
Con studiata strategia, le manifestazioni che nello scorso weekend chiedevano verità e giustizia per Ramy Elgami, il giovane morto – per essere precisi: ucciso – a Milano il 24 novembre durante un inseguimento da parte dei carabinieri, hanno ricevuto grande attenzione da parte della stampa e di numerosi esponenti del governo.
Lo scopo evidente è utilizzare le modeste scaramucce di Roma e Bologna per rilanciare l’ex ddl 1660 (ora ddl 1236) e farlo passare agevolmente al Senato, dove è fermo da qualche settimana, e rafforzare, intanto, le “zone rosse”, un mezzo di repressione preventiva che proibisce a chi ha precedenti penali di essere presente in determinate zone delle città. Come si ricorderà, il ddl era passato in settembre alla Camera grazie all’assordante silenzio della sinistra parlamentare, che ne aveva seguito passivamente l’iter nelle commissioni. L’agitazione contro il decreto promossa dalla Rete libere/i di lottare e poi diffusasi a macchia d’olio, coinvolgendo tra l’altro anche qualche settore della Cgil, ha consigliato al governo una dilazione.
Nel frattempo si è proceduto con i vecchi strumenti repressivi che certo non mancano: il daspo o il foglio di via per chi manifesta o partecipa a picchetti e presidi (che siano contro le fabbriche di armi o pro Palestina, ambientalisti o sindacali – gli ultimi in questi giorni contro i dimostranti di UG, XR e pro-Palestina a Brescia per una protesta contro Leonardo spa), l’aumento eccezionale delle “zone rosse” urbane.
La morte di Ramy, definita dagli esponenti del governo “un incidente”, “una disgrazia”, “una tragedia” per impedire indagini sul comportamento dei carabinieri è emblematica. I fatti provano che né di incidente, né di disgrazia si tratta; è un vero e proprio omicidio di stato, commesso da individui che già prima che entri in vigore la nuova legge di impunità garantita, si sentono coperti dallo stato qualunque abuso o crimine compiano.
La dinamica dei fatti è tanto chiara da indurre i carabinieri a fermare un testimone che aveva ripreso la scena col telefonino e a “chiedere” che il video venisse cancellato. Strano… istituzionalmente le forze di polizia hanno il compito di fare indagini, raccogliere prove, non di cancellarle. Ancor più strano il fatto che nel verbale steso dagli agenti non è segnalata la circostanza fondamentale: l’impatto tra l’auto dei cc e il motorino è avvenuto prima della caduta. Un’altra prova a carico degli agenti della benemerita sono i loro commenti che la telecamera di una delle tre auto dei carabinieri (impegnate in un inseguimento di 8 km!) ha registrato. Eccone qualcuno tratto da Internazionale.
Dopo un primo impatto tra una delle auto e il motorino, lo scooter riesce a proseguire la corsa, e un carabiniere commenta: “Vaffanculo, non è caduto”. “Chiudilo, chiudilo che cade… Merda, non è caduto”, è una delle frasi pronunciate poco dopo dagli agenti, che vedono un’altra delle loro auto tallonare il motorino. Quando l’auto con la telecamera montata a bordo riceve via radio la comunicazione che lo scooter è a terra, il commento di uno dei carabinieri è : “Bene!”. Davanti a circostanze così evidenti, perfino l’ex-capo della polizia Gabrielli ha parlato di azione repressiva “sproporzionata” rispetto al non essersi fermati all’alt dei carabinieri, che avevano del resto la targa del veicolo.
Ma l’arroganza degli apparati dello stato è arrivata al punto che il giovane Fares che era alla guida dello scooter viene indagato, lui, per omicidio stradale oltre che per resistenza a pubblico ufficiale. La questione, evidentemente, non è giudiziaria, è politica.
La vittima, d’altronde, è un giovane immigrato maschio, proprio la figura sociale additata all’opinione pubblica come il pericolo pubblico numero uno per la tranquillità dei centri urbani e dello shopping della “gente per bene”, a difesa dei quali la polizia deve avere mano libera. Un’idea che aveva avuto anche il Pd Minniti, prima di Salvini e Piantedosi. E che allineerebbe l’Italia alla Francia o agli Stati Uniti dove si spara preventivamente al giovane delle banlieue o al nero di turno.
Il tentativo è quello di far dimenticare l’intero contenuto del ddl, che vuole trasformare il paese in un vero e proprio stato di polizia, con un salto di qualità della repressione statale che colpisce ogni rivendicazione sociale e politica, riducendo in maniera drastica i diritti civili e politici, declassando gli episodi della lotta di classe e l’attivismo politico dei giovani a un problema di ordine pubblico.
Le dichiarazioni del padre di Ramy che ha chiesto azioni non violente ed espresso, come è tipico della prima generazione di immigrati, “fiducia nella giustizia”, sono state utilizzate per svuotare la sua richiesta che sia fatta luce sulla morte del figlio e gli sia resa giustizia. Il governo ha tentato anche di criminalizzare i manifestanti di Bologna accusandoli di avere vandalizzato la sinagoga della città, notizia falsa ma che si iscrive nella prassi (europea non solo italiana) di tacciare di antisemitismo chiunque protesti contro le stragi a Gaza.
In questi mesi abbiamo visto in piazza una seconda generazione di immigrati, più politicizzata di quella dei padri, fra cui moltissime ragazze e giovani donne, in grado di esprimersi in perfetto italiano, che si è messa alla testa delle manifestazioni pro Palestina, e ha partecipato alle acampade studentesche. La borghesia italiana continua a vederli come manodopera a buon mercato, strato inferiore della forza lavoro. Il governo li addita come potenziali criminali e, se attivi sindacalmente, come facinorosi.
Per noi sono invece sorelle/fratelli di classe e di lotta, le cui proteste per Ramy sono sacrosante, una componente viva di un’opposizione a tutti i livelli alla “nostra” borghesia e ai suoi propositi repressivi e guerrafondai da allargare e sviluppare lungo una linea di classe internazionalista.