Argentina: un sintetico bilancio di decenni di accesa lotta di classe

La storia della lotta di classe in Argentina è assai significativa, per cui vale la pena di richiamare alcuni passaggi chiave di essa per due motivi: per vedere come la borghesia di questo paese abbia costituito in più di un’occasione un laboratorio di trasformazioni attuate successivamente nelle metropoli imperialiste; per individuare nell’esperienza delle lotte proletarie quel filo comune che le lega alle sorti degli sfruttati di tutto il mondo. Lotte non certo prive di limiti ed errori, ma che hanno comunque lasciato un segno indelebile se si considera il livello della sfida cui sono state chiamate e la scia di abnegazione, eroismo di massa e martirio che le hanno caratterizzate.

Tanto per dirne una: il proletariato argentino, con quello cileno (1973) e dopo quello indonesiano (1965), è stato quel comparto nazionale di classe che ha subito uno dei massacri più efferati da parte della propria borghesia. Vengono subito alla mente i crimini efferati della dittatura militare del 1976-’83, quella per intenderci dei “Desaparecidos”. Ma va anche ricordato come la mattanza fu solo il clou di una liquidazione fisica di classe che possiamo datare (per non andare troppo all’indietro) con il processo di industrializzazione capitalistica da parte di una borghesia argentina tanto nazionalista quanto dipendente dall’imperialismo (a cavallo tra il XIX e il XX secolo).

Può sembrare una contraddizione di termini, ma non lo è. Anzi: la contraddizione, nella misura in cui esiste, sta nell’ineguale sviluppo del capitalismo internazionale portato alle estreme conseguenze dall’imperialismo. Dimodoché tutta una serie di paesi – come appunto l’Argentina – pur essendosi emancipati da tempo da un rapporto coloniale diretto verso le grandi potenze (l’Argentina si rende indipendente dalla Spagna addirittura nel 1816), diventano rapidamente semi-colonie degli imperialismi “industrializzati”; paesi dipendenti da essi, nonché dalla divisione mondiale del lavoro, sottoponendo le rispettive classi subalterne al doppio laccio dello sfruttamento “nazionale” e internazionale. In cui le classi dominanti della semi-colonia in oggetto da un lato cercano periodicamente di affermare sé stesse, brandendo la bandiera del nazionalismo e dell’ “identità nazionale violata” (come è stato il caso dell’Argentina del primo peronismo); dall’altro, picchiano continuamente il muso contro l’acciaio degli imperialismi egemoni (nel caso specifico: prima la Gran Bretagna poi gli USA).

Le ricadute di situazioni simili, interne ed esterne sono molteplici e tendenzialmente dirimenti, soprattutto se, stando sempre all’Argentina, il paese dipendente si sviluppa rapidamente in senso capitalistico, con classi sociali moderne, dentro una collocazione importante a livello continentale (come del resto il Brasile, il Messico e il già citato Cile). E lo sono in maniera tale da fare “scuola”, da costituire dei banchi di prova della lotta di classe avente per forza di cose un respiro internazionale. Ecco perché è importante, diremmo per certi versi fondamentale, studiare e assimilare la “lezione argentina”.

L’Argentina, in oltre 200 anni di storia patria, ha attraversato tutte le grandi tappe del dominio borghese mondiale: da quello agrario-oligarchico, poi finanziario-commerciale, quindi agrario-industriale, fino a quello monopolistico. Chiaramente sempre come paese dipendente. Il quale, subendo un predominio ipertrofico dell’oligarchia agraria, non ha saputo adeguare la sua forma di rappresentanza politica ai mutamenti del mercato e alle dinamiche sociali ad esso collegate. Ne è derivata una classe politica nazionale instabile e inetta, che fino alla seconda guerra mondiale ha cercato di ricomporre i propri squilibri reprimendo duramente le lotte del proletariato di casa propria.

Tale caratteristica non distingue l’Argentina da altri paesi dipendenti, in cui proletari e contadini poveri sono stati storicamente (e lo sono tutt’ora) sottoposti a un simile “trattamento” da parte delle rispettive borghesie. La “particolarità” argentina consiste però nel fatto che il proletariato di questo paese ha sviluppato una capacità di mobilitazione, una determinazione nella lotta e un livello di partecipazione politico-sociale di primo livello; al punto da costringere l’imperialismo mondiale (con gli USA in testa) e le borghesie reazionarie continentali a fare blocco nella repressione e nella sperimentazione di forme di dominio “autoritarie”, compresa quella democratica.

Il peronismo, forma politica precipua che ha assunto una tendenza continentale coniugandola con prodotti di importazione europei (fascismo e franchismo), è stato una risposta populista sorta originariamente su basi politiche di “destra”, per poi volgere in pochi anni in variante del populismo di “sinistra”. Le due anime, non potendo risolvere il conflitto fondamentale tra capitale e lavoro salariato, si sono alla fine rincorse e contrapposte (anche armi alla mano) sfociando vuoi nella collusione governista del secondo Perón che prelude – e in parte prepara – la reazione più nera, vuoi nella compromissione sociale più bieca (la burocrazia sindacale peronista della CGT), vuoi infine nel “fochismo” guerrigliero più esacerbato (generoso quanto politicamente scriteriato).

Nei fatti il peronismo ha rappresentato una fase in cui settori della borghesia industriale, dell’esercito, delle classi medie, poggiando sul proletariato e scambiando con esso Welfare e salario, hanno approfittato di una situazione di espansione eccezionale del capitalismo nazionale per affermare l’Argentina come potenza locale. Il progetto consisteva nello sganciarsi dal doppio filo di dipendenza verso il capitale estero e proiettarsi nella direzione di una “egemonia” continentale, poggiante a sua volta su una ipotetica rivalsa da parte degli altri paesi dipendenti.

Da questo punto di vista si è trattato di un’operazione riuscita solo parzialmente e temporaneamente; pur rimanendo tale corrente politica al centro delle opzioni che via via, esclusa la parentesi ’55-’73, sono emerse nel panorama politico nazionale. E ciò in virtù del seguito proletario e di massa (per non parlare della mitologia e del simbolismo collegati) che il peronismo è riuscito a radicare nel paese.

Ma l’impronta più significativa e duratura per la borghesia internazionale il peronismo l’ha impressa presentando una forma di statalismo “populista” a base di massa operaia e piccolo borghese. Ha mostrato come sia possibile, in una situazione economica che “tira”, coinvolgere le larghe masse in una prospettiva identitaria nazionalista, corporativa e cattolica (con significative escursioni laiche). Una prospettiva così pervasiva da marginalizzare quasi del tutto ogni pericolo di sovversione genuinamente classista e internazionalista. Cosa che non era da escludere, pur tra mille difficoltà derivate dagli esiti della guerra mondiale nonché da una sinistra rivoluzionaria poco in sintonia coi tempi, appena si valuti con un minimo di oggettività il canovaccio socio-politico postbellico caratterizzato in Argentina da forte proletarizzazione e inurbamento. Fattori di crescente tensione sociale.

Stiamo parlando dunque di un’esperienza politica e ideologica che ha lasciato il segno; al punto da essere ripresa per sommi capi dai moderni movimenti populisti di destra (dopo aver accuratamente escluso i riferimenti statalisti e corporativi tipici del primo peronismo).

Vedi l’accentramento dei poteri da parte del “Leader Supremo” (Interprete del popolo), la svalutazione del parlamento a fronte del rafforzamento dell’esecutivo, la messa in discussione della classica divisione dei poteri, il rapporto diretto Leader/popolo, la difesa della cosiddetta “Identità Nazionale”, la creazione dell’oppositore come figura “antinazionale”, la fobia della “Sicurezza”, il complottismo…Il tutto senza rinnegare esplicitamente il sistema democratico del voto e delle altre libertà formali (pur assoggettate a censura e controllo asfissiante).   

Finito il periodo d’oro del peronismo (1945-’55) e riaffermato il primato imperialista statunitense ed europeo con una massiccia penetrazione monopolistica (anni ’60-’70, in cui tra l’altro i gruppi economici dell’imperialismo italiano svolgono un ruolo non secondario), il banco di prova argentino mette in primo piano altri due aspetti di portata internazionale: 1) come affermare la nuova fase neo-liberista; 2) e – contestualmente – come demolire un movimento proletario che non si lascia assorbire dalla “normalizzazione”.

Il peronismo governativo di seconda generazione (da Cámpora al ritorno di Perón, per finire col governo Isabelita-López Rega) prepara il Golpe militare di Videla.

Dal ’73 al ’76, a seguito del montare della mobilitazione operaia e studentesca (scioperi, occupazioni prolungate di fabbriche e scuole, insorgenze operaie, radicalismo rivendicativo, insofferenza verso gli “aggiustamenti” della classe dominante che ha rimesso in pista un peronismo “istituzionale”, oltre alla guerriglia) si verificano uccisioni, sparizioni, torture, dure repressioni verso i quadri militanti proletari, dentro e fuori i luoghi di lavoro. Oltre alle forze di polizia e dell’esercito vengono impiegate su larga scala le famigerate “Tre A” (Alleanza Anticomunista Argentina): squadroni della morte di estrema destra facenti capo proprio al fascista, massone, esoterico López Rega, braccio destro di Perón.

Dall’altra parte della barricata si trovano i peronisti di “sinistra”: un numeroso e variegato schieramento di opposizione che va dal mondo studentesco a quello operaio, passando per l’esperienza della guerriglia (la formazione più nota e diffusa è quella dei “Montoneros”).

Tale ala del peronismo intende ritornare ai “fasti” del primo Peron, fraintendendo per antimperialismo e anticolonialismo quello che in realtà era stato un movimento nazionalista borghese tout court: solo occasionalmente e parzialmente entrato in collisione con la protervia dell’imperialismo yankee.

Per non parlare della pretesa di identificare per “socialismo” quello che era stato in realtà un processo (tra l’altro parziale) di statalismo e di accentramento dei poteri facente leva su un movimento operaio considerato fino allora massa informe da sfruttare e, all’occorrenza, da prendere a fucilate.

Questo “fare leva” sul movimento operaio arriva ad assumere due aspetti tra loro contrastanti: per un verso accosta il proletariato alla “Nazione” impedendogli pericolose (per la borghesia) “derive bolsceviche”. In contemporanea però tale identificazione della patria col socialismo, porta i lavoratori ad esigere corrispondenti misure di avanzamento sociale confidando su quella “partecipazione sindacale agli affari di Stato” prospettata loro nella “decade d’oro” del peronismo.

Cosa che se ha l’effetto negativo di legare il movimento operaio argentino al mito peronista (fenomeno che si protrarrà per decenni; addirittura – anche se in forma minore – fino ai giorni nostri), produce allo stesso tempo un fermento politico-sociale tramandato da generazioni… che diventa elemento di identità attiva di classe.  Deviata o surrogata quanto si vuole, ma soggettività operante.

Se a ciò si aggiungono (anni ’60 e ’70) l’attrazione mondiale, e quindi a maggior ragione continentale, di Cuba e in particolare del guevarismo, la realtà diffusa dei movimenti di guerriglia Centro e Sud americani, i quali fanno intravedere come imminente lo scardinamento degli equilibri imperialisti, oltre alla presenza rassicurante del “Blocco socialista” (in primis Cina e Vietnam), si può ben comprendere come le motivazioni ideali per una lotta permanente e risoluta – quanto confusa e materialisticamente sfasata – non venissero di certo meno.

Dal canto suo la sinistra rivoluzionaria, che pur guadagna adesioni e radicamento sociale dentro dinamiche così radicali, arriva a tale snodo focale teoricamente e politicamente non preparata.

Fatta qualche encomiabile eccezione (l’allora “Politica Obrera”, progenitrice dell’attuale “Partido Obrero”, attiva seppur ancora acerba) essa stessa è schiava dei miti del peronismo “di sinistra”, della guerriglia, della rivoluzione alle porte; in preda alle convulsioni trasformistiche, campiste, terzomondiste, sostanzialmente opportuniste, della IV Internazionale.

In poche parole, stando all’Argentina, tale sinistra – negli anni – o ha letteralmente sottovalutato il fenomeno del peronismo, quando non addirittura liquidato come “fascista” (condannandosi ad uno splendido isolamento). Oppure, specularmente, lo ha assunto come una sorta di “semi-socialismo”, su cui attestarsi nella lotta contro l’imperialismo. Due versioni opposte quanto totalmente sballate, che non hanno di certo favorito la nascita e l’insediamento del partito rivoluzionario in tale realtà.    

Così, in Argentina, la somma di tutti questi elementi (interni ed esterni) porta la situazione a metà degli anni ‘70 a una tensione estrema delle forze in campo. Le classi dominanti, ritornate a un rapporto prebellico di dipendenza dall’imperialismo, messe alle strette dal nuovo verbo liberista che sta montando nelle capitali dell’Occidente e nelle Centrali economico-finanziarie, vedono l’opportunità di agganciarsi al nuovo ciclo capitalistico evitando quelle dispendiose ristrutturazioni che avrebbero potuto alterare gli equilibri interni tra le frazioni borghesi. Facendosi scappare di mano la situazione.

Poco prima, nel ’73, si è avuta l’esperienza cilena col Golpe del generale Pinochet, costata un bagno di sangue di militanti politici e di proletari, legati all’esperimento capital statale di Salvador Allende. I pesanti condizionamenti e l’intervento degli USA in quel paese riescono ad imporre a livello governativo la linea ultraliberista dei “Chicago Boys”. Praticamente una diretta e rapidissima liberalizzazione selvaggia tesa a smantellare ogni regolamentazione e tutela della forza-lavoro, privatizzando tutto l’assetto economico. La cosiddetta “deregulation”.

La struttura sociale e la situazione politica argentina non potrebbero sopportare un impatto simile.  

Ragion per cui la borghesia di questo paese paga la sua cambiale all’imperialismo implementando in primo luogo un massacro proletario di dimensioni anche superiori a quello cileno, ma…silente (non c’è la spettacolarizzazione degli stadi pieni di prigionieri o le gigantesche retate nelle strade da parte dei militari viste a Santiago del Cile). Al punto che la Giunta golpista si guadagna rapidamente la rispettabilità internazionale da parte delle Cancellerie.

Col Golpe del ’76 non viene pertanto intaccata nella sostanza la struttura statalista o semi-statalista di tante industrie nazionali (di cui i militari sono spesso azionisti), non viene salassato il Pubblico Impiego, né ridimensionata più di tanto la piccola impresa. Si approntano certo misure di “apertura” al capitale estero, di svalutazione del peso, di agevolazioni per i grandi gruppi internazionali, ma il vero banco di prova argentino è più che altro politico. E cioè: come annientare il proletariato più combattivo del continente creando al contempo le condizioni per il ritorno ad uno Stato “autoritario” di tipo nuovo; in grado di essere in sintonia col mercato. Uno Stato che magari, una volta estirpato il “cancro sovversivo”, ripristini parlamento, elezioni, e pure qualche libertà formale. Ma dentro, ben dentro, le rigide maglie del nazionalismo, del “primatismo occidentale e cattolico”, dell’ordine e della disciplina interni. L’importante è che il gigante proletario sia messo nelle condizioni di non nuocere.

Se il peronismo da parte sua aveva dato il “là” a esperimenti di questo tipo in un periodo non sospetto, scambiando però un prodotto del genere con assistenzialismo, corporativismo e “religiosità popolare” (il mito di Evita), il golpismo degli anni ’70 in America Latina si adagia sul neoliberismo montante proveniente dalle metropoli imperialiste…non scambiando con le masse proletarie un bel nulla! Anzi. Si massacrano le avanguardie di lotta e le opposizioni in generale, nel mentre vengono condotte sperimentazioni (non importa quanto programmate) di, chiamiamole così, “ingegneria istituzionale”.

Il risultato sarà incassato dalla classe dominante nel mondo intero: prima con Margareth Thatcher in Gran Bretagna (1979), seguita da Ronald Reagan negli USA (1981); e poi a seguire da decine e decine di Stati di varia importanza e dimensioni. Tant’è che oggi dobbiamo prendere atto come una tendenza del genere (sovranista, securitaria, xenofoba) abbia ormai preso piede nei vari angoli del pianeta: prevalentemente con sembianze di estrema destra, ma non solo.

In Argentina, come il tardo-peronismo aveva aperto la strada al Golpe così a sua volta il Golpe diventa propedeutico alla “svolta democratica” degli anni ’80 e poi a seguire. La democrazia borghese non è alternativa alla reazione e viceversa. Cambiano le forme col cambiare dei tempi, e di ciò occorre tenerne conto, ma la sostanza di questo assioma marxista non muta.

Il primo protagonista post-Golpe è il radical-socialista Raul Alfonsín (1983-’89). Egli ripristina le leggi costituzionali, fa riemergere sindacati e partiti politici, si impegna a punire i responsabili dei crimini. Ne uscirà ben poco. Le FFAA nel loro complesso se la caveranno a buon mercato, se si eccettuano alcune pesanti condanne detentive inflitte al pugno di caporioni conclamati.

Ma l’“onore” dei militari sarà salvo. Tutti ciechi, sordi e muti. In sostanza, non c’è mai stata una Norimberga per i criminali in divisa.

Anche perché grazie al trio presidenziale successivo di affabulatori corrotti, nelle figure di Menem, De La Rúa e Duharde (il primo e il terzo peronisti “di ritorno”), l’attenzione generale sarà spostata sulla “necessaria” adesione argentina ai canoni del liberismo più sfrenato. Condito di “socialità”, declinata in carità o assistenzialismo (i due corni della moderna politica sociale). Una certa parvenza di Stato Sociale viene pur mantenuta, il “dialogo” coi sindacati riemerge, ma si affonda comunque il coltello nelle carni delle classi più povere, aumentando le disuguaglianze sociali.

I dettami liberisti impongono privatizzazioni a tabula rasa, deregulation, precarizzazione del lavoro, sfoltimento degli occupati, investimenti a debito, mano libera ai grandi monopoli esteri e alla finanza speculativa…Non è più solo l’imperialismo USA a premere, ma tutto il complesso imperialista mondiale, rinvigorito dalla caduta del Muro, dalla finanziarizzazione dell’economia, dall’apertura di una nuova fase spartitoria.

La borghesia argentina cerca aperture e crediti verso l’Europa e l’Asia, ma il suo passo è greve mentre le distanze aumentano, accrescendo così l’imperativo di ridurre il distacco.

Nel ’99 scoppia una crisi finanziaria che porta al “corralito”, cioè al blocco dei conti correnti bancari (dicembre 2001). Vi sono grandiose manifestazioni di piazza, dove disoccupati e lavoratori si saldano a settori del ceto medio impoverito. La polizia spara, seminando vittime sul selciato. È la riproposizione dello stragismo verso le masse che scandisce la storia del dominio borghese in questo paese. Ma invece di impaurire i rivoltosi, il bastone del potere li radicalizza. Alla fine, il presidente De La Rúa, assediato alla Casa Rosada dai manifestanti, deve fuggire in elicottero…

Da questa esperienza sorgono i “piqueteros”, organismi di disoccupati autorganizzati che bloccano la circolazione stradale, rivendicando i loro più elementari diritti e coinvolgendo i passanti nella lotta. Si assaltano banche, supermercati, palazzi governativi, …mettendo in moto una serie impressionante di nuove realtà di lotta, che vanno ad aggiungersi alle iniziative dei compagni. Come nel caso del Polo Obrero, organismo di massa facente riferimento al Partido Obrero.

La tradizione del radicalismo di massa, sfociante in frequenti scioperi generali non “di facciata”, non è mai cessata nel movimento operaio argentino: tredici se ne fanno tra il 1983 e l’’89. Nove tra il ’90 e il ’93. Ancora nove tra il 2000 e il 2001. D’altronde, occorre rimarcarlo, si è avuta la forza di scioperare anche in piena dittatura militare.

Forme di lotte trasversali e pure fantasiose di mille Comitati, molti di quartiere (le “Cortes de Rua”), di associazioni giovanili, femministe, ecologiste, di casalinghe, delle indomite Madres di Plaza de Mayo”, degli “Hijos”, si sommano a quelle “verticali” condotte dai sindacati. Come la CTA (Central de Trabajadores de la Argentina), postasi in opposizione al collaborazionismo storico dei vertici CGT.

Una ricchezza di lotta vera quanto plurale la quale, pur non riuscendo del tutto ad impedire i trabocchetti del potere, ha al contempo ereditato e rilanciato una storica lotta radicale che è nel DNA del proletariato e delle masse argentine.

Con la presidenza dei coniugi Kirchner (2003-2015), peronisti di sinistra, si è riproposta la ricetta del dirigismo; non solo come ricetta per “frenare le masse”, ma anche come viatico per tessere accordi al di fuori del Continente americano. Si è ri-nazionalizzato in alcuni settori (vedi il colosso petrolifero YPF), espandendo il Debito Pubblico e cercando di coinvolgere in tale politica settori del mondo lavorativo, con un’abile opera di divisione. Un esempio: i “Piani di Lavoro”, rivendicati dai “piqueteros”, ma fatti diventare miseri sussidi di Stato in cambio di omologazione, corruzione e svilimento di parte del movimento rivendicativo.

Saranno proprio Debito Pubblico e iperinflazione (scaricati sui proletari) a far terminare la via intrapresa dai Kirchner, aprendo nuovamente una autostrada, se si esclude l’interregno Fernandez (2019-’23) al liberismo selvaggio di Macri (2015-’19) e poi dell’attuale ultrareazionario Milei.

Il quale in un anno di governo ha sì ridotto l’inflazione (comunque sempre intorno al 200%), ma al prezzo di aumentare il tasso di povertà del 52,9% (dati INDEC, l’Istituto di Statistica argentino). Cose del resto già viste a più riprese. Tutte puntualmente scaricate sul proletariato.

Di fronte a tale tourbillon di fanatici esponenti del capitale, faccendieri della crisi politica latente di un capitalismo fortemente indebitato, in preda a una persistente voragine inflattiva, in cerca di una sua collocazione dentro un contenzioso imperialista in cui è declinante il riferimento d’area statunitense, e in cui lo scontro di classe aumenta, è più che mai d’attualità assimilare la lezione argentina.

Tocca ai compagni rivoluzionari di questo paese riprendere il fondamentale contributo dato alla lotta proletaria internazionale da parte del movimento operaio argentino.

Tocca a loro, ed a noi, riallacciare quel filo rosso della solidarietà fattiva e dell’internazionalismo proletario che è oggi il sale della lotta al capitalismo, alle sue crisi, alle sue guerre.