio Oriente non è però solo terreno di caccia per gli imperialisti grandi e piccoli e le potenze regionali, né per i reazionari fondamentalisti islamici. Il medio oriente odierno è anche l’area in cui si è sviluppato un moderno proletariato che in questi anni sta portando avanti, nel disinteresse più totale delle sinistre ufficiali, imponenti lotte dall’Iran al Libano, dalla Turchia all’Egitto, dalla Tunisia al Marocco. All’interno di tali lotte è importante la presenza di forze genuinamente comuniste e internazionaliste che si pongono in termini concreti sul terreno dell’abbattimento non solo di regimi corrotti e tirannici ma del sistema capitalista di cui tali regimi sono espressione. In queste forze risiede la speranza di un riscatto sociale, economico, culturale che non sia un semplice cambio di facciata.
A Milano sabato 5 marzo, ore 15, nella sede del SI Cobas (via Marco Aurelio 31) si terrà un incontro con le compagne del Partito Comunista Operaio d’Iran sulla lotta internazionalista nel Medio Oriente.
Parlavano di pace ma preparavano la guerra
E’ dal 2011, dalle prime avvisaglie che il governo Gheddafi sarebbe caduto, che si parla di spartizione della Libia o di libanizzazione della Libia. Non solo per l’ampiezza degli appetiti che si concentrano su quest’area, che vanno dagli imperialismi europei (Italia, Francia, Germania e Gran Bretagna), agli Usa, alla Turchia, Arabia Saudita, Qatar, Emirati Arabi, Russia e Cina. Ma anche perché la Libia è un paese frammentato fra tribù più o meno forti, che nel 2011 erano tenute insieme da un esercito e una burocrazia statale, unificati dal dispotismo della famiglia Gheddafi e dalla distribuzione delle royalty petrolifere, ma destinato ad esplodere appena il fragile involucro è stato intaccato dalla primavera araba prima e dalla guerra imperialista e dalle pressioni divaricanti delle varie potenze poi.
Per questo le trattative dell’ultimo anno in Libia per la “pace” non avevano alcuna possibilità di successo. Si è trattato della necessaria copertura diplomatica alle trattative fra gli attori in campo, mentre ognuno si posizionava sotto il profilo militare e di intelligence, per giocare meglio le proprie carte al momento del conflitto. Gli Usa hanno tentato di conservare la regia, attraverso il proprio segretario di Stato Kerry, pur concedendo alla Germania un ruolo di spicco (l’inviato speciale ONU Martin Kobler) e l’Italia ha fatto un gioco di sponda agli Usa pur conservando un dialogo privilegiato con la Russia.
Abbiamo analizzato puntualmente attraverso una serie di articoli l’evolversi della situazione: l’Italia è l’unico dei paesi intervenuti militarmente nel 2011 ad essere riuscita a conservare una certa presenza economica, ad esempio estraendo più gas e petrolio di quanto facesse prima della guerra, grazie alla rete di relazioni che l’Eni e altre imprese italiane hanno intessuto negli ultimi sessant’anni (anche se ha perso 4 miliardi di € di commesse nelle grandi opere e vanta un credito di un altro miliardo per commesse non pagate). Inoltre l’Italia è l’unica che ha interessi economici in tutte le aree del paese e quindi accordi con milizie di vario orientamento che sono fra loro in guerra. Ecco perché la richiesta italiana di un “governo libico unitario ed autorevole: ecco perché a fronte dell’interventismo filo atlantico di Gentiloni (che ha un precedente significativo nella guerra in Kosovo) Renzi ha tenuto un atteggiamento di freno: il governo italiano ha contrattato i suoi interventi militari in Medio Oriente e in Afghanistan per garantirsi un ruolo di rilievo in un eventuale intervento in Libia, perché non può illudersi di tener fuori gli altri predoni concorrenti dalla Libia, ma ha cercato di sfruttare al meglio gli assi che aveva in mano, dalle basi militari alle buone relazioni con tutte le tribù in guerra, alla conoscenza del territorio e all’intelligence ben insediata.
Nessuno ha mai davvero creduto che potesse nascere un governo unitario libico che desse la sua benedizione a un intervento “umanitario”. Era logico e certo che i sauditi avrebbero sabotato gli accordi e lo hanno fatto mobilitando l’Egitto, cui la Francia ha prestato i propri piloti per i Rafale che hanno bombardato la Libia. Lo stesso si può dire degli Emirati, che nel cambio Kobler/Leon hanno perso il loro sponsor travestito da inviato Onu (Nota 1), e che comunque nel 2014 hanno ingaggiato una battaglia alla top gun nei cieli di Libia col Qatar. La Turchia ha continuato a sponsorizzare i gruppi islamici compresa l’ISIS. Infine non va dimenticato che mentre i diplomatici davano aria alla bocca, i francesi hanno insediato dei commando a Bengasi (fonte le Monde), e anche la Gran Bretagna posizionava piccoli contingenti sul territorio libico. Sia Francia che Gran Bretagna compiono quotidiani voli di ricognizione sulle coste, gli Usa compiono raid mirati coi droni. L’Italia col pretesto di controllare i flussi dei migranti sorveglia le coste libiche con la sua flotta, di concerto con la flotta russa presente nel Mediterraneo: mentre parlavano di pace tutti stavano già facendo la guerra.
La guerra era in previsione da mesi, la posta in gioco non è sottrarre i libici alla guerra e alla fame, quel che era ed è da definire è il chi, il come, il quando, e che assetto dare al paese nel dopoguerra.
In questo quadro si collocano le rivelazioni del WSJ. Sono cose che gli addetti ai lavori sanno da mesi, quando si decide di renderli di pubblico dominio è perché si vuol forzare in un senso o nell’altro la situazione, in questo caso Obama cerca di forzare i tempi dell’intervento italiano (Renzi, come è noto, vuole evitare attentati nel corso del Giubileo, ma si temono anche attacchi ai terminali petroliferi gestiti da italiani), perché oggettivamente da un lato vuole utilizzare di più le basi italiane, dall’altro preferisce dare spazio all’Italia per controbilanciare l’interventismo francese e comunque evitando che forze Usa combattano sul terreno.
Quindi il WSJ ci informa che i droni armati statunitensi dislocati a Sigonella saranno autorizzati da Roma a operare sulla Libia ma solo per effettuare “missioni difensive” (le virgolette sono di Analisi Difesa, foglio semiufficiale dell’Esercito Italiano, si riferiscono a operazioni di copertura aerea per le forze speciali che non sono in Libia in villeggiatura). Gli Usa continueranno a bombardare con funzioni offensive e con relativi morti civili, ma – forse – non da Sigonella. L’accordo Usa-Italia arriva dopo più di un anno di trattative, formalmente è contro il “pericolo Isis”, pericolo amplificato o dimenticato a seconda delle necessità.
E si riparla del piano B, cioè della spartizione della Libia, un piano neocoloniale in cui si affiderebbe come “protettorato” la Tripolitana all’Italia, la Cirenaica, con il suo petrolio, alla Gran Bretagna e il Fezzan, con preziosi metalli rari, alla Francia.
Non entriamo nel merito della fattibilità di questo piano che secondo fonti militari italiane richiederebbe “almeno trecentomila uomini con gli scarponi a terra” coinvolti in una guerra simile a quelle combattute in Iraq e Afghanistan. E che presuppone di fare della Libia un affare solo europeo, quando è evidente che né Usa e Russia, né le medie potenze medio-orientali accetterebbero di essere esclusi dalla gestione del dopo guerra.
La guerra del 2011 con le sue orribili conseguenze in termini di caos, creazione di centinaia di migliaia di profughi, di imbarbarimento della società libica insegna che un conto sono i progetti delle cancellerie, un conto sono i risultati sul campo.
Chi chiede a gran voce una reazione “forte” al caos libico, un intervento militare per riaprire alle imprese nazionali un mercato nel cortile di casa e bloccare gli immigrati e i profughi in lager costruiti sulle coste libiche, pensando di gestire facilmente le conseguenze, non fa i conti con la realtà.
In questo contesto dobbiamo con gran forza ribadire il nostro NO! a questa guerra
Che ci prepara un futuro di barbarie, questo sì nel cortile di casa.
Nota 1: a novembre dello scorso anno, il diplomatico spagnolo Bernardino León ha lasciato la carica al tedesco Martin Kobler; León ha subito trovato lavoro come direttore dell’Accademia diplomatica degli Emirati Arabi Uniti.