Profughi curdi fuggiti da Kobane e in attesa al confine con la Turchia
Lo scontro di interessi tra le potenze regionali e tra le potenze imperialiste globali in Medio Oriente è emerso con brutale chiarezza in occasione del violento attacco, in corso da tre settimane, sferrato dalle forze dei guerriglieri dello Stato Islamico (IS) nel Nord Siria, al confine con la Turchia, dove la maggior parte degli oltre 350 villaggi è stata conquistata. IS sta cercando di prendere il totale controllo di Kobane (in arabo Ain al-Arab), una città abitata a maggioranza da curdi a pochi chilometri dalla quale si trova un’exclave turca (1), contenente il mausoleo di Suleyman shah, nonno del primo sultano ottomano.
La Germania
Pochi giorni fa’ la Cancelliera tedesca, Merkel, ha rivolto aspre accuse contro la Turchia, perché nonostante sia un membro della Nato, non vuole intervenire a difesa di Kobane. La denuncia ha da una parte la funzione di accrescere il consenso dei tedeschi alla partecipazione al conflitto, facendo leva sui loro sentimenti umanitari, dall’altra suona come avvertimento alle mire di potenza regionale da parte della Turchia.
Una denuncia che in realtà non fa che confermare la spregiudicatezza con la quale Berlino, come tutti gli altri alleati, sta perseguendo i propri interessi di potenza all’interno della compagine creata su iniziativa americana contro IS (2), che arma, addestra e sostiene con bombardamenti la lotta di difesa dei curdi del Kurdistan iracheno (dove si sa c’è il petrolio), ma non fa altrettanto con i curdi siriani della Rojava, che potrebbero collegarsi ai curdi turchi scompaginando i piani di Ankara per impedirlo. E poi, conviene difendere Kobane, se il vero obiettivo è abbattere il regime di Assad? Il generale americano Martin Dempsey, capo dello stato maggiore congiunto, stima che ci vorrebbero centinaia di aerei americani per un costo di $1MD al mese per tenere libera un’area (Kobane, ad es.) in Siria dagli attacchi di ISIS e delle forze aeree siriane, senza alcuna sicurezza che questo possa modificare i rapporti di forza militari e consentire la fine della guerra civile siriana. Kobane non è dunque considerata dall’Alleanza un obiettivo strategico, e il destino della sua popolazione conta solo se fa notizia e smuove l’opinione dei paesi imperialisti a favore di un intervento armato.
L’ipocrisia della Merkel e del suo governo è evidente dato che i servizi segreti tedeschi sapevano certamente dell’appoggio che la Turchia dava a IS; già dal 2013 sapevano che i salafiti tedeschi che hanno aderito a IS (oggi sarebbero 400 persone) per andare in Siria passavano per la Turchia, sapevano e avrebbero potuto fermarli. Ma probabilmente è sembrato loro più opportuno lasciarli andare a combattere contro il governo di Assad anziché tenerseli in Germania, fino a quando IS non ha messo a rischio gli interessi tedeschi; da quel momento IS è stato dichiarato nemico.
I servizi tedeschi sapevano anche del sostegno da parte di Usa, Arabia Saudita in Siria e Libano a IS o alle milizie salafite che oggi appoggiano IS, e Berlino ha approvato, proprio come era successo negli anni 1980 per i mujaheddin afghani, sostenuti dall’Arabia Saudita.
Berlino conosceva sicuramente il “Piano-Bandar” (3), con cui gli Usa cooperando con l’Arabia Saudita pensavano di accelerare la caduta di Assad.
Occorre inoltre ricordare che al di là delle battaglie verbali, ad es. sull’ingresso della Turchia nella UE, da tempo Berlino cerca di accrescere la propria influenza su Ankara, riconoscendone l’enorme importanza nella complessa situazione geo-strategica del Medio Oriente. Nella primavera 2013 i due governi hanno concordato una “dialogo strategico”, che prevede incontri regolari, e che dovrebbe garantire l’intensificazione della cooperazione tra i due ministeri degli Esteri. Il confronto è stato avviato sia sulla questione ucraina che su quella siriana.
Gli interventi militari, sotto varia forma, soprattutto in Nord Africa e Medio Oriente rientrano tra gli obiettivi della campagna avviata nell’autunno 2013 dall’establishment berlinese, e propugnata anche dal presidente federale Gauck che, a febbraio 2014 in occasione della autorevole Conferenza sulla Sicurezza di Monaco, ha dichiarato:
“La Germania deve muoversi in modo più deciso per mantenere o configurare l’assetto globale … a questo scopo potrebbe essere necessario anche l’impiego di militari. Questo vale ancora più oggi, dato che l’unica superpotenza, gli Usa, stanno riconsiderando dimensione e forma dei loro interventi internazionali. La Germania e i suoi alleati europei devono essere sempre più responsabili per la propria sicurezza.”
In sintonia con il presidente tedesco, il ministro Esteri social-democratico, Steinmeier: “La Germania è troppo grande per limitarsi a commentare la politica internazionale. Da noi giustamente ci si aspetta che entriamo nella partita. Non dobbiamo escludere la possibilità di interventi militari.”
Questo il quadro strategico entro cui si situano le attuali manovre militari di Berlino, motivate, nello specifico, da un esperto della fondazione tedesca SWP (Fondazione Scienza e politica) come segue:
“La politica di sicurezza tedesca deve innanzitutto concentrarsi sull’area sempre più instabile attorno all’Europa del Nord Africa e del Medio Oriente, non ultimo per sgravare l’alleato americano sempre più impegnato in Asia” (lo stesso leitmotiv addotto per giustificare il maggior impegno UE e dei paesi membri in Irak). L’esperto SWP sostiene che “dal punto di vista meramente militare non ci sarebbe bisogno degli europei, basterebbero le forze armate americane con i loro attacchi aerei contro le postazioni dell’IS. Lo stesso vale per la fornitura di armamenti. Ma è politicamente importante che gli europei offrano il loro sostegno ai bombardamenti aerei e all’armamento dell’esercito curdo. … È pur sempre il cortile di casa europeo ad essere interessato. Intervenendo, gli europei potrebbero dimostrare che si occupano dei loro vicini nel S-E come quelli a Est. Un attacco tedesco-europeo contro IS sarebbe un segnale agli Usa che siamo pronti ad un maggiore impegno.”
La Germania ha perciò accolto favorevolmente la richiesta di adesione all’Alleanza contro ISIS, un’opportunità per consolidare la propria influenza.
Berlino ha progressivamente aumentato l’impegno nel nuovo conflitto mediorientale, prima ha deciso l’invio di generiche attrezzature belliche e poi di armi ai Peshmerga, le forze armate del governo regionale curdo del Nord Irak; con il suo pacchetto da €70 milioni Berlino si posiziona almeno tra i primi 5 sostenitori dei curdi iracheni (4). E infine ha organizzato in Baviera l’addestramento di gruppi di peshmerga per insegnare loro ad utilizzare i missili anti-carro “Milan”. Ora progetta di estendere l’addestramento oltre che a guerriglieri curdi ai combattenti cristiani e yesidi nel Nord Irak.
La Bundeswehr sarà coinvolta ancora di più nella guerra perché parteciperà in misura maggiore, corrispondente al rafforzamento delle sue attività di formazione e addestramento, anche alle operazioni di un nuovo quartier generale americano in Medio Oriente, che dovrebbe essere creato già in ottobre per dirigere le operazioni in Irak e in Siria. Attualmente le operazioni belliche sono dirette da CENTCOM, il Centro di Comando USA a Tampa, in Florida, dove sono presenti due ufficiali di collegamento tedeschi.
L’istituzione di questo quartier generale fa capire che gli Usa – che si erano ritirati dall’Irak nel 2011 – prevedono e si preparano ad una guerra di lunga durata, 10, 15, 20 venti anni secondo il capo di stato maggiore dell’esercito americano, Ray Odierno, forse più lunga di quella in Afghanistan, durata 13 anni. Saranno addestrati, sotto il comando del nuovo quartier generale, non solo soldati iracheni ma anche non meglio definiti “elementi siriani”. A fine settembre Washington aveva comunicato l’addestramento di 12-15 000 ribelli siriani, per combattere sia IS che il governo Assad. Questo significa che la popolazione siriana non ancora fuggita si troverà in una guerra combattuta su tre fronti.
Sulla questione delle modalità e delle forme dell’intervento militare tedesco, ha aperto lo scontro nella coalizione di governo il portavoce per gli Esteri della frazione parlamentare dell’Unione (CDU/CSU), Philipp Mißfelder, che è favorevole alla partecipazione di soldati tedeschi per missioni di addestramento e voli di pattugliamento, con i Tornado, che potrebbero essere di base in Turchia, armati con cannoni e missili aria terra, oppure fornire sostegno logistico con i rifornimenti aerei, e aiuti umanitari … in ogni caso l’impegno della Germania contro IS è solo agli inizi. Con i Tornado, di recente rinnovati in modo radicale e dotati di nuove armi, l’aeronautica tedesca fa parte delle forze di dispiegamento rapido della Nato.
I Verdi non hanno una posizione unitaria, favorevole il loro esperto per la Difesa, sempre che sia sotto l’egida ONU e nel quadro di una strategia politica complessiva. L’SPD invece esclude l’intervento diretto, il ministro Esteri Steinmeier sostiene che IS deve essere sradicato dall’interno, ed esprime la preoccupazione che i peshmerga possano utilizzare le armi per creare un proprio Stato indipendente nel Nord Irak che potrebbe innescare altre secessioni nel Sud del paese, e rendere ingovernabile l’intera regione. La Linke si è espressa contro l’invio di armi perché la Germania diverrebbe in tal modo parte del conflitto; il suo presidente, Riexinger, ha chiesto il ritiro delle unità di difesa antimissilistica della Bundeswehr dal confine turco-siriano in caso che la Turchia attacchi, dato che il mandato del Bundestag, dicembre 2012, per i Patriot e 400 soldati stanziati a Kahramanmaras (a 100 km dal confine siriano) era a scopi “difensivi”.
Ma, a fronte delle decisioni sostanzialmente filo-interventiste del governo tedesco, l’opinione pubblica è a maggioranza contraria ad operazioni militari estere, sotto qualsiasi forma; in un sondaggio di inizio settembre, nel mezzo della crisi ucraina, il 57% degli intervistati si è detto contro l’ampliamento degli impegni della Bundeswehr all’estero.
Qual è la ricetta per aumentare il consenso popolare suggerita da “esperti”? Dimostrare che non c’è alternativa alla missione, che non si tratta di difendere interessi nazionali, ad esempio tenere aperte rotte commerciali, ma della difesa di cittadini di altri paesi. Immagini dei media, rapporti sulla guerra, morte e sofferenza possono cambiare in breve tempo l’opinione pubblica. Basta pensare alle precedenti missioni compiute in Kosovo, Afghanistan, Africa.
Der Spiegel (1.09.2014) parla di un cambio radicale nella linea di politica estera tedesca: per la prima volta da anni la Germania si impegna direttamente in un conflitto militare in corso.
La Francia
Tuttavia il giornale tedesco degli affari, Handelsblatt, si rammarica che la Germania sia frenata da una serie di lacciuoli quando si tratta di interventi militari, mentre la Francia decide velocemente l’entrata in guerra. Sia con Sarkozy per l’attacco aereo contro il dittatore libico Gheddafi, che Hollande con le truppe di terra in Mali e nella Repubblica Centrafricana, e ora per gli attacchi aerei in Irak e in Siria contro IS. Il capo dello Stato ha deciso rapidamente poi, a distanza di qualche giorno o settimana, ha informato il parlamento ed è riuscito ad avere l’approvazione di una grande maggioranza della popolazione. I motivi di questa agilità del processo decisionale sono vari. C’è l’importanza data dal generale De Gaulle al rafforzamento militare, armi atomiche comprese, che hanno fatto della Francia una media potenza in grado di partecipare a operazioni internazionali; c’è la storia coloniale che ha abituato i francesi all’idea che i loro soldati combattano in paesi lontani, nelle colonie, nei mandati, e ora nelle ex colonie.
E poi nessuno dei grandi partiti francesi, sia socialisti che conservatori, ha qualcosa da obiettare al fatto che gli interessi politici ed economici si difendono con le armi, anche se oggi la cosa viene definita in un modo un po’ più cauto rispetto a 50 anni fa’. Infine, dato che il parlamento viene coinvolto solo dopo che la decisione è presa dal presidente, non ci sono ampi dibattiti preventivi sulla questione delle missioni militari che coinvolgano per mesi l’opinione, a questo si aggiunge che da tempo non c’è più in Francia il servizio militare obbligatorio, e che l’impiego di truppe sul terreno tocca solo un numero limitato di famiglie. I giovani francesi che decidono di arruolarsi sono spesso figli di immigrati che non vedono altre prospettive di impiego.
Una competizione politica impari, verrebbe da dire, tra la Germania leader indiscussa della UE sul piano economico, e la Francia che, economicamente più instabile, non teme le decisioni in solitaria nelle questioni internazionali o, quando serve per bilanciare l’avversario tedesco, trova l’appoggio sul continente della GB, e si allinea velocemente al partner transatlantico.
Gran Bretagna
Per quanto riguarda la Gran Bretagna, il dibattito sull’invio di armi, l’addestramento dei soldati all’uso di mitragliatrici pesanti e la partecipazione alla alleanza anti-ISIS è stato acceso. Cameron ha preparato il terreno, per non ripetere lo smacco subito l’anno scorso quando la Camera Bassa si oppose alla sua proposta di attacco aereo contro il siriano Assad – la prima volta che un primo ministro britannico incontrava l’opposizione del parlamento ad una missione militare. Prima del dibattitto parlamentare si è assicurato telefonicamente l’appoggio del capo dell’opposizione, il laburista Ed Miliband. Ha inoltre incontrato il presidente iraniano, il primo incontro dei due capi di Stato dal 1979, e il capo del governo iracheno al-Abadi, la cui esplicita richiesta di aiuto gli ha assicurato la copertura legale dell’intervento militare.
Cameron ha posto poi due limitazioni al mandato: attacchi aerei solo in Irak, non in Siria; escluse anche operazioni sul terreno. In ogni caso le forze aeree del UK bombardano i guerriglieri dell’ISIS in Irak, dove sono tornati i soldati britannici che dal 2003 al 2009 avevano partecipato alla guerra contro Saddam Hussein. Si tratterebbe di soldati di un battaglione normalmente di stanza a Cipro, operanti a Erbil per istruire i peshmerga sull’uso delle mitragliatrici pesanti, fornite in settembre.
Da vent’anni i britannici si trovano praticamente sempre in missioni militari all’estero, dalla prima guerra contro l’Irak nel 1990, alla Bosnia, Sierra Leone, all’Irak, Afghanistan. Dal punto di vista del consenso politico la situazione è diversa rispetto al 2003, quando oltre un milione di persone marciarono contro la guerra in Iraq voluta dal primo ministro Tony Blair e dal presidente USA, George Bush. Oggi la popolazione sostiene la missione quasi quanto i politici. Di fronte allo spettacolo delle decapitazioni mandate sul web da IS, il 57% si è detta a favore, 24% contro una missione in Irak; 53% SÍ e 26 NO per una missione in Siria. Si è espresso a favore anche l’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby.
La Nato e la carne da macello indigena
Diversamente dalla guerra contro l’Irak del 2003, i paesi Nato e loro alleati in questo conflitto si servono in forte misura di soldati dei paesi nei quali la guerra viene condotta sul terreno, il che consente di mantenere relativamente basso il numero dei soldati che l’Alleanza deve inviare, e delle vittime di cui i governi devono rendere conto.
La premessa necessaria perché questo sia possibile sono le capacità tecniche di ricognizione e coordinamento possedute dalle potenze, e soprattutto la formazione impartita ai guerriglieri iracheni e siriani perché siano in grado di combattere questa ennesima guerra, fino a sacrificare la propria vita per gli interessi della propria borghesia e/o di quelli delle potenze imperialiste. E qui sta l’importanza delle attività tedesche, definite dalla Bundeswehr “aiuti all’Irak”.
Il numero relativamente basso dei soldati occidentali consente in particolare agli Usa di mantenere il fronte (“perno”) sul Pacifico nella competizione con la Cina, senza dover rinunciare al controllo del fronte mediorientale.
La maggiore partecipazione della UE, invece, offre a Bruxelles, e a Berlino, la possibilità di rafforzare la propria posizione nella regione – se ci riescono anche a scapito degli USA, ma anche in competizione tra loro.
Questo significa che la lotta per l’influenza a livello globale e tra le potenze occidentali avverrà per il prossimo futuro nel corso della guerra contro l’ISIS, che mette in discussione sul terreno confini e assetti stabiliti nel 1916, nel corso della Prima grande carneficina mondiale, e a più riprese messi in discussione negli ultimi anni dalle analisi di vari “strateghi” e consiglieri governativi. Ma l’esito di questo conflitto non è prevedibile, e difficilmente risponderà ai piani di una singola potenza.
Purtroppo la massa delle popolazioni dell’area è ancora una volta vittima di ideologie etnico-religiose che le contrappongono le une alle altre e le rendono utilizzabili dalle parti in campo, asservendole agli interessi delle classi dominanti. Le terribili esperienze e sofferenze causate dai conflitti che da decenni scuotono i paesi dell’area, assieme allo sviluppo numerico del proletariato di questi paesi, costituiscono senz’altro un terreno favorevole alla crescita di una coscienza autonoma di classe che, impedendo nuovi e tragici coinvolgimenti nazionalistici ed etnico-religiosi indirizzi passioni, energie e volontà verso aspirazioni comuniste e internazionaliste. Uno sforzo in questo senso è forse l’esperimento sociale della Rojava (5) che pur non essendo una mobilitazione proletaria per una società senza classi, resta un esempio di collaborazione interetnica, di parità di genere, di autogoverno partecipativo e di mobilitazione popolare per l’autodifesa che le forze reazionarie dell’IS con la complicità delle potenze stanno ferocemente reprimendo.
NOTE
“Sono cominciati i massacri di curdi nella cittadina assediata di Kobane per mano dei fanatici guerriglieri dello Stato Islamico. L’epilogo della Alamo curda, che solo sino a qualche giorno fa era soltanto una minaccia, sta diventando realtà. L’Onu teme che almeno 700 civili, per lo più anziani rimasti nel centro, possano restare trucidati assieme a 12 mila altri intrappolati lungo il confine chiuso dai turchi. A loro si aggiungono alcune migliaia di guerriglieri curdi, tra cui molte donne.” (CdS, 11 ottobre ’14)
Ad inizio ottobre, il parlamento turco ha dato la sua approvazione a operazioni militari in Siria e Irak, compreso l’invio di soldati sul terreno e la possibilità di ricevere personale militare straniero in Turchia, assegnando pieni poteri al governo conservatore-islamico AKP del presidente Erdogan, che deciderà se e quando avvalersene. Il pretesto per un intervento militare è pronto: la difesa di un lembo di proprio territorio, pretesto che legittimerebbe anche l’intervento delle forze Nato a difesa di un paese membro. Ma, tutto dipende dalla risposta che riceverà dagli alleati alla sua richiesta di creare una zona cuscinetto con divieto di sorvolo nel Nord Siria, che servirebbe da base operativa per l’opposizione “moderata” siriana, e allevierebbe la pressione dei rifugiati siriani in Turchia. Dall’inizio della crisi siriana il presidente turco Erdogan ha dichiarato pubblicamente i due principali obiettivi: far cadere il regime siriano di Assad e impedire l’autonomia delle regioni curde siriane; sono queste le condizioni del sostegno militare alla coalizione anti-IS creata dagli USA. Salvare Kobane non avvicina la Turchia al suo principale obiettivo, quello di abbattere il regime di Assad. Ora che le strutture statuali siriane sono state distrutte dalla guerra civile, Ankara vuole controllare, almeno indirettamente, il territorio della Rojava, la fascia curda nel N e N-E della Siria dove si trova la città di Kobane, le tre province autonome dove ha preso il potere il partito curdo PYD (Democratic Union Party), l’ala siriana del PKK, e la sua ala militare (YPG – Unità di protezione popolare).
Le forze armate turche si trovano già a 400 metri dal confine siriano, diecimila soldati sarebbero già pronti altri cinquemila sono di riserva; quindici corazzati sono su una collina a pochi chilometri di distanza e … assistono allo scontro in corso tra IS e i resistenti curdi-siriani del YPG, e impediscono che combattenti curdi turchi (reclutati e organizzati dal PKK anche tra la gente comune in Turchia) attraversino il confine per appoggiare i loro fratelli siriani. Aspettano evidentemente che le formazioni terroristiche “ripuliscano” la città ormai distrutta, i cui abitanti sono per gran parte fuggiti. “I bombardieri americani”, assieme a quelli di Arabia Saudita ed Emirati, “ronzano sopra la città e lanciano occasionali, simbolici attacchi, simili a punture di spillo contro le forze dell’IS, armate con blindati costruiti in America e con artiglieria pesante presa negli arsenali dell’esercito iracheno”. (Guardian, 8.10.’14)
Nota 1) Sarebbero 1,5 milioni dall’inizio della guerra civile siriana; 30 000 i profughi curdi dall’area, secondo fonti curde, 170 000 secondo UNHCR, sulla base di fonti turche.
Nota 2) Rojava significa Kurdistan Occidentale; le tre province della Rojava hanno un’amministrazione autonoma, con un sistema scolastico nel quale si insegna il curdo, un sistema sanitario, un apparato di polizia.