Dopo il precedente articolo sulle elezioni israeliane, pubblichiamo un bilancio dei risultati.
Sono state elezioni combattute all’ultimo voto, la durezza dello scontro si vede dal tasso di partecipazione al voto (71,8%), la più alta dal 1999, cinque punti in più rispetto al 2013.
In particolare la partecipazione degli arabi al voto è passata dal 56,5% del 2013 al 70,1% (provocando uno sprezzante commento da parte di Netanyahu “stanno andando a votare a branchi, pagati da denaro straniero”). Una battuta fuori luogo a vari livelli, tenuto conto che il 90% dei finanziamenti per la campagna elettorale sua e dei principali leader del Likud provengono dagli Usa, sia pure dalla lobby ebraica.
Se le elezioni erano un referendum sulla persona di Netanyahu, come l’ha impostata il Campo sionista di Herzog (“chiunque ma non Netanyahu), il premier uscente ha vinto, sia pure cannibalizzando i partiti alleati di destra, in particolare Yisrael Beiteinu di Avigdor Lieberman e Habayit Hayehudi (Focolare Ebraico) di Naftali Bennett.
Ed ora spetta a lui il primo tentativo di formare il nuovo governo. Ha a disposizione 28 giorni e se occorre altri 14. Per avere la maggioranza alla Knesset (120 seggi) Netanyahu può contare sui 30 seggi del Likud, ma non gli basterà imbarcare la destra nazionalista laica di Libermann (Yisraël Beiteinu – 6 seggi) la destra religiosa («Shas» 7 seggi, «Giudaismo unificato dalla Torah», 6 seggi, e «Casa Ebraica», cioè HaBayit HaYehudi, 8 seggi): la somma dà 57 seggi. Quindi sarà cruciale l’apporto di Moshe Kahlon, ex ministro delle comunicazioni col Likud, che ha corso per conto suo con Kulanu (Tutti noi), ottenendo 10 seggi. Ma dati i trascorsi di scontro personale con Netanyahu non sarà semplice. E ancora più complicato sarebbe la trattativa con Yair Lapid il giornalista fondatore di Yesh Atid (C’è un futuro), il partito di centro che conquista 11 seggi, dal momento che Lapid abbandonò l’ultimo governo per dissensi sulla legge di cittadinanza (Nota 1).
Il presidente di Israele, Reuvin Rivlin, si è pronunciato per un governo di unità nazionale, che per ora nessuno sembra volere. Comunque in prima battuta il premier uscente ha chiesto informalmente a Herzog, leader del Campo sionista, se intendeva partecipare a un governo di coalizione, Herzog ha risposto che non c’erano le condizioni. Secondo i commentatori Netanyahu ha semplicemente cercato con questo di abbassare le pretese dei suoi futuri partners (Nota 2).
Fin qui la contabilità borghese delle coalizioni di governo. Ma che cosa è accaduto con queste elezioni a livello politico e sociale? E’ tutto come prima?
Il nuovo governo, per quanto sembra, sarà simile a quello precedente, ma con un Likud più spostato a destra. La campagna di Netanyahu è stata aggressiva e concentrata sul tema della sicurezza, una campagna da tempo di guerra, in cui il nemico sono gli arabi israeliani, i palestinesi, l’estremismo islamico e l’Iran con il suo spauracchio nucleare. Ha puntato sulla paura come sentimento dominante e si è presentato come l’uomo della provvidenza in grado di garantire la sicurezza interna ed esterna del paese. Il suo avversario Herzog che parlava di problemi reali come la mancanza di case, il costo della vita, la scadente assistenza sanitaria è sembrato debole.
Per Herzog si è mobilitata la cosiddetta classe media urbana e i liberals (che speravano di liberarsi dal parassitismo della destra religiosa), ma non è bastato.
Per il suo avversario si sono mobilitati i coloni, gli ultra religiosi, ma anche l’industria militare e quella ad alta tecnologia, cui è stato promesso di liberalizzare ulteriormente il mercato del lavoro, i militari e gli immigrati recenti.
Quindi tutti i problemi che avevano portato alla indizione di nuove elezioni restano sul tappeto.
Prima fra tutte l’ineguaglianza sociale. Da anni le statistiche della Bank of Israel, ampiamente illustrate da Haaretz sottolineano che l’ineguaglianza è aumentata in Israele più che in tutti gli altri stati sviluppati, non solo in termini di reddito, ma anche di accesso alla sanità e all’istruzione. Anche il gap salariale è aumentato enormemente, proprio a causa del gap di istruzione, mentre si sono attenuate le differenze uomo/donna. Israele ha portato avanti al massimo livello la rivoluzione tecnologica nell’industria, quindi la domanda di ingegneri e personale specializzato supera di gran lunga l’offerta sul mercato del lavoro e provoca un aumento salariale per chi possiede alte specializzazioni, superiore a quello medio dei paesi sviluppati. Ma questo ha spinto sotto la soglia della povertà ampi strati di lavoratori comuni. Finora queste alte specializzazioni sono state fornite dagli immigrati es. russi e dell’est europeo, mentre non c’è stata una estensione dell’istruzione a più ampi strati di popolazione già residente.
Il clima elettorale ha rinfocolato le tensioni arabo-israeliane all’interno del paese e palestinesi-israeliane.
Netanyahu in campagna elettorale ha rinnegato l’ipotesi di “due popoli due stati”, se ne avrà l’autorità continuerà con la politica delle colonie in territorio palestinese, con le espulsioni forzate dei palestinesi da Gerusalemme est e dalla Cisgiordania, con l’esproprio delle terre e con le centinaia di violenze quotidiane grandi e piccole. Non diminuirà la pressione su Gaza, soprattutto se i progetti di sfruttare il petrolio offshore nel Mediterraneo si concretizzeranno). All’interno del paese verrà probabilmente riproposta la legge di cittadinanza per i soli israeliani, introducendo una vera e propria apartheid.
Qualcuno ha visto in queste elezioni uno schiaffo all’amministrazione Obama e si attende un peggioramento dei rapporti fra i due paesi, ma la reazione Usa è stata ultra prudente. Il feroce attacco a Gaza e l’intensificarsi della colonizzazione non hanno indotto gli Usa a ridurre i finanziamento, militari e non a Israele. I democratici, anche se disapprovano la politica di Netanyahu non possono inimicarsi la lobby ebraica statunitense che controlla giornali autorevoli e finanzia le loro campagne elettorali per difendere i diritti dei palestinesi (Nota 3). Se mai la posizione di Netanyahu sarà osteggiata con decisione dai gruppi industriali e finanziari USA che vogliono la fine dell’embargo nei confronti dell’Iran e di cui Obama sta interpretando le esigenze.
Si è già detto dell’alta partecipazione al voto degli arabi israeliani e il fatto che per la prima volta i loro partiti hanno presentato una lista unica, temendo che l’innalzamento della soglia di eleggibilità (portata a 3,25%) li escludesse dal parlamento. In tutto la lista araba ha ottenuto 14 seggi (4 per Hadash, 9 per Lista Araba Unita, 3 seggi per il nazionalista Balad) contro gli 11 di quando si presentarono separati nel 2013. Molta attenzione ha ottenuto il giovane Ayman Odeh, espresso dal partito di estrema sinistra Hadash, che ha agitato il tema dell’eguaglianza e dei diritti, al posto dei temi tradizionali del nazionalismo palestinese, una novità che andrà meglio approfondita. Quel che è certo è che i vecchi burocrati dell’ANP continueranno anche con questo governo la loro politica che salvaguarda gli interessi dei ricchi palestinesi e lascia i lavoratori senza prospettive.
La società israeliana sta diventando sempre più classista ed eterogenea, inevitabilmente la borghesia al potere deve esalta l’appartenenza “di sangue” all’ebraismo come elemento unificante, di qui la proposta di legge sulla cittadinanza riservata ai soli ebrei e la compiacenza verso la destra religiosa parassitaria e guerrafondaia. Le contrapposizioni pseudo etniche e religiose consentono di tenere separati gli sfruttati a qualsiasi gruppo appartengano in modo che non si coalizzino contro gli sfruttatori.
Nota 1: Solo se Netanyahu fallisse nel creare un governo, la palla passerebbe ad Herzog e al suo Campo sionista (24 seggi), che ottiene il suo miglior risultato dal 1992. Herzog sostiene che il tempo gli darà ragione, ma comunque sulla carta ha anche meno probabilità di farcela: con Meretz (4 seggi) e i due partiti centristi (Kulanu, Yesh Atid) arriva a soli 49 seggi e non potrebbe governare senza la lista araba (14 seggi), che è molto variegata al suo interno, non è detto che collaborerebbe e comunque costituirebbe un problema per i due partiti di centro.
Nota 2: Problemi si sono subito presentati con Libermann e Kahlon, che non hanno ancora sciolto le riserve su una eventuale partecipazione al governo, ma anche con Naftali Bennet che con i suoi 8 seggi pretende tre ministeri, uno per sé, gli altri per Uri Ariel e Shaker; infine Shas chiede il ministero dell’interno per Aeye Dari, sotto inchiesta per bustarelle.
Nota 3: I ben informati citano fra i media cartacei controllati dalle potenti famiglie ebree statunitensi il New York Review of Books, il New Yorker, il Weekly Standard, l’Atlantic, Foreign Affairs, Foreign Policy, Vox, Buzzfeed, Politico; grosse compartecipazioni azionarie ci sono nel New York Times e nel Washington Post. Molti parlamentari democratici che combattono per i diritti delle minoranze, come Chuck Schumer o Debbie Wasserman Schultz, hanno però cercato di imporre il silenzio stampa sui massacri a Gaza. La lobby ebraica finanzia generosamente i repubblicani come Sheldon Adelson. John McCain e Lindsey Graham. Ma il produttore televisivo Haim Saban, che sostiene la necessità di “nuke Iran” ha versato milioni di contributi elettorali alla Clinton come a Obama.