Prove di “Grosse Koalition”…

Dopo mesi di convulsioni politiche, ecco il governo Letta

Dall’ “Habemus Papam” di Bergoglio (alias Francesco I), all’ “habemus governum” di Giorgio Napolitano II.
Non c’è che dire, è un periodo di cambiamenti a ripetizione nel panorama italiano, e non solo…che passano dall’inedita e recente rielezione del presidente della repubblica, frutto a sua volta di un parlamento praticamente “bloccato” nell’esprimere uno straccio di governo.

Questa situazione, a sua volta, non è tanto causata da una legge elettorale sicuramente sfasata rispetto alle dinamiche internazionali dell’imperialismo italiano, ma soprattutto dal fatto che da un lato il crescente disagio sociale, dall’altro la diffusione di settori di borghesi “euroscettici” (se non propriamente “antieuropei”) portano alla paralisi le istituzioni della cosiddetta “seconda repubblica”.
Ecco dunque la necessità per la classe dominante di ricorrere al “colpo d’ ali” di quello che abbiamo definito il “presidenzialismo zoppo” di Giorgio Napolitano.

Dopo aver imposto nel novembre del 2011 il “governo tecnico” di Mario Monti, “forzando” una situazione in cui il centro-destra di Berlusconi (pur avendo esso votato nell’estate, non dimentichiamolo, Manovre da 60 miliardi di euro) non sembrava rispondere appieno agli imput di Bruxelles e dei settori più “europeisti” del capitale, ora lo stesso Napolitano rimette praticamente in sella un altro governo , per dirla alla tedesca, di “Grosse Koalition”. E tutto questo avviene mettendo insieme le “seconde file” di soggetti politici ripetutamente e dichiaratamente presentatisi come “incompatibili”: il PD ed il PdL. Con l’aggiunta di “garanti tecnici” della montiana Lista Civica e della “ripescata” UDC!

Un nuovo “capolavoro” di equilibrismo levantino, sul filo dei dettati imposti dalla carta costituzionale, da parte del Capo di Stato dell’imperialismo italiano, condotto col plauso quasi unanime dell’opinione pubblica borghese, delle associazioni imprenditoriali, dei sindacati (la CGIL arriva dopo, ma arriva…), e della stessa chiesa cattolica.
Una soluzione di “buon senso” -così viene definita- per permettere al paese di “ripartire” e di non affondare nelle secche delle “contrapposizioni sterili”. Anzi, molti commentatori arrivano persino a sottolineare nel governo di Enrico Letta il segno del cambiamento: finalmente si “torna alla politica” (!?), si mette in campo una nuova leva di ministri, si dà spazio alle donne, si tolgono di mezzo personaggi che per storia e formazione suscitano “contrapposizioni”, le quali vanno invece superate per “uscire dalla crisi”.

A dire il vero, i temi ed i toni spesi nell’argomentare la necessità del governo Letta non si scostano dalla stessa solfa che sentiamo da anni e che si è scaricata puntualmente sulla pelle di milioni di proletari.
Ciò che invece è interessante mettere in evidenza sono i seguenti punti di novità che emergono dal parto presidenzialista di Napolitano:
1) l’affermazione -appunto- di un sistema presidenziale “de facto”, che va al di là della stessa vicenda personale dell’attuale presidente della repubblica; 2) questa soluzione -invece di una “pacificazione” delle tensioni politiche dentro un consolatorio “volemose bene”- potrebbe aumentare la crisi politica della borghesia italiana; 3) “saltate” le coalizioni per come esse si sono presentate alle elezioni di due mesi fa, i singoli partiti potrebbero entrare in un tunnel (non si sa quanto lungo e profondo) di fibrillazioni e decomposizioni.
Fermo restando il dato politico principale, e cioè che questo nuovo governo poggia sulla “garanzia” verso l’U.E. nella figura di grand commis di Stato come Fabrizio Saccomanni (ministro dell’Economia e delle Finanze), fino ad ora direttore della Banca d’Italia (corsi e ricorsi: da Dini a Ciampi). Questi è amico di Draghi ed avverso a Tremonti. Fermo restando l’ingresso al Welfare di un altro “bocconiano”: Enrico Giovannini (Istat; uno dei dieci “saggi” di Napolitano che hanno già preparato il programma di governo). Fermo restando che un altro dei “saggi” -Salvatore Rossi- prenderà il posto di Saccomanni. Fermo restando, infine, un riciclo dell’establishment tecnocratico che permette all’imperialismo italiano di garantire il suo “aggancio” a Bruxelles.

Detto questo, però, si pongono per esso dei seri problemi su come procedere dopo avere per ora “rassicurato” i mercati. E cioè:
a) Problema interno. Seppur Bersani ed i cosiddetti “giovani turchi” (Fassina), i dalemiani, i veltroniani (insomma tutta l’area ex PDS) debbano dover ingoiare l’affermazione di questi “popolari ruspanti post-democristiani”, e dare comunque il sostegno ad un governo dove il “giaguaro”, dato per morto, colpisce ancora…ciò non esclude, anzi implica, che le “fronde interne” possano essere sempre in agguato e riproporre “congiure” come quelle che hanno affossato Marini e Prodi. Tra l’altro, è vero che il governo è diretto da un PD come Enrico Letta (nipote di Gianni Letta, il Mazarino di Berlusconi, a sua volta vecchia cariatide DC), ma è ancor più vero che il PD non ha ministeri-chiave, accaparrati da tecnici “bocconiani” e dai “saggi”. Emma Bonino agli Esteri merita un discorso a parte.

D’altro canto, seppur, come si suol dire, nel PdL si faccia “buona faccia e cattivo gioco”, il malumore di settori non irrilevanti del partito è evidente: è vero che non sono passati nomi come Amato e Monti, ma è altrettanto vero che pure Brunetta -dato per certo- è stato sonoramente trombato, e che lo strombazzato cavallo di battaglia sulla “restituzione ed abolizione dell’IMU” potrebbe trasformarsi in uno spompato ronzino…Restituire l’IMU sulla prima casa del 2012 e cancellarla per il futuro costerebbe 8 miliardi di euro, più altri 4 miliardi annui dal 2014. Che nel bilancio pubblico non ci sono… Dunque?
Non ci sono, anche volendo immaginare l’ipotesi di un rimborso con titoli di Stato, da scontare sul debito pubblico e non sul deficit corrente…
Uno spazio di manovra molto stretto, e che si presta a future imboscate dentro la “Grosse Koalition”.

Per non parlare del fatto che, se è vero che “l’opposizione” SEL è sicuramente di per sé irrilevante e comunque collusa, permangono -pronte ad esplodere- le mine antieuropeiste del M5S e della Lega Nord (seppure quest’ultima sembra procedere con un’opposizione a sua volta piuttosto ambigua verso il governo Letta).

b) Problema esterno. L’esigenza che è emersa in questi mesi di crisi politica da parte di settori più decisamente “europeisti” dell’imperialismo italiano, è quella di ricontrattare con l’UE e la BCE i vincoli europei già sottoscritti.
Tale questione è emersa in tutte le prese di posizione di Napolitano (e dello stesso Letta davanti alla Merkel), nonchè dei partiti e dei “tecnici” che hanno preparato l’attuale governo. Già la dilatazione di due anni “concessa” dall’ U.E. alla Spagna in ordine al rientro del suo deficit al 3% parla assai chiaro. In più, le frizioni di Hollande e soprattutto del suo partito (PSF) verso il “rigorismo sfrenato” della Merkel rafforzano la possibilità e l’opportunità che si ricompatti più decisamente quel “fronte mediterraneodell’euro, in grado di ridefinire i rapporti di forza tra gli imperialismi europei.

L’allentamento dei vincoli di bilancio, sponsorizzato da tutti in nome dello “sviluppo”, finirebbe per mettere in discussione il Fiscal Compact, l’accordo europeo che impone un deficit strutturale annuo non superiore allo 0,5% del PIL lordo, e la riduzione del debito pubblico eccedente il 60% del PIL di un ventesimo all’anno. Poiché l’Italia ha un debito del 127%, significa che la differenza, cioè 67 punti, dovrebbe essere ridotta di 3,35 punti all’anno per venti anni, a partire dal 2015, cioè di circa 50 miliardi di euro l’anno! Di qui la necessità di rinegoziare, pena il declassamento prospettico dei paesi del Sud Europa, dentro e fuori l’U.E.

Da questo punto di vista, la Bonino agli Esteri potrebbe introdurre una componente allo stesso tempo di attivismo, di discontinuità e di instabilità nella definizione delle direttrici d’intervento del “nostro” imperialismo. E rilanciare un inedito “neo-atlantismo” dentro un risorgente protagonismo medio-orientale ed africano (Prodi ha già fatto qualche assaggio nel Sahel), in grado di far “smarcare” Roma -magari facendo “prove” inedite con Parigi e Madrid- dall’”ingessatura” europea imposta da Berlino.

Proprio nella guerra del Mali, come pure con l’intervento in Libia, avevamo visto riproporsi delle “prove d’armi” tra Gran Bretagna e Francia, che potrebbero alla fine “calamitare” la tradizionale politica “pendolare” dell’imperialismo italiano. Che queste non siano pure supposizioni, è confermato dal fatto che, ancor prima che fosse votato dal parlamento, il governo Letta ha avuto la fiducia del segretario di Stato USA John Kerry, definendo il capo dell’esecutivo “un amico buono e fidato degli USA”. Oltre alla sicurezza sul mantenimento degli impegni militari già in essere, e l’aumento delle spese in armamenti (l’Italia è al 10° posto nella graduatoria mondiale , con 70 milioni di euro al giorno), la Bonino, sottolineano a Washington, è una ex allieva del Dipartimento di Stato. Ella ha sostenuto i bombardamenti della NATO sull’ex Jugoslavia; ha sostenuto la guerra in Afghanistan, quella dell’Irak, e, in veste di vice-presidente del Senato, è stata tra i più accesi sostenitori della guerra alla Libia. La Bonino (vedi “Il Manifesto del 30/04/’13) “potrà contare sui corsi di “peacekeeping” della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa (già diretta da Maria Chiara Carrozza, ora ministro dell’Istruzione), che vengono tenuti anche in Africa.”
Continente nel quale, la neo-ministra ha molti agganci e “rapporti” politici.

Sul versante delle cosiddette “politiche sociali” il “nostro imperialismo straccione” si prepara ad altri pesanti giri di vite contro milioni di proletari. Non c’è bisogno di essere laureati per sapere che -IMU o non IMU- i conti non tornano per gli operai ed i disoccupati. Si applicherà anche qui il programma dei “saggi”, che prevede in merito una risistemazione della Legge Fornero: cioè l’aumento della flessibilità in “entrata” (= precariato come modello “stabile” di assunzione ). Ecco dove va a finire il fiume di parole sul “dare lavoro ai giovani”, “stabilizzandoli”!!!
Certo, si dovrà per forza di cose deliberare in merito ai pagamenti arretrati della P.A. verso le imprese. In caso contrario si sarebbe corso il rischio di compromettere del tutto ciò che è rimasto del “consenso di massa” piccolo-borghese all’imperialismo di casa nostra. Così come si dovranno per forza snellire i costi di una politica enormemente squilibrati ed appesantiti -per la borghesia- rispetto pure alla loro funzionalità.
Ma quale sarà il prezzo? E chi lo pagherà?

Già si parla di un “nuovo Welfare”, in cui dovrebbe prevalere il criterio della “povertà effettiva” e non del “dare tutto a tutti” (!!!). Il che potrebbe tradursi nei licenziamenti senza più “paracadute” (via gli ammortizzatori sociali) in cambio di “assegni ai bisognosi”. Guardando reddito familiare, figli minori a carico, proprietà, patrimoni ecc. Insomma, uno sminuzzamento tale da ridurre il costo totale del Welfare e dividere in un’arcipelago infinito la massa dei lavoratori e dei disoccupati. Un Welfare di un peloso cattolicesimo politico “ricacciato” dal portone principale del governo nazionale e non più dalla porta di servizio del privato e dei governi locali (vedi il “Celeste” in Lombardia).
Così facendo, con l’introduzione cioè “alla lunga, molto alla lunga”, di un “salario di cittadinanza” non solo si cercherebbe di tappare il buco dilagante di quella che già chiamano “insorgenza sociale”, ma si potrebbero smussare le angolature propagandistiche dei grillini e depotenziare inevitabili movimenti che la crisi rimetterebbe in moto.

Ai sindacati confederali (“fieramente” contrari a qualunque reddito o salario di disoccupazione, se no chi firmerà gli ammortizzatori sociali?), si potrebbe dare in pasto qualche altra manciata di “esodati” e sgravi fiscali al “lavoro”…dentro una logica interclassista così spudorata da preludere a leggi alla tedesca inerenti pure alla “votazione dello sciopero”.

Quella che sembra nettamente preclusa, proprio in relazione al venir meno ai capisaldi “universali” del Welfare nei paesi di punta dell’imperialismo, è la riedizione, sotto qualunque forma, di “partiti opportunisti” a larga base di massa. Non manca, anzi si accentua, la pletora di schegge di sinistra socialimperialista che cercano nuovi livelli di conciliazione tra capitalismo e “socialità”, al punto che un ex ministro montiano come Fabrizio Barca va a fare “inciuci sinistrosi” con Landini, Cofferati e Rodotà. Lo stesso dicasi per quelle “strane ammucchiate” di spezzoni rifondaroli in libera uscita che sognano “un’ Europa dei popoli”. Ma i margini che simili derive nazional-stataliste potranno trovare non saranno tra il proletariato, bensì in qualche altra aleatoria “trovata” parlamentaristica.

Ciò che serve ai lavoratori ed ai disoccupati è ben altro, dal momento che l’incrudimento della crisi li porterà ad entrare nel circuito della lotta sociale. Ciò che avviene in questi giorni nelle piazze della Spagna e della Turchia, dove riemerge la rabbia operaia mai compressa, la dice lunga sulle opportunità che si aprono per i rivoluzionari che intendono fare lotta politica e non chiacchiere.
Certo, dobbiamo tutti essere coscienti dell’importanza basilare di un’analisi classista viva e dal vivo , per darci una prospettiva politica. Se noi pensassimo che l’attacco alle condizioni di milioni di sfruttati fosse il derivato di situazioni temporanee e passeggere; oppure di “scelte” di questo o quel politico, di questo o quel governo, oppure della fase specifica di un capitalismo “liberista” e non del capitalismo tout court; oppure ancora dell’imposizione di “organismi sovranazionali”, e non delle leggi intrinseche del profitto, a partire da quello che persegue la nostra borghesia…Se noi pensassimo queste cose diffonderemmo chimere, seppur di “sinistra”.

Il nostro ancoraggio è invece un altro, e cerca di rifarsi alla parte migliore prodotta dal comunismo rivoluzionario; che va però vagliata continuamente nella pratica per esprimere sintesi politiche che facciano compiere passi in avanti: alla classe ed a noi stessi.
Non c’è scissione dicotomica tra i due termini (classe-partito), se non nel formalismo insulso di qualche “avanguardia” compiaciuta di sé stessa.

Gli “aborti riformisti” di cui si parlava, una volta che il massacro della spesa pubblica farà perdere loro anche gli ultimi ancoraggi che gli rimangono, produrranno una emorragia che noi dobbiamo essere in grado di intercettare. L’appuntamento è ora, non in un domani futuribile. La storia non attende, e punisce duramente i pigri ed i presuntuosi.
Attrezziamoci dunque -unendo con lucidità ma senza indugi le forze rivoluzionarie- per dare a masse crescenti di proletari un legame politico visivo, ed una prospettiva internazionalista.

RIMANE QUESTA L’UNICA SERIA E REALISTICA SOLUZIONE ALLE CRISI ED ALLE CATASTROFI DEL CAPITALISMO.

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