Canadesi, inglesi e olandesi chiedono rinforzi nel sud
L’Italia non vuole, e non può, inviare le truppe in zone a rischio
Al vertice NATO in LETTONIA verrà rinnovata la richiesta
all’ITALIA di schierare soldati nelle
zone “calde” dell’AFGANISTAN, azione impossibile perché nessun governo
sopravvivrebbe a ingenti perdite umane.
Può darsi che Tony Blair esageri quando dice che
l’esito della guerra afghana disegnerà il mondo prossimo venturo, ma sarà
proprio questo inquieto sospetto a dominare il vertice Nato che si apre oggi in
Lettonia. Cinque anni dopo l’intervento anti-talebani tutti sono convinti
della necessità di un ripensamento: alla presenza militare occorre affiancare
una più efficace azione economica e sociale, bisogna costruire strade, fornire
elettricità, attrezzare ospedali, proporre alternative alla coltivazione
dell’oppio, lottare contro la corruzione e la criminalità, conquistare insomma
quel consenso diffuso in assenza del quale nessuna guerra moderna può essere
vinta.
Ma se l’Afghanistan dimostra ancora una volta come le strategie hard e
quelle soft siano complementari e non alternative, nessuno sottovaluta per
questo il ruolo cruciale che continueranno a svolgere le forze della Nato.
Ed è proprio qui che l’Italia, pur presente in Afghanistan con duemila uomini,
rischia di finire sul banco degli accusati.
Dallo scorso mese di luglio truppe canadesi, inglesi e olandesi inquadrate
nella missione Isaf combattono contro i talebani nel sud dell’Afghanistan. Le
loro perdite si contano a dozzine, e la Nato chiede da tempo ad altri
contingenti schierati in zone più tranquille di prevedere l’invio di rinforzi
in caso di necessità. L’Italia, come la Germania, la Spagna, la Francia e la
Turchia, risponde picche. Fa bene, e potrebbe fare diversamente?
In linea di principio l’Italia sbaglia. Se si è membri dell’Alleanza, se
si è deciso in piena sovranità di partecipare alla missione Isaf (non tutti i
soci Nato lo fanno) e se si condivide il fondamentale obiettivo di impedire il
ritorno dei talebani, un imperativo di solidarietà operativa dovrebbe indurci a
dare man forte agli alleati che rischiano più di noi.
In pratica, invece, un sì italiano alla mobilità militare verso sud appare
impossibile. Non soltanto perché il mandato parlamentare ne esclude le
sicure conseguenze belliche. Non soltanto perché tutti riconoscono l’utilità
della nostra presenza a Kabul e a Herat, e molti prevedono che presto in
Afghanistan non esisteranno più zone tranquille.
No, la verità è più complessa e riguarda tanto la nostra cultura nazionale
quanto i nostri equilibri politici interni. Nessun governo italiano, di
sinistra o di destra, sarebbe in grado di sopravvivere alle perdite
sistematiche (e dunque diverse da un singolo tragico episodio, come
Nassiriya) subìte in questi mesi dai britannici e dai canadesi.
Nessuna maggioranza parlamentare resisterebbe alla tentazione di reclamare un
rapido disimpegno. E l’opinione pubblica, malgrado l’accresciuta capacità di
incassare perdite dimostrata negli anni più recenti, riscoprirebbe il suo credo
pacifista davanti a uno stillicidio di funerali.
Non crediamo affatto che l’Italia debba pentirsi di questa sua cultura della
pace. Ma è opportuno prendere atto, e il vertice Nato ci costringerà a farlo,
dell’equazione che prevale da noi come in altri Paesi europei: il potere
politico non ha la piena disponibilità dello strumento militare perché deve
utilizzarlo nell’ambito di severi vincoli interni.
Forse non è una novità, ma un mondo sempre più instabile promette di
rinfrescarci spesso la memoria e di condizionare le nostre ambizioni
internazionali. Per esempio quando un generale alleato chiede di averci al suo
fianco, nell’insanguinato sud dell’Afghanistan.