(articolo pubblicato su Pagine Marxiste n. 53)
Gli avvenimenti in Palestina obbligano a riandare al passato per spiegare il presente. Ribadiamo la lezione che si trae da alcuni momenti chiave della storia.
Le Origini
La questione ebraica affonda le sue radici nella diaspora in epoca romana (70 d.C. distruzione del tempio di Gerusalemme), si intreccia con la storia europea segnata dalla creazione dei ghetti, dai pogrom, dalle discriminazioni di ogni tipo.
La questione palestinese nasce fra ’800 e ’900, man mano che ondate di ebrei, provenienti dall’Est europeo, per sfuggire ai pogrom emigrano in Palestina, allora parte dell’Impero turco ottomano. Di solito superiori per istruzione, conoscenze tecniche e anche disponibilità di capitali, gli ebrei convivono di fatto pacificamente con la popolazione locale.
Il contrasto interetnico esplode negli anni Trenta quando gli inglesi, che hanno ottenuto la Palestina come mandato nel 1920, sponsorizzano questa immigrazione (gli ebrei passano dall’essere l’11% della popolazione nel 1914 al 30% nel ’36) e appoggiano la frazione ebraica sionista, che sollecita l’espulsione dei braccianti arabi dalle fattorie. Con la loro politica gli inglesi mirano a porsi come ago della bilancia fra le due comunità per giustificare la permanenza del mandato in Palestina.
La spartizione
Alla fine della II guerra mondiale, è interesse comune di Urss e Usa ridurre l’influenza europea sul petrolio medio orientale. Per questo entrambe appoggiano la nascita in Palestina di uno Stato di Israele accanto a uno Stato Palestinese, due stati relativamente deboli e in lotta fra loro che diano alle due superpotenze pretesti per un continuo intervento. La spartizione è sancita da un voto Onu il 27 novembre del ’47. Gli ebrei che fino a quel momento occupavano il 6% del territorio se ne vedono assegnare il 56%.
La questione palestinese quindi è uno dei frutti avvelenati del colonialismo inglese, mantenuta in vita dalla decolonizzazione voluta da Usa e Urss, che quasi subito entrano in rotta di collisione.
La prima guerra arabo palestinese
Libano, Transgiordania e Siria, guidati dall’Egitto si oppongono a questa soluzione, attaccano Israele il giorno successivo alla sua proclamazione come stato (15 maggio ’48), ma vengono battuti dall’eterogeneo esercito israeliano, l’Haganah, armato dai russi. L’armistizio firmato nel febbraio ’49 non sarà mai seguito da una pace. Ma si ha di fatto una spartizione fra gli Stati arabi dei territori che avrebbero dovuto costituire lo Stato palestinese: l’Egitto occupa la striscia di Gaza, la Giordania la Cisgiordania e la parte est di Gerusalemme (mentre Israele occupa il 78% del territorio palestinese).
È anche per l’intervento dei paesi arabi “amici” che quindi non si forma uno Stato palestinese. Da quel momento in ogni caso lo Stato Palestinese eventuale corrisponderà al 22% della Palestina prebellica e non più al 44%.
La Nakba
Braccianti e piccoli contadini arabi fuggono dai territori israeliani per sfuggire ai massacri delle bande terroriste dell’Irgun, guidate da Begin (poi primo ministro e premio Nobel “per la pace”). Altrettanti ebrei vengono espulsi dai paesi del Nord Africa dove vivevano dal 1492 (quando sono stati cacciati dalla Spagna). Mentre Israele accoglie come cittadini i profughi ebrei (sefarditi), negli Stati arabi in cui si rifugiano i palestinesi della Nakba (700 mila) sono considerati (e lo sono tuttora) esiliati apolidi e come tali vengono sistemati nei campi profughi. Qui ricevono da allora a oggi l’aiuto dell’Onu. Solo la Giordania offrì loro la cittadinanza e il diritto al lavoro. In Libano, Siria ed Egitto non venne loro riconosciuto nemmeno il diritto di frequentare le scuole pubbliche, di possedere case o terra.
Per decenni le élites politiche palestinesi agiteranno il tema del ritorno in Palestina di questi profughi (che si calcola siano circa 3,5 milioni già negli anni ’80), ipotesi ovviamente respinta da Israele. Uno degli aspetti dialetticamente rilevanti è il fatto che nei campi profughi spesso finanziati dall’Onu i palestinesi ricevono una istruzione di molto superiore a quella media consentita ai lavoratori arabi. Non potendo possedere terra o gestire imprese diventano una élite intellettuale, come era avvenuto agli ebrei europei perseguitati.
Le borghesie arabe e gli imperialismi
I governi arabi non desiderano una soluzione al problema perché dai campi profughi traggono manodopera a buon mercato e negli anni successivi carne da macello delle azioni terroriste. Ogni stato arabo ha finanziato una propria organizzazione o frazione di organizzazione palestinese, di fatto ostaggio di chi la foraggia. Dentro l’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina), nata nel ’64, la frazione dominante è Al Fatah collegata all’Egitto, ma esistono anche frazioni filo-siriane, filo-yemenite, filo-irachene e filo-libiche.
Fin dal 1948 in Medio Oriente la contesa è multipolare, non dipende solo dalle logiche della guerra fredda, ma vi intervengono gli stati regionali e gli imperialismi europei (la Germania, la Francia, la Gran Bretagna e l’Italia), più il Giappone. Tutti interessati agli affari energetici, dall’estrazione alle pipeline, ai porti ecc. La presenza di tante attori politici di diversa potenza ha reso impossibile un equilibrio stabile in Medio Oriente. Ci sono state tregue, mai una pace. I palestinesi d’altro canto non hanno la forza economica e quindi politica e militare di condurre una propria autonoma guerra di liberazione.
La borghesia egiziana, impugnando la parola d’ordine della distruzione di Israele, tenta di assumere l’egemonia dello schieramento arabo, che si cimenta in altre tre guerre arabo-israeliane (nel ’56, nel ’67 e nel ’73).
La guerra dei sei giorni
Se la crisi di Suez vide l’ennesimo intervento di Usa e Urss per ridimensionare le velleità di potenza di Francia e Gran Bretagna in un inedito appoggio all’Egitto contro Israele, la guerra arabo israeliana del 1967, la cosiddetta “Guerra dei sei giorni”, produce un deciso allargamento del territorio di Israele, che occupa Sharm el Sheikh, tutto il Sinai, Gaza (sottratti all’Egitto), Gerusalemme Est, la Cisgiordania (tolti alla Giordania), l’alta Galilea e le alture del Golan togliendole alla Siria.
Una seconda massiccia ondata di profughi lascia i territori occupati; con loro si spostano le milizie armate palestinesi, che in Giordania tenderanno a costituire uno stato nello stato ma soprattutto a saldarsi con il proletariato urbano. La reazione del sovrano giordano sarà, nel 1970, Settembre Nero (20 mila palestinesi massacrati per ordine di Hussein di Giordania, la cacciata di tutti i guerriglieri e delle loro famiglie).
Scriveva allora l’ultra minoritario gruppo israeliano Matzpen, sconvolto dalla distruzione di interi villaggi palestinesi nel ’67: «L’occupazione innescherà la lotta armata dei palestinesi. Il loro terrorismo ci obbligherà a ricorrere a tecniche di antiterrorismo. Sarà un inferno, per tutti». Furono buoni profeti: nel 1972 c’è la strage degli atleti israeliani alle olimpiadi di Monaco, nel 1974 la strage di bambini israeliani nella scuola di Maalot in Galilea.
Lo stato di guerra costante consente ai vari governi la militarizzazione della società israeliana, in cui convivono gli askhenazi di origine europea con i sefarditi espulsi dal Nord Africa, più poveri, meno istruiti e quindi politicamente subalterni e marginali.
La guerra di Yom Kippur del 1973 nella cui prima fase Israele si trova in difficolta fornisce all’Opec (e in realtà alle majors petrolifere Usa) il pretesto per un rialzo improvviso dei prezzi petroliferi, che induce una ristrutturazione dei processi produttivi a livello mondiale, ma non ha conseguenze significative in Palestina.
Guerra civile in Libano
I guerriglieri palestinesi cacciati dalla Giordania e rifugiatisi in Libano scombinano il difficile equilibrio etnico religioso esistente; essi diventano il pretesto per una resa dei conti fra la ricca minoranza cristiano maronita e i gruppi mussulmani, sia sciiti che sunniti. Scoppia nel ’75 una guerra civile che fornirà il pretesto all’intervento armato in Libano di Siria e Israele (Israele ci resterà fino al 2000; la Siria fino all’estate 2005). Sette anni più tardi migliaia di palestinesi del campo di Sabra e Chatila (1982) saranno massacrati dalle Falangi libanesi con la complicità degli israeliani, guidati dal generale Sharon, ma anche nell’indifferenza delle truppe di interposizione europee. Alla fine Arafat e la dirigenza dell’OLP vengono cacciati dal Libano (1982) e si rifugiano a Tunisi dove restano fino agli accordi di Oslo del 1993. Nello stesso anno l’Iran di Khomeini comincia a finanziare la milizia sciita Hezbollah, che si pone come obiettivo primario la liberazione del Libano da Israele.
Questi episodi confermano che gli stati arabi agitano strumentalmente in alcune occasioni la bandiera degli interessi palestinesi, ma i loro satrapi, coccolati dalle cancellerie occidentali, massacrano senza problemi i “fratelli palestinesi”.
Le nuove formazioni islamiche
È in questo contesto che a fianco dell’OLP nascono nuove formazioni politiche fra cui il Movimento della Resistenza Islamica poi Hamas, di stampo islamista.
L’Olp, inizialmente creatura del presidente egiziano Nasser, era una formazione laica, influenzata dallo stalinismo, con una fraseologia socialisteggiante. Hamas, fondata dallo sceicco Yassim, esattamente come la Jihad Islamica di Gaza che si costituisce anch’essa durante la prima Intifada, deriva dai Fratelli Mussulmani egiziani. Negli anni ’70 sia gli Usa che Israele inizialmente tollerano e in alcuni casi finanziano questi movimenti in contrapposizione all’OLP e in funzione anti russa (lo stesso avviene in Afghanistan dove gli Usa appoggiano le formazioni che poi daranno vita ad Al Qaeda).
Questi movimenti islamici prescindono da qualsiasi rivendicazione di classe, gli interessi dei lavoratori sono subordinati a un interclassismo reazionario, tutto è in funzione delle rivendicazioni nazionali: La testa del movimento è espressa da proprietari terrieri, commercianti e finanzieri. Si diffondono attraverso le scuole coraniche e riscuotono consensi attraverso una ben organizzata rete assistenziale (scuole, ospedali ecc.) che garantiscono un welfare ai più poveri.
Un elemento decisivo, quest’ultimo, per la diffusione nei campi profughi o nei quartieri degradati dove vivono i palestinesi dei territori occupati. Interessante il dato delle moschee che fra il ’67 e l’87 passano da 200 a 500 a Gaza, e da 400 a 750 in Cisgiordania. Gli islamici contrappongono al panarabismo, proprio di Nasser, l’Islam (con tutto il suo corollario di proibizioni alimentari, velo ecc. ma soprattutto con l’obbligo della decima da versare alle autorità religioso-politiche). Tutto ciò diventa un robusto collante ideologico.
Con una conseguenza decisiva: se il panarabismo non può essere che arabo, l’islamismo può essere impugnato anche da governi islamici, ma non arabi. I movimenti palestinesi islamici quindi alla fine degli anni ’80 si aprono all’alleanza con l’Iran, sopravvissuto allo scontro con l’Irak di Saddam (1980-88) e più tardi a quella con la Turchia; anch’essa non più laica, ma islamica di Erbakan e Erdogan.
Ulteriore frazionamento dei palestinesi
Se fino a quel momento le linee di faglia politiche dentro i palestinesi riguardano i diversi paesi che li finanziano e li armano, da questo momento in poi la contrapposizione OLP/Islamici introduce altre cruente contrapposizioni.
Fra l’82 e l’87 palestinesi islamici e seguaci di Fatah si affrontano in sanguinosi scontri; i militanti di sinistra sono epurati con la violenza dall’Università di Gaza. Si tratta di una vera mini guerra civile che ha per oggetto il controllo della striscia di Gaza, cioè l’area che per densità di popolazione e mancanza di infrastruttura è un potenziale vulcano sociale.
Intifada
E la sommossa esplode con la Prima Intifada dell’87, che è un fenomeno spontaneo di giovani e operai, i quali mal sopportano le continue angherie della polizia israeliana e la misera vita negli affollatissimi campi profughi. Nell’Intifada l’OLP è pochissimo coinvolta, mentre la Fratellanza si mette alla testa dei rivoltosi interrompendo il quieto vivere con Israele. Viene assunto il nome di Hamas, il cui obiettivo dichiarato è la fondazione di uno Stato totalmente islamico, la distruzione di Israele e la Jihad.
Essi attaccano gli ebrei come architetti della rivoluzione francese e della rivoluzione comunista; come fomentatori delle due Guerre mondiali e teorizzano, sulla falsariga di tematiche naziste, la “congiura sionista mondiale” per dominare l’intero pianeta e distruggere la vera fede (=islamica).
Nella stessa Olp si rafforzano per effetto dell’Intifada le organizzazioni oltranziste come Tanzim e Brigate Martiri di Al Aqsa. Le azioni terroristiche contro Israele iniziano nel dicembre ’88, ma solo nel ’90 Israele dichiara Hamas illegale.
Accordi di Oslo
Sempre meno influente fra i palestinesi, l’OLP subisce un tracollo di immagine internazionale quando appoggia l’invasione del Kuwait da parte di Saddam Hussein (1991). È quindi costretta, se vuole conservare i finanziamenti dell’Onu, dell’Europa ecc. (grazie ai quali paga la sua elefantiaca burocrazia), a scendere a patti. Il risultato nel 1993 sono gli Accordi di Oslo che ripropongono la soluzione “due popoli due Stati”. L’OLP riconosce lo Stato di Israele e quest’ultimo concede lo status di autonomia a Gaza e Gerico, riconoscendo a sua volta l’OLP come unica rappresentante dei palestinesi. L’importante è emarginare Hamas e Hezbollah filo iraniani. Cisgiordania e Gerusalemme Est ottengono un’amministrazione autonoma, ma a sovranità limitata. Tutto questo resterà lettera morta, esattamente come la risoluzione dell’Onu del 1947, portando all’ulteriore radicalizzazione delle giovani generazioni palestinesi
L’OLP dei “tunisini”
Nel 1994 Arafat e i “tunisini” (comevengono chiamati i dirigenti dell’OLP rifugiatisi a Tunisi), fra cui Abu Mazen, tornano in Palestina. Durante i 25 anni di esilio ad Amman come a Beirut e Tunisi essi hanno creato un impero economico grazie alle donazioni dell’Onu, degli imperialismi occidentali e dei petrodollari. Sono manager abituati a gestire alberghi, casinò, centri commerciali, imprese edili, società telefoniche; a comprare linee aeree e piantagioni in Africa, appartamenti e terreni in Europa, banche in Libano e Giordania.
A loro si contrappongono i giovani leader usciti dalla prima Intifada (citiamo solo Dahlan e Barghouti), privi di statura internazionale ma radicati nei territori, pronti a denunciare la “corruzione” della vecchia “élite di Oslo” ma anche ansiosi di partecipare alla gestione del malloppo. La resa dei conti sarà l’indecoroso braccio di ferro al capezzale di Arafat morente fra la sua vedova e gli aspiranti successori (novembre 2004), da cui emergerà vincitore Abu Mazen.
Netanyahu e le colonizzazioni
I successivi accordi di pace del ’95 fra Arafat e il premier israeliano Rabin alla Casa Bianca falliscono e di fatto tutti i tentativi di riprenderli produrranno solo vuole dichiarazioni. Il 3 novembre 1995, Rabin venne assassinato da un ebreo ortodosso. Netanyahu, capo del Likud, divenuto premier nel giugno 1996, decide di ribaltare Oslo, esasperare le tensioni con i paòestinesi puntando sull’accelerazione della “colonizzazione”.
Per “ragioni di sicurezza”, per garantire cioè una fascia di sicurezza agli ebrei, l’esercito israeliano occupa terre palestinesi, sequestra e abbatte case e insedia coloni. I coloni sono spesso nuovi immigrati, privi di tutto, che si vedono assegnare grandi proprietà agricole (di solito ogni famiglia israeliana delle colonie ha una proprietà circa mille volte più grande di quelle palestinesi, ottiene prestiti per metterle a frutto, ha la precedenza nell’ottenimento dell’acqua). I nuovi coloni tendono a difendere con le unghie e con i denti la nuova proprietà, sono sostenitori dei partiti religiosi estremi e del Likud. Le strade speciali che collegano le colonie a Gerusalemme spezzano il territorio palestinese riducendolo a un insieme di 55 bantustan. I coloni sono il bersaglio degli atti terroristici di Hamas e, armati fino ai denti, rispondono colpo su colpo. Nel 2010 ci sono in Cisgiordania 450 mila coloni distribuiti su 100 insediamenti, altri 220 mila a Gerusalemme Est, 7 mila a Gaza e 20 mila nel Golan.
La seconda Intifada
La seconda Intifadanel 2000 scoppia per queste ragioni. Non è un fenomeno spontaneo di massa, ma l’azione di gruppi organizzati. La reazione di Israele è feroce e porta alla morte di quasi cinquemila palestinesi, ma muoiono anche più di mille israeliani (ndr. Può esasperare il lettore la continua citazione dei morti, ma va ricordato che ogni morto produce risentimenti e desiderio di vendetta e allarga il solco. Anche riportare la sproporzione fra il numero di morti palestinesi (civili, al m,assimo militanti) rispetto ai morti israeliani (soprattutto soldati) non è mera contabilità.
Oltre alle perdite umane, le conseguenze economiche sono disastrose: si arresta il debole sviluppo economico palestinese ma anche Israele subisce forti danni.
Anche una fetta significativa della popolazione ebraica vive pesanti disagi economici: nel 2006 il 25% degli israeliani vive sotto la soglia di povertà. Le famiglie a basso reddito non riescono a far fronte ai consumi di base e agli affitti perché sempre più impoverite dall’inflazione. Le differenze sociali si stanno allargando. Venti famiglie controllano ¼ delle società quotate in Borsa a Tel Aviv. Le retribuzioni degli alti dirigenti sono 90 volte il salario medio israeliano. I più poveri sono i Falascia etiopi e gli immigrati dall’ex URSS.
Tuttavia, fatto 100 il reddito di un lavoratore askenasi, un ebreo sefardita arriva a 60, un palestinese istruito che vive nelle città israeliane o un immigrato ebreo recente ha 50 e un palestinese dei territori 30 (dati 2006).
C’è una spinta della Confindustria israeliana da un lato a liberarsi dei territori occupati perché assorbono risorse finanziarie (militari) che andrebbero impiegate in ricerca e ammodernamento, dall’altro a sostituire la riottosa manodopera palestinese incoraggiando ad arrivare altri immigrati ebrei o asiatici. Nell’arco di pochi anni un palestinese su tre perde il lavoro e cominciano ad arrivare migliaia di cinesi, filippini, pakistani. Il reddito della popolazione dei territori quasi si dimezza.
Il terrorismo di stato di Israele
Fra il 2000 e il 2003, l’esercito israeliano compie rastrellamenti pesanti e periodoco sulle città palestinesi (Nablus, Jenin, Bethlehem, Ramallah, Dura).
La ricerca dei terroristi giustifica qualsiasi arbitrio: a Jenin, nella West Bank, un campo di 13 mila rifugiati, che il 5 aprile 2002 viene bombardato dall’esercito israeliano, con l’uso di razzi, missili ecc. come durante una guerra regolare; muoiono 23 soldati israeliani e un numero imprecisato di palestinesi. Nello stesso anno Israele comincia la costruzione di un muro di separazione tra i propri territori e quelli palestinesi in Cisgiordania. Da quel momento c’è una accelerazione degli atti di violenza contro i civili: come fucilazioni senza processo, torture sistematiche, ma anche la distruzione delle condotte d’acqua, avvelenamento delle falde. Questa violenza ha compattato il proletariato palestinese dietro la sua borghesia, tanto che inevitabilmente l’autonomia dello Stato palestinese assorbe tutte le aspettative, diventa l’obiettivo che sembra contenere in sé tutte le soluzioni. Le contraddizioni di classe del fronte palestinese sono mascherate dall’oppressione dello Stato israeliano, che a sua volta ha potuto usare lo scontro coi palestinesi con la stessa funzione, cioè reprimere le proteste sociali e politiche in nome dell’unità patriottica.
Ritiro da Gaza
A sorpresa nel febbraio 2004Sharon annuncia il ritiro da Gaza dei 7500 coloni che a Goush Qatif occupano un quarto delle terre di Gaza e il 40% della fascia costiera. Il ritiro avviene in anticipo sui tempi previsti, nell’agosto 2005. Unilaterale, non negoziato con l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese), il ritiro non è né un cedimento rispetto alla linea dura, né un atto di “buona volontà”; significa potersi concentrare sugli insediamenti ebraici in Cisgiordania, più grandi, più facili da difendere; significa, separando da Israele gli 1,2 milioni di palestinesi di Gaza, portare il rapporto arabi/israeliani da 4,2/5,3 milioni a 3/5,3, allontanando la data in cui gli arabi sorpasseranno di numero gli israeliani; significa, infine, nonostante il ricco risarcimento pagato ai coloni, un risparmio netto di spese militari. Gaza comunque viene circondata da un cordone di sicurezza: l’esercito israeliano sorveglia il perimetro esterno e i valichi internazionali con Egitto, nonché lo spazio aereo.
È Israele a fornire elettricità, acqua, gas e a garantire le comunicazioni. Il governo israeliano inoltre esclude l’abbandono del Golan, vitale per il controllo delle acque del Giordano, ma anche per gli insediamenti industriali e agricoli. A sua volta, anche la Cisgiordania è vitale per l’acqua (garantisce il 40% del consumo degli israeliani).
Gli scontri Israele Hezbollah e le scoperte petrolifere
Nella seconda metà del 2006 Israele interviene con grande dispiegamento di mezzi in Libano per vendicarsi di uno sconfinamento in Israele con cattura e uccisione di soldati da parte di Hezbollah. La spedizione si conclude con un nulla di fatto e consente ad Hezbollah di rafforzarsi e di parlare di vittoria. Per ogni soldato israeliano morto, sono rimasti uccisi 10 libanesi. Gli sfollati sono 800 mila, le distruzioni di case e infrastrutture tremende.
Una fetta consistente degli alti comandi dell’esercito critica il ritiro da Gaza e denuncia che Israele è circondato da milizie ostili, addestrate dall’Iran: a nord Hezbollah, a sud Hamas.
Anche gli ambienti economici sposano questa visione perchè in quel periodo davanti alle coste di Gaza si scoprono consistenti giacimenti di idrocarburi. Inizialmente l’ANP firma un contratto con British Gas Group per lo sfruttamento del giacimento di Gas Marine, ma l’esercito israeliano lo occupa e subentra nella trattativa (lo stesso del resto succede per il giacimento Meged che si trova in Cisgiordania). Israele falsifica le mappe e rivendica immediatamente diritti di proprietà sui giacimenti scoperti, in forza del fatto che controlla la politica monetaria, i confini e il commercio palestinesi e ne riscuote i dazi doganali. Israele non solo acquisisce così uno status di paese produttore di idrocarburi, ma incamera tutti i profitti.
Gaza sotto il controllo di Hamas
Il ritiro di Israele scatena a Gaza una feroce lotta intestina fra le fazioni palestinesi: scontri di strada fra le milizie (Al-Aqsa; Tanzim; Brigata Badr per Fatah – Ezzedin al Qassam per Hamas), ma anche assassini mirati di leaders fra Hamas, Fatah, FPLP, dalla Jihad islamica; i morti sono più di 200.
Alle elezioni per il Parlamento Palestinese nel 2006, nonostante i fiumi di denaro spesi dall’occidente pro Fatah (o forse proprio per questo), prevale Hamas forte del suo radicamento sociale. Ma alla fine viene eletto Abu Mazen.
Dopo una breve ma violento scontro armato, Hamas estromette l’ANP (Autorità Nazionale Palestinese) di Abu Mazen da Gaza. Da allora, con una certa regolarità, avvengono lanci di missili di Hamas da Gaza verso Israele e attacchi aerei e bombardamenti israeliani su Gaza; una sequenza che ha dei punti di crisi più pesante nel novembre 2006, aprile e giugno 2007, febbraio e marzo 2008. Dopo la spedizione militare detta “Piombo Fuso” del dicembre 2009 (1400 palestinesi uccisi), si susseguono altre crisi nell’aprile e agosto 2011, marzo e giugno 2012.
Operazione “Piombo Fuso”.
Occorre lanciare il messaggio che Israele è più forte che nel 2006; inoltre occorre impedire che il neo eletto Obama apra trattative con l’Iran. Sarebbe più funzionale attaccare Hezbollah, ma Gaza un bersaglio senza conseguenze (ad ogni piccola o grande carneficina l’Onu protesta e Israele se ne infischia). Israele scatena l’attacco definito “Piombo Fuso”
Viene bombardato anche il varco egiziano di Rafallah, da cui i palestinesi cercano di fuggire per riparare in Egitto. Vengono bombardati a tappeto i tunnel attraverso cui i“topi”, i giovani palestinesi più poveri quotidianamente cercano di trasportare cibo, medicine (e i miliziani armi) con grande profitto dei commercianti palestinesi ed egiziani che traggono vantaggio dal blocco che alimenta il commercio clandestino. La tregua viene alla fine negoziata con la mediazione dell’Egitto di Mubarak. Per ogni soldato israeliano ucciso muoiono 100 palestinesi. Per tutto il 2008 Gaza è stata più volte isolata e lasciata senza cibo ed energia, mentre ci sono stati numerosi scontri fra coloni israeliani e palestinesi in Cisgiordania con centinaia di morti. L’Onu paragona la situazione dei civili palestinesi all’apartheid del vecchio Sudafrica.
Nel corso del conflitto entrambi i fronti si sono accusati di usare proiettili al fosforo bianco.
L’ipocrisia dei nuovi/vecchi amici
Nel giugno 2010 la marina israeliana attacca navi umanitarie turche che portano aiuto a Gaza affamata dall’ennesimo blocco di beni alimentari operato dall’Egitto. La Turchia interviene con una certa regolarità a fianco di Hamas, con la Siria nel ruolo di spalla (il regime siriano già dagli anni ’90 offriva ai gruppi palestinesi l’assistenza logistica, la formazione e il sostegno politico a un livello di nessun altro paese arabo).
Nel 2010 Turchia, Iran, Irak e Siria si alleano per reprimere l’indipendentismo curdo, oltre che per creare un cartello anti-saudita e antiamericano (è in corso nell’area medio orientale una guerra degli oleodotti che consolida un asse Russia-Iran di mutuo sostegno economico e militare). Quindi: sì alle rivendicazioni nazionali palestinesi, ma repressione totale nei confronti delle rivendicazioni nazionali curde!
Primavere arabe (2011)
Le primavere arabe producono in Nord Africa una crisi senza precedenti per i regimi autoritari, i movimenti di massa rendono evidente che il principale campo di battaglia non è più tra gli arabi e Israele, ma tra i regimi e il loro stesso popolo. A Gaza e in Cisgiordania si svolgono manifestazioni di solidarietà con i lavoratori egiziani e siriani e contro Mubarak, ma anche contro Assad (in Egitto vivono 1,5 milioni di palestinesi, in Siria quasi un milione e costituiscono lo strato più misero e oppresso del proletariato). È significativo che nel 2011 queste manifestazioni vengono represse sia dalla polizia di Hamas che dalla ANP. Dal canto loro Il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina (DFLP) e il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (PFLP) dichiarano che le proteste contro Assad in Siria sono una trama sionista.
Le rivendicazioni di classe quindi mettono in difficoltà le leadership palestinesi, vecchie e nuove, laiche o islamiste, del tutto dipendenti dal sostegno economico e militare dei regimi arabi più dispotici ma odiate anche dai propri proletari perché si incamerano la maggior parte dei fondi internazionali (ad es. dell’Onu).
Nel 2011 i rapporti fra Iran e Hamas si raffreddano perché Hamas non vuole intervenire a fianco di Assad in Siria; questo gli creerebbe fratture interne perché Assad è odiatissimo dai Palestinesi siriani
Ma all’Iran subentra subito il Qatar. Da quel momento, se l’Iran resta il referente militare di Hamas, Jihad Islamica ed Hezbollah, il Qatar fornisce il grosso del sostegno economico. Questa è una delle ragioni di attrito con l’Arabia Saudita che fino a quel momento se la doveva vedere solo con la concorrenza dell’Iran.
Nel novembre 2012, il nuovo presidente egiziano Morsi, appartenente alla Fratellanza Mussulmana, su spinta anche della Turchia,media una tregua fra Hamas e Israele. Ma con la caduta di Morsi (luglio 2013), l’Egitto torna ostile ai palestinesi, chiude il valico di Rafah, blocca i tunnel da cui filtrano cibo, medicine, materiali da costruzione ma anche armi verso Gaza, aggravando gli effetti del blocco che Israele impone, con più o meno durezza a seconda delle fasi.
La crisi del 2014
Nel marzo 2014 l’Egitto di Al Sisi mette fuori legge Hamas e consente a Israele di fare operazioni militari in Sinai. In maggio, Hamas firma un nuovo accordo con l’Iran, di cui è trapelato che Teheran riprendeva i finanziamenti e la fornitura di armi e Hamas si impegnava a combattere a fianco di Hezbollah e a favore di Assad in Siria, in quel momento sotto attacco da parte dell’Isis (Assad troverà il tempo di vendicarsi dei palestinesi siriani nel 2015 radendo al suolo Yarmuk il più grande campo profughi palestinese in Siria)..
Forte della nuova alleanza con l’Egitto, cementata dalle nuove scoperte petrolifere e dalla reciproca necessità di reprimere le lotte operaie, Netanyahu fra il 2012-13tiene alta la tensione coi palestinesi facendo ripartire alla grande il piano di colonizzazione in Cisgiordania, dove in quel breve lasso di tempo (denuncia di Amnesty International) più di 8000 civili palestinesi, di cui 1500 bambini, sono stati feriti gravemente, migliaia arrestati, un numero imprecisato uccisi, mentre marciavano disarmati per difendere le loro terre e le loro case. Nessuna misura è stata presa né dall’Onu, né dai paesi occidentali, nè dai fratelli arabi contro l’uso eccessivo della forza da parte di Israele contro civili inermi. Il pretesto sono le azioni terroristiche di Hamas (che in Cisgiordania è debolissima)
Il presidente israeliano ha bisogno di alzare il livello dello scontro per questioni interne, per distogliere l’attenzione dagli scandali di corruzione che riguardano ex ministri, industriali, pubblici funzionari, militari. In particolare sono stati saccheggiati i fondi pensione. Chi è ricco in Israele diventa sempre più ricco, una vera e propria oligarchia domina l’economia e la politica. In cambio molti giovani israeliani lasciano il paese perché con i loro salari non riescono a pagare gli affitti proibitivi o a garantire scuole decenti ai figli. La caccia al palestinese quindi è funzionale anche alla repressione e allo sfruttamento dei lavoratori israeliani, che non si possono permettere le guardie del corpo e che ogni giorno, nel clima di violenza alimentato ad arte, vedono i loro figli morire e comunque devono vivere in continua insicurezza. Hamas e i “duri” palestinesi da parte loro usano la violenza perché sperano di recuperare l’appoggio e i finanziamenti, che sono ora in forte calo, sia dall’ Europa che dai paesi del Golfo.
La causa palestinese in quel momento è però poco funzionale agli interessi degli imperialismi europei o dell’Iran impegnati come sono, gli uni contro l’Isis in Iraq e Siria e l’altro a sostegno dei regimi di Al Maliki e Assad. Con la Turchia che invece ospita nel suo territorio bande dell’Isis.
Un sondaggio rivela che in Israele il 47% è contrario al “solito” attacco contro Gaza, il 38% è favorevole. Ma la miccia per un nuovo conflitto si trova.
Tuttavia l’8 luglio 2014, nonostante vengano organizzate folte catene umane composte da palestinesi e israeliani per la pace, Israele inizia l’operazione “Margine protettivo” che dura 50 giorni. Secondo l’Onu il bilancio vede 2.251 palestinesi uccisi, di cui 1.462 civili (tra cui 299 donne e 551 bambini) e 72 israeliani morti (tra cui 67 soldati e 5 civili).
Fino al prossimo incidente
Nel 2014 i palestinesi dei territori Occupati sono 4,5 milioni (350 mila a Gerusalemme Est, 2,35 milioni in Cisgiordania e 1,8 milioni a Gaza).
La repressione, unica risposta ai bisogni sociali, rende la situazione ancora più incandescente A Gaza e getta la popolazione fra le braccia di Hamas.
Hamas esce militarmente indebolita dallo scontro. La striscia è in macerie, la fornitura di elettricità e servizi è un optional affidato al caso, i servizi sanitari o le infrastrutture (in particolare buona parte del sistema idrico e fognario) distrutte. Quattro anni dopo un reporter di Ofxam rivela che l’acqua del sistema idrico non è potabile: per averla occorre ricorrere all’acqua desalinizzata di cisterne private. L’energia elettrica è disponibile per 2 ore al giorno anche per scuole ed ospedali.
La metà della popolazione è sottoalimentata. L’80% delle famiglie sopravvive solo grazie agli aiuti Onu, che arrivano col contagocce perché i valichi con Egitto e Israele sono quasi sempre sbarrati. Anche per gli aiuti umanitari, il cibo e le medicine.La maggior parte dei bambini soffre di disturbi post traumatici a causa dei bombardamento, del crollo delle proprie case e per aver visto più volte morti e scene di guerra . Che alternativa hanno gli abitanti di Gaza che non possono emigrare, chiusi come animali in un serraglio?
A Gerusalemme Est , dal 1967, i palestinesi “residenti permanenti” vivono in una sorta di limbo legale, non sono né cittadini israeliani né cittadini giordani, non godono dei servizi, scolastici o sanitari, devono chiedere il permesso di lavoro come un immigrato anche se sono nati lì da famiglie che vi risiedono da generazioni. Se vanno all’estero per un periodo superiore a tre mesi perdono il diritto di tornare. Dal 1967 ne sono stati espulsi quai 15 mila. A molti è stata distrutta la casa con futili pretesti. La polizia conduce una pervicace campagna di persecuzioni quotidiane per indurli ad andarsene. Israele ha costruito gruppi di condomini dove si sono insediati 44 mila israeliani, destinati a tener accesa la provocazione. Tutti gli uomini d’affari israeliani si fregano le mani all’idea di quanti profitti garantirebbe una ristrutturazione su larga scala della storica Gerusalemme est, liberata ovviamente dei palestinesi.
TRUMP L’INCENDIARIO
I desideri della borghesia israeliana e dell’ala dura trovano conforto nella decisione del presidente Usa Trump, nel dicembre 2017, di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele e trasferirvi la propria ambasciata.
I capi di stato arabi, almeno formalmente esternano, indignazione. Ma la loro reale attenzione va all’instabilità in Siria e Irak, e per l’Arabia Saudita alla fallimentare spedizione in Yemen. L’unica preoccupazione è che il Qatar, con la sua TV di “Al Jazeera”, ascoltata in tutto il mondo arabo, ormai cavalca con efficacia la causa palestinese, affiancata dalla Turchia.
Qatar e Arabia Saudita sono ai ferri corti e lo resteranno platealmente per tre anni. Quanto alla Turchia, nelle manifestazioni di protesta a Istanbul e in Anatolia molti oratori hanno auspicato di ridar vita al glorioso califfato Ottomano solo possibile liberatore dei Mussulmani; in quanto ciò che sta avvenendo sarebbe frutto del tradimento dei paesi arabi (da Ahval 8 dic. ’17).
Gli alti papaveri dell’esercito israeliano (ora IDF Israel Defense Forces) non nascondono la loro intenzione di indurre gli abitanti di Gerusalemme Est e della Cisgiordania a tornare “nella loro patria naturale”, cioè la Giordania. Hamas e l’Olp non hanno la forza politica di reagire con una nuova Intifada, come forse spera l’esercito israeliano. La mancata Intifada non impedisce ad Israele l’ennesima operazione punitiva a Gaza (dal macabro nome di “Giorni del sangue”) nel giugno 2018; e successivamente un’altra incursione sanguinosissima nel novembre 2019. La situazione è fondamentalmente in stallo, cioè per i palestinesi il genocidio diventa norma di vita.
Difesa di Israele o dei profitti petroliferi?
Nel 2019 entra in funzione il giacimento Leviathan al largo di Gaza. Scoperto nel 2010, dopo l’inizio di sistematiche prospezioni nel mare antistante Gaza e Israele che ha permesso l’attivazione di pozzi offshore più piccoli, è un enorme contenitore di 535 miliardi di metri cubi di gas naturale. Sfruttato dal consorzio israeliano Delek e dalla texana Noble (che poi cede i suoi diritti all’americana Chevron nel 2021). La vicenda è seguita con grande interesse dalla Turchia che nel febbraio 2018 è intervenuta militarmente per impedire a Eni di avviare esplorazioni nella zona di Cipro. La Turchia infatti non vuole essere esclusa dalla partita idrocarburi del Mediterraneo orientale (che oltre a Cipro e a Israele vede un terzo recente settore di estrazione super promettente davanti alle coste egiziane). Una partita che riguarda l’estrazione ma anche le pipelines per trasportare gas e petrolio (e la Turchia non vuole che colleghino tutte Leviathan alla Grecia, all’Egitto o a Israele). Riguarda i porti da cui far partire le navi con il gas liquido verso l’Europa (e su cui fino al 2012 il Qatar ha esercitato un predominio). La Turchia si fa quindi paladina dei diritti dei palestinesi, perché vuol avere la sua fetta. Mettere lo zampino militare in Libia e difendere gli interessi petroliferi di Gaza (che non ha le capacità per sfruttarli in proprio) è il mezzo per difendere i propri affari e la propria leadership. Coincidenti gli obiettivi del Qatara cui la stampa italiana di settore dà ampio spazio, con il consueto corollario di ipocrite giustificazioni umanitarie (“pensate quante cose belle si potrebbero fare per i bambini palestinesi con i soldi di quel giacimento…”). Lo stesso Draghi, nella sua ricerca di fonti alternative al gas russo, nel giugno ’22 si reca in Israele per essere della partita.
Ma “gli amici” dei palestinesi devono fare i conti con un asse che vede intorno al giacimento un solido accordo Egitto-Israele, esteso poi a Giordania, Marocco ed Emirati Arabi (con i quali la distensione è stata sancita con gli Accordi di Abramo dell’agosto 2020).
Una “normale” tensione che diventa catastrofe
Per la destra israeliana svuotare Gaza dai suoi abitanti o per lo meno di Hamas è una rosea prospettiva, nessun timore più che i terroristi minaccino gasdotti e piattaforme (non a caso in questi giorni si è dovuto interrompere per precauzione le attività del giacimento Tamar).
Chi invece non può permetterselo è l’Iran teso a difendere le sue quote di mercato dalla concorrenza araba, ma anche a ridurre la pressione di una alleanza Israele Usa Arabia Saudita. Senza contare che il consistente susseguirsi di contatti diplomatici fra Arabia Saudita e Israele è preoccupante. E il dissenso interno non demorde, alimentato dalla crisi economica.
Nel frattempo Gaza resta cristallizzata. Scoppiamo i 10 giorni di scontri a Gerusalemme Est nel maggio 2021. Il conflitto si accende intorno allo sfratto di famiglie palestinesi residenti da anni nella città vecchia e cacciate per un cavillo giuridico. Ancora una volta Netanyahu, che ha mancato un risultato decisivo nelle recenti elezioni di marzo, cerca un “diversivo” per guadagnare tempo e dividere i suoi oppositori e costringendo i civili israeliani dentro la logica del tempo di guerra, in modo che dimentichino la corruzione del suo governo, la crisi economica, le discriminazioni che colpiscono gli ebrei di serie B, i falasha etiopi, i mizrahì ( o sefarditi).
I nuovi ebrei, gli immigrati recenti, ad esempio i russi (ormai il 20% della popolazione di Israele) vengono aizzati contro i palestinesi, in cambio della promessa di una casa in città. Il Covid dilaga e mentre gli ebrei sono già alla seconda vaccinazione, solo l’1% dei palestinesi è vaccinato (i centomila che ancora lavorano in imprese israeliane). Israele richiama 5 mila riservisti da schierare lungo le coste di Gaza a salvaguardia dei suoi giacimenti. E… bombarda Gaza (200 morti).
Una pagina luminosa è quello dello sciopero generale del 18 maggio 2021. Tutti i palestinesi di tutti i territori occupati si fermano. Anche i cantieri israeliani, dove la forza lavoro è araba. E scioperano per solidarietà i palestinesi di Libano e Giordania. Centinaia di arabi e palestinesi sfilano in corteo per chiedere la fine delle violenze e dell’occupazione. Lo faranno anche le donne arabe e palestinesi ogni anno in ottobre 2023 qualche giorno prima dell’attacco di Hamas.
Conclusioni
Hamas non può svincolarsi dall’Iran che lo arma, i palestinesi disperati non hanno alternative, inevitabile che una quota appoggi Hamas e comunque è la leadership di Hamas che decide.
Netanyahu deve tacitare le opposizioni, rinverdire la sua stella politica. Hamas attacca. Scatta la reazione “difensiva”. Tutte le alleanze (inevitabili visti gli interessi in campo) scattano.
La miscela esplode. Inizia il massacro
Questa succinta ricostruzione storica vuole dimostrare attraverso i fatti da un lato l’assoluta necessità per gli internazionalisti di appoggiare la pluridecennale lotta del popolo palestinese contro il terrorismo di Stato sionista per il suo diritto ad esistere e per la sua emancipazione sociale. Dall’altro lato come questa lotta debba a sua volta emanciparsi dall’egemonia politica delle borghesie arabe ed islamiche, le quali hanno sempre usato i palestinesi per i propri fini
Abbiamo in tempi non sospetti continuamente denunciato le responsabilità degli imperialismi, a partire da quelli europei, a partire dal nostro che arma Israele e tutte le autocrazie medio orientali.
Perché se è vero che i palestinesi non saranno liberati da Hamas, noi non dobbiamo mai dimenticare che il nemico è in casa nostra.