Vinta la guerra militare, con l’approvazione unanime della risoluzione ONU che sancisce l’occupazione dell’Irak gli Stati Uniti hanno vinto anche la guerra diplomatica. La vittoria politica nel ginepraio del Golfo e del Medio Oriente potrebbe rivelarsi nel lungo periodo più sfuggente.
Il governo italiano ha mandato le sue truppe per partecipare al bottino. Gran parte della sinistra, fatta l’ennesima marcia della pace, ha ipocritamente afferrato la foglia di fico dell’ONU per dare la sua benedizione.
Non aspettava altro per poter continuare a servire l’imperialismo italiano. Da comunisti e internazionalisti ribadiamo con Karl Liebknecht: il nemico principale è in casa nostra!
OPPOSIZIONE PROLETARIA ALL’IMPERIALISMO ITALIANO!
L’occupazione dell’Irak da parte degli Stati Uniti è un atto nella contesa per la spartizione del mondo tra le maggiori potenze. Per una coerente battaglia internazionalista ne vanno comprese natura e cause.
Perché nel 1991 la macchina militare USA, appoggiata dagli imperialismi europei, schiaccia l’esercito irakeno che ha invaso il Kuwait, ma lascia in piedi il regime di Saddam, mentre nel 2003 gli Stati Uniti pianificano l’occupazione di Baghdad e il rovesciamento di Saddam? Perché questo mutamento di strategia tra le amministrazioni di Bush padre e di Bush figlio?
La lotta al terrorismo internazionale ha fornito il clima psicologico, la camp agna sulle “armi di distruzione di massa” il pretesto politico per il casus belli, ma questo non è che il contorno ideologico. Le ragioni della mutata strategia americana vanno ricercate nei mutamenti strutturali sul mercato energetico e nei mutati rapporti di forza tra le potenze.
Interessi vitali nel Golfo
L’analisi condotta da Arrigo Cervetto sull’area del Golfo Persico ci fornisce strumenti di metodo, punti fermi e chiavi di lettura per analizzare la situazione attuale. Nel luglio 1979, nella serie di vertici internazionali tenutisi sull’onda del secondo shock petrolifero, Cervetto cita “i propositi espressi da Carter per una forza di intervento nel Golfo Persico” e osserva che “le maggiori potenze parlano ormai apertamente di guerra a difesa dei loro interessi vitali”. Pur non ritenendo “che, nell’attuale situazione, la lotta per l’energia possa condurre a guerre tra le grandi potenze imperialistiche”, sostiene che di guerra si parla non per retorica esagerazione, ma “per l’effettiva posta in gioco”. Nel febbraio 1980, in seguito all’invasione russa dell’Afghanistan che aggira l’area del Golfo, Cervetto scrive che toccare “l’arteria pluridimensionale del Golfo Persico…significa provocare una convulsione bellica in tutto il corpo imperialistico, dai piedi alla testa. Gli Stati Uniti, dichiarandola loro interesse vitale, la pongono sotto la loro tutela militare”. Ma conclude che “correnti inglesi, francesi e tedesche dalla tensione sull’arteria del Golfo Persico hanno ricevuto una spinta ad intervenire nella nuova partita di caccia alle sfere di influenza”.
Ancora nell’agosto del 1982, mentre è in corso la sanguinosa guerra Iran-Irak (Prima guerra del Golfo) Cervetto afferma che “da un paio d’anni è aperta una partita di estrema importanza nell’area nevralgica che va dal Medio Oriente al Golfo Persico e che ha per posta una ingente produzione petrolifera, una enorme riserva energetica, una quota consistente di rendita mondiale sulle materie prime e una serie di equilibri parziali, la quale inevitabilmente si ripercuote nell’equilibrio generale tra le superpotenze e tra le principali potenze imperialistiche”.
Energia come interesse vitale, lotta per le sfere di influenza tra tutte le potenze imperialistiche, che si ripercuote sull’equilibrio generale: questi i criteri marxisti per analizzare l’intervento delle potenze nell’area del Golfo.
Nel 1982 Cervetto denunciava il fatto che “le potenze europee, con Francia e Italia in testa, hanno compiuto anche indirettamente forti vendite di armi” ai contendenti. Nell’articolo “Interventismo manutengolo nel Golfo” del 1987, “ottavo anno di carneficine” tra Iran e Irak, notava che “l’imperialismo italiano, invocando la difesa della libertà di navigazione, si trova ora coinvolto militarmente nelle acque di Hormuz. Ma la sua presenza economica e politica nell’area del Golfo è costante e di lunga data” e rinfacciava al PCI “che puerilmente si imbroncia e scalpita” di aver appoggiato l’interventismo “fratello gemello” in Libano nel 1982.
L’articolo riprende poi l’analisi del 1957 su Azione Comunista dell’inserimento dell’ENI in Iran come “punta d’attacco di uno schieramento tedescostatunitense” per scalzare “le posizioni anglo-francesi”. In essa caratterizzava la corrente di Base, dominante nella DC e nel governo insieme ai toscani Gronchi e Fanfani, come “atlantismo mediterraneo, tendente a sfruttare l’alleanza con gli USA e la formazione del MEC per riconquistare all’Italia una condizione di potenza nel Mediterraneo” pur se “in un ruolo subalterno”.
Nel settembre 1990, di fronte all’invasione irakena del Kuwait e alla reazione americana, Cervetto scrive che “le grandi compagnie petrolifere americane e britanniche, che sono poi quelle che riforniscono Europa e Giappone, sono riuscite a determinare una politica in grado di affermare il peso della potenza statunitense, seguita da quella inglese, nella contesa mondiale” e nel novembre sostiene che “appartiene alla capacità politica della potenza americana di utilizzare il crollo russo per modificare il rapporto con la Germania e con le potenze europee. Ha potuto cogliere nel Golfo tutti quei benefici che non ha potuto raccogliere in Europa [dove] sono andati in gran parte alla Germania”. Nel gennaio 1991, quando l’offensiva di USA e alleati è in corso, Cervetto afferma che “nella penisola arabica e nel Golfo gli USA insediano una imponente forza militare per svolgere il ruolo di bilancia in un crocevia decisivo di interessi europei e asiatici… L’imperialismo americano si trova, così, ad essere al centro di una convergenza di interessi delle varie potenze ad un momento di assestamento. Nella prospettiva di future nuove dislocazioni nello scacchiere mondiale gli Stati Uniti si vanno collocando al centro di ogni bilancia di potenze o, in altre parole, del nuovo ord ine mondiale”. Il riarmo reaganiano aveva permesso agli USA di acquisire “una superiorità militare relativa, una capacità da una guerra e mezza”.
Superiorità consolidata
Questa superiorità relativa si è consolidata con l’implosione della “superpotenza” russa, che ha accresciuto il distacco degli Stati Uniti sui potenziali rivali. La forte espansione americana degli anni ’90 ha inoltre rafforzato anche economicamente gli USA rispetto ai concorrenti europei e giapponesi. Come afferma Lenin, “in regime capitalistico non è possibile altra base, altro principio di spartizione che la forza…E la forza cambia nel corso dello sviluppo economico”. 1 Secondo i dati del FMI, confrontati ai cambi correnti tra il 1990 e il 2002 il Prodotto Interno Lordo (PIL) d ell’Europa a 15 è sceso dal 29,7% al 26,9% del prodotto mo ndiale, mentre quello USA è salito dal 25,5% al 32,5%. Questo rafforzamento sconta la rivalutazione del dollaro negli ultimi anni ‘90. Ma anche se confrontiamo il PIL a parità di potere d’acquisto (PPP) l’EU-15 scende dal 22% al 19,7%, mentre gli Stati Uniti restano poco sopra il 21%. La Cina sale dal 2.4 al 4,4% al cambio corrente e dal 6,3 al 13% a PPP, ma la sua capacità militare, soprattutto offensiva, è molto più correlata al primo dato che al secondo, nel quale pesa la massa dei beni di consumo e dei servizi per una massa di 1,3 miliardi di persone. La riunificazione tedesca ha modificato i rapporti di potenza in Europa, e ha sbloccato la strada verso l’Est europeo. Ma non avendo prodotto ad oggi una forza capace di centralizzare politicamente e militarmente l’Europa, essa non ha avuto ripercussioni significative sull’area del Golfo.
L’espansione dell’ultimo decennio del secolo ha alimentato in diverse correnti americane, influenti nell’amminist razione, la speranza che il XXI secolo sarà il “secolo americano”. Queste correnti ben prima degli attacchi terroris tici dell’11 settembre 2001 su New York e sul Pentagono hanno premuto nell’Amministrazione per pianificare l’occupazione militare dell’Irak. La consolidata superiorità militare americana garantiva dalla possibilità che qualunque altra potenza potesse contrastare gli USA manu militari o con massicce forniture di armi (come fece l’imperialismo russo nel caso del Vietnam). La campagna avrebbe inoltre rafforzato la leadership mondiale americana, costringendo le altre potenze, soprattutto europee ed asiatiche, a schierarsi al seguito degli Stati Uniti, o rischiare di essere escluse dalla nuova spartizione.
Mutamenti strategici nel mercato petrolifero
La posta in gioco irakena è consistente in sé (circa un decimo delle riserve mondiali di petrolio), ma diviene più importante in seguito al rafforzarsi di tendenze nazionaliste in Arabia Saudita, principale baluardo americano nel Golfo dopo la caduta dello Scià in Iran nel 1979 oltre che custode di oltre un quinto delle riserve conosciute di oro nero. Il controllo sull’Irak è teso anche ad evitare il propagarsi di tendenze nazionaliste e panarabiste nella regione. Questi obiettivi politici americani hanno accresciuto la loro importanza inseguito ai mutamenti avvenuti nelle condizioni strategiche del mercato energetico e del petrolio in particolare. Negli Stati Uniti è continuato il pluridecennale declino della estrazione petrolifera, man mano che i giacimenti maggiori e più facilmente raggiungibili si esauriscono. Nel 1970 gli USA raggiunsero il massimo della loro produzione con 9,64 milioni di barili al giorno (mb/g); nel 1991 la produzione era scesa a 7,42 mb/g, nel 2001 a 5,85 mb/g con un ulteriore calo del 21%, mentre la domanda USA di petrolio aumentava da 16,7 a 19,7 milioni b/g. Gli Stati Uniti hanno l’8,6% della produzione mondiale di petrolio, e un quarto dei consumi mondiali, ma meno del 2% delle riserve accertate. E’ vero che non siamo vicini all’esaurimento assoluto delle risorse, più volte annunciato e più volte smentito a partire dagli anni ’20. Basti pensare che per il Canada l’autorevole «Oil&Gas Journal» nel 2003 ha elevato le riserve accertate di petrolio da 4,9 a 180 miliardi di barili, includendo le sabbie bituminose dell’Alberta. Grazie a questa inclusione, dovuta al collaudo di nuove tecnologie per l’estrazione (redditizie solo a prezzi elevati del petrolio), la regione NAFTA (USA, Canada e Messico) balza dal 5,3% al 17,7% delle riserve mondiali. Anche negli Stati Uniti vengono fatte sempre nuove scoperte, utilizzando tecnologie sempre più sofisticate, ma a profondità sempre maggiori e perlopiù offshore, quindi più costose da sfruttare. Secondo uno studio delle società di ricerca John S. Herold e Harrison Lovegrove su 200 società energetiche, riportato dal «Financial Times» (22/9/2003) tra il 2000 e il 2002 vi è stato un drastico spostamento negli investimentinell’estrazione petrolifera: gli investimenti negli Stati Uniti sono caduti di oltre il 20% e del 10% circa in Canada, mentre nel resto del mondo hanno avuto aumenti a due cifre. Questo spostamento sarebbe stato provocato da un aumento del costo di ritrovamento e estrazione nel Nord America da 4,76$ per barile nel 1999 a 11,85$ nel 2002, contro il costo medio di 3,33$ in Asia (inclusa la Russia asiatica) e 3,31$ medi in Africa e Medio Oriente.
Ineguale dipendenza dal Golfo
E’ di conseguenza cresciuta e continua a crescere la dipendenza USA dalle importazioni: da meno dal 45% nel 1990 al 61% nel 2002 (quota delle importazioni sul consumo di petrolio e derivati), una dipendenza analoga a quella dell’Europa. Il controllo sulle fonti esterne di petrolio e sulle vie di trasporto assume perciò una importanza strategica crescente per l’imperialismo americano: il «Wall Street Journal» dà notizia di piani del Pentagono per ridispiegare una grossa parte delle forze armate USA attorno ai bacini energetici del Golfo, del Caspio, della costa occidentale africana.
Anche le direttrici di rifornimento petrolifero sono mutate nell’ultimo decennio. Dagli Stati del Golfo nel 1991 gli USA importavano 1,8 mb/g,poco più di metà dell’Europa dei quindici (3,3mb/g). Tra il 1991 e il 2002 gli Stati Uniti accrescevano del 23% le importazioni dal Golfo, mentre l’Europa a 15 le riduceva del 40%. Nel 1991 le importazioni americane dal Golfo erano del 44% inferiori a quelle europee, nel 2002 le superavano del 13%. Il Giappone, che nel 1991 importava dal Golfo quanto l’Europa, nel 2002 ha importato 3,9 mb/g, quasi il doppio dell’Europa.
Gli Stati Uniti dipendono dal Golfo per il 13% dei loro consumi di petrolio, l’Europa per meno del 7% (15% nel 1991), il Giappone per oltre il 70%, la Corea del Sud per oltre il 60%. Ma quella europea è la media del pollo. La Gran Bretagna è esportatrice netta di petrolio, la Francia ha ridotto la sua dipendenza dal Golfo dal 31% del 1991 al 19%, l’Italia dal 26 al 17%, la Germania dal 7,5 al 2,6%. L’Europa continentale ha ridotto la sua dipendenza dal Golfo importando più petrolio non-OPE e soprattutto russo. Ma Francia e Italia ne dipendono ancora più degli Stati Uniti, mentre la Germania se ne è quasi svincolata, legandosi maggiormente alla Russia, con la quale progetta nuovi oleodotti.
Nel breve e medio periodo, la diversificazione delle fonti fuori dal Golfo permette di sottrarsi ai rischi di un’area infiammabile. Ma nel lungo periodo chi si garantisce l’accesso al Medio Oriente, che contiene tra la metà e i due terzi delle riserve accertate di petrolio del mondo, acquisisce un decisivo vantaggio strategico. Gli Stati Uniti con le due guerre del Golfo hanno puntato a garantirsene l’accesso e il controllo con le armi. Con questo hanno acquisito un fortissimo potere di condizionamento su Giappone e Corea, che dipendono in modo vitale dai rifornimenti del Golfo (essi infatti hanno espresso appoggio agli USA, e invieranno truppe a sostegno dell’occupazione e soprattutto denaro). Il potere di condizionamento è minore nei confronti di Francia e Italia, e insignificante sulla Germania – fin quando la Russia, cui stime americane attribuiscono solo il 5% delle riserve mondiali, ma che potrebbe contenerne molte di più – potrà rifornirla.
Nuova spartizione manu militari
L’Irak da solo contiene intorno al 10% delle riserve mondiali, oltre 5 volte le riserve degli Stati Uniti. L’embargo imposto tramite l’ONU agli investimenti esteri in Irak dal 1990 ha bloccato contratti stipulati tra Irak e i gruppi petroliferi francesi confluiti nella TotalFinaElf, riguardanti lo sfruttamento di riserve per 12,5-27 miliardi di barili (MDb), e contratti stipulati da gruppi russi (Lukoil in testa) per 7,5-15 MDb. Anche la cinese CNPC e l’italiana ENI si erano aggiudicati contratti minori.
Nel giugno del 2001 Francia e Russia proposero al Consiglio di sicurezza ONU di togliere le restrizioni agli investimenti in Irak. USA e GB si opposero. Con la guerra hanno ora conquistato i campi su cui francesi e russi accamp avano diritti. E’ il rifiuto americano di garantire i contratti francesi e russi che spiega il rifiuto francese e russo di avallare la guerra americana. La Germania avrebbe beneficiato indirettamente delle partecipazioni francese e russe in Irak, ma poteva anche puntare a una compartecipazione con gli americani. Questa seconda linea è stata sostenuta soprattutto da gli esponenti dell’opposizione CDU e CSU, mentre Schröder ha portato avanti una linea nazional-europeista che privilegia l’asse con la Francia, nel tentativo di costituire un blocco europeo indipendente dagli Stati Uniti. In Russia si sono scontrate una linea favorevole all’accordo con gli americani e una linea che privilegia il rapporto con la Germania, primo partner commerciale e finanziario, sostenuta anche dalle correnti nazionaliste asiatiste. Questa linea ha prevalso, anche se Putin ha smussato i toni e cercato di mantenere aperti i rapporti con gli USA.
Battaglia d’Europa
Oltre alla Gran Bretagna, che dopo la sconfitta di Suez nel 1956 è sempre andata nel Golfo con gli americani, mai contro, e che ha affiancato gli USA nella guerra, si sono schierati cn gli Stati Uniti anche i governi di Italia, Spagna e dei paesi dell’Est, Polonia in prima fila, che hanno inviato truppe a sostegno dell’occupazione americana. Essi hanno ritenuto di potere così ottenere maggiori vantaggi nella spartizione mediorientale; appoggiandosi agli USA hanno inoltre inteso controbilanciare l’asse franco-tedesco all’interno della UE. I vertici ENI si sono già recati a Baghdad (con aereo militare italiano) per trattare la loro quota del bottino sottratto a francesi e russi, mentre il Ministero italiano delle Infrastrutture ha ottenuto dal proconsole USA in Irak, Paul Bremer, l’incarico di redigere il Piano generale dei trasporti dell’Irak (per investimenti stimati a oltre 45 miliardi di euro) nella speranza che una fetta significativa spetti alle imprese italiane del settore («Sole 24 Ore» del 2/10/03).
La guerra dell’Irak è stata anche una guerra per l’Europa, nella quale gli Stati Uniti hanno perseguito un altro loro “interesse vitale”: impedire l’unificazione politico-militare del continente, che costituirebbe inevitabilmente una potenza rivale agli Stati Uniti, e di forza equivalente. Alla prova della guerra, la politica estera e di difesa comune è risultata una chimera da relegare ad un indeterminato futuro. L ’ asse franco-tedesco, nucleo centrale per ogni centralizzazione europea, ha retto all’urto, ma è rimasto isolato.
La foglia di fico dell’ONU
La Francia ha cercato di utilizzare la carta ONU per rientrare nella spartizione americana. I sofismi all’ONU prima sulla legittimità della guerra, poi sul ripristino della sovranità irakena erano infatti solo pretesti ideologici che hanno coperto lo scontro di interessi economici e strategici. Il «Wall Street Journal» ha fatto campagna perché ai francesi non fosse concesso di riavere – in cambio dell’assenso alla “foglia di fico” ONU sull’occupazione americana – parte di ciò che avevano ottenuto appoggiando Saddam. Nella risoluzione ONU gli USA non hanno fatto concessioni sostanziali sul trasferimento del potere in Irak, anche se non è ato sapere se il voto favorevole della Francia sia stato dato in cambio di concessioni sul petrolio irakeno.
Dietro la foglia di fico ONU si è subito riparata gran parte della “sinistra” italiana, che ora ha un pretesto per sostenere la spedizione armata dell’imperialismo italiano.
Gli Stati Uniti hanno circa metà della spesa militare mondiale, quindi una superiorità militare assoluta, mentre hanno tra un quinto e un quarto del prodotto mondiale. Non hanno quindi la forza di tenere economicamente tutto quello che potrebbero conquistare militarmente. Lo stesso controllo sull’Irak potrebbe inoltre rivelarsi molto più dispendioso e difficile da conservare sul lungo periodo di quanto gli ideologi del nation building avessero immaginato. L’imperialismo americano ha quindi necessità di alleati, che il controllo sul campo gli ha permesso di attrarre alla sua corte – potenze grandi, medie e piccole che insieme hanno una quota di prodotto mondiale analoga agli Stati Uniti – ma che domani potrebbero staccarsene. Se sul erreno militare con il crollo dell’URSS vi è stato il passaggio dal bipolarismo all’unipolarismo, sul terreno economico e politico rimane il multipolarismo, che l’ineguale sviluppo capitalistico rafforzerà, in tempi e modi impossibili da prevedere.
Una certezza l’abbiamo: solo a partire dalla denuncia oggi contro il nemico di casa nostra, potremo preparare il movimento operaio a trasformare in rivoluzione sociale le crisi e le guerre che il nuovo secolo prepara.
R. L.
1. V. I. Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, agosto 1915